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n. 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - 9 - 10 - 11 - 12 - 13 - 14 - Verona, 5 Gennaio 2017

Riduzione dell'orario
e 4a Rivoluzione Tecnologica

    Al contrario dello scenario post-industriale, nel quale un sistema manufatturiero altamente automatizzato e produttivo ha mantenuto in vita un enorme settore terziario a bassa produttività e ad alta intensità di lavoro, con il nuovo paradigma tecnologico information-intensive si determinerà l'innalzamento della produttività anche all'interno dei servizi liberando una enorme quantità di tempo lavorativo. Questo è lo scopo dichiarato della trasformazione in atto. E' fatta perché gli uomini producano di più e meglio con meno sforzo e in minor tempo.
    Finora, la razionalità economica implicita nel nostro sistema è sempre riuscita a reimpiegare il tempo economizzato in nuove forme addizionali di ricchezza, in nuove attività economiche, ma la prossima Rivoluzione tecnologica sarà un'onda che economizzerà tempo contestualmente in tutte le attività umane.
    Sia l'utopia industrialista che quella post-industriale ci avevano promesso che lo sviluppo delle forze produttive e l'espansione della sfera economica, avrebbero liberato il genere umano dalla scarsità e dall'ingiustizia. Di queste utopie resta in piedi ben poco. Ciò non significa che tutto è ormai vano e che non ci resta che sottometterci al corso delle cose. Significa che è necessario cambiare utopia; perché, fino a quando resteremo prigionieri di quella che sta crollando, saremo incapaci di cogliere il potenziale di liberazione insito nel mutamento in corso, e di trarne profitto dando un senso a tale mutamento.
    Fino ad ora, il tempo di lavoro che, mano a mano e a piccoli passi, si andava liberando con lo sviluppo tecnologico e le riorganizzazioni è stato ridotto in modi estremamente differenziati: per alcuni è caduto a zero, per i più non è cambiato. È come se la riduzione del tempo di lavoro fosse concentrata solo su un segmento della popolazione. Ciò ha comportato differenziazioni ed esclusioni aggravando l'ineguaglianza, anche se il segmento, in periodi diversi, ha toccato punte del 15%. E se il segmento sfiorasse, in pochi anni, il 20 o 25% che succederebbe?
    Una delle funzioni della Politica, nei prossimi anni, sarà proprio quella di ripartire le economie di tempo di lavoro secondo principi non di pura razionalità economica ma di equità e di coesione sociale. Emanciparsi dai vincoli della razionalità economica non significa sopprimere la libertà d'impresa o la sfera delle attività mercantili economicamente razionali, significa assegnare a queste una funzione centrale ma non esclusiva, nello sviluppo della società.
    Una riduzione lineare del tempo di lavoro, come era stata pensata, e in parte attuata, in vari paesi d'Europa, col mantenimento di orari rigidi e uniformi, è la meno promettente e la meno efficace delle possibilità di liberare tempo.
    È evidente l'impossibilità di introdurre nelle imprese, uniformemente e per tutto il personale, la settimana di 35, 30, o 25 ore su cinque giorni. E' perfettamente possibile, al contrario, introdurre per tutti una durata annuale del lavoro di 1.400, 1.200 o 1.000 ore (al posto delle 1.600 attuali), ripartite a scelta, su 30, 40 o 48 settimane o ancora su un numero di giornate da 120 a 180 che, in ogni officina, ufficio, servizio o impresa, i membri del personale si ripartirebbero in funzione tanto delle esigenze tecniche e organizzative dell'azienda che dei bisogni o dei desideri di ciascuno: l'età, la situazione familiare, la lontananza del posto di lavoro, il progetto di vita.
    La questione spinosa dalla cui soluzione dipende la praticabilità di una simile strategia di riduzione degli orari è necessariamente: chi la finanzia e come si finanzia.
    Le possibili forme di finanziamento della riduzione d'orario sono QUATTRO.
    Con la PRIMA (costi delle imprese), si avrebbe l'effetto controintuitivo di ridurre l'occupazione e di aumentare gli straordinari e il doppio lavoro.
    Con la SECONDA (costi sopportati dai lavoratori), ci sarebbero da temere la compressione della domanda e anche effetti deflazionistici ove l'aumento delle spese dei nuovi occupati non bilanciasse la decurtazione delle retribuzioni dei già occupati.
    Con la TERZA (incrementi di produttività), è evidente che se un aumento sensibile della produttività attenua certamente il costo della riduzione d'orario, ne limita anche gli effetti positivi sulla nuova occupazione.
    Con la QUARTA (sussidi dello Stato), si può legittimamente sostenere che i benefici derivanti da un incremento dell'occupazione al Bilancio Pubblico, sotto forma di minori trasferimenti per la disoccupazione e di maggiori introiti fiscali e contributivi, consentirebbero di finanziare buona parte del costo dell'operazione. I paesi afflitti da un grosso Debito Pubblico dovranno muoversi, naturalmente, con estrema cautela.
    La migliore soluzione sembra essere una combinazione di queste quattro possibilità con un MIX concreto e realistico. Bisogna, in conclusione, aver sempre presente che un individuo vive mediamente 600mila ore e ne lavora circa 60mila. Se escludiamo 200mila ore dedicate al sonno, il lavoro non incide più del 15% sulle ore nette di veglia. Una percentuale che sale al 30% negli anni in cui è concentrata l'attività. Perché un così accentuato addensamento di tutto il lavoro in sei o sette lustri? Non sarebbe più utile, al contrario, una sua maggiore diluizione attraverso un “orario di ingresso” per i giovani anziché – come accade oggi – un salario e una qualifica più bassi, e quindi minori diritti? Analogo ragionamento si dovrebbe fare, considerando la fase di uscita dal lavoro, per gli ultrasessantenni.

    Tommaso Basileo

























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