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Verona, 16 Luglio 2020

Quale Futuro per la Democrazia?

    Abbiamo un compito essenziale al giorno d’oggi, seguendo la celebre “mappa” disegnata da Norberto Bobbio: dovremmo porre interrogativi radicali su temi come la giustificazione del potere, il buon governo, la stessa definizione di politica.
    Io mi colloco fra coloro per i quali l’insoddisfazione, nella sua accezione filosofica più ampia, che confina con la percezione della radicale contingenza del mondo, è la molla della ricerca teorica e dell’esperienza morale. E penso che questo valga in particolare per la riflessione politica, che pure richiede speciali doti di “prudenza”, e che dovrebbe perciò rifuggire, più di ogni altra disciplina, dal wishful thinking dei dottrinari e dei moralisti. IN TEORIA POLITICA UN ATTEGGIAMENTO REALISTICO DOVREBBE DISTINGUERSI E FARSI PREFERIRE SEMPRE per la sua capacità di essere tanto penetrante nella critica delle istituzioni potestative quanto prudente nella progettazione di alternative generali.
    Le prospettive non dico di sviluppo ma anche di semplice conservazione delle istituzioni democratiche nei paesi postindustriali appaiono molto incerte, e non solo per i rischi evolutivi delle “tendenze interne” ai sistemi politici che governano società insieme sempre più frammentate e sempre più complesse. L’incertezza del futuro della democrazia si deve anche a rischi esterni, cioè a fenomeni di dimensioni planetarie come l’esplosione demografica, le imponenti ondate migratorie destinate a innescare nei paesi democratici reazioni di tipo razzistico e violenti conflitti per l’attribuzione della cittadinanza (della stessa potenza deflagrante della contrapposizione al bolscevismo cento anni fa). Problemi ecologici, con il massiccio ingresso nella fase industriale di grandi realtà nazionali. La povertà e la diseguaglianza, pur diminuite, non sono ovviamente, giudicate, soddisfacenti. Continua, infine, a permanere il rischio militare, accresciuto dalla diffusione delle armi nucleari, chimiche e biologiche e l’inevitabile diffondersi del terrorismo, alimentato su scala internazionale dai paesi chiusi e senza sviluppo.
    Non esiste un pensiero politico e/o una capacità di governo a questo livello di ampiezza, complessità e interdipendenza dei problemi globali da risolvere. Questo non giustifica tuttavia, a mio parere, né alcun atteggiamento catastrofico o apocalittico né una chiusura autarchica che riporti gli stati dentro i loro perimetri nazionali.
    Sul terreno dell’ingegneria sociale (dove il modello appare più debole e vulnerabile) si potrebbe sostenere in chiave puramente congetturale l’esigenza di alcune soluzioni istituzionali che forse potrebbero in qualche misura prevenire i “rischi evolutivi” della democrazia.
    Fra queste intravedo anzitutto la costituzionalizzazione dei partiti politici. A questo riconoscimento formale dovrebbe accompagnarsi una rigorosa definizione (e limitazione) delle funzioni del partito, da realizzarsi nella forma di uno “Statuto pubblico dei partiti e degli operatori politici”, di rilievo costituzionale (oggi la degenerazione tollera che una Srl residente all’estero monopolizzi la politica nazionale).
    Occorrerebbe tener conto, in secondo luogo, dell’esigenza di una nuova divisione dei poteri che prenda atto, senza ipocrisie, del declino funzionale delle assemblee legislative. Il potere di emanare le leggi ordinarie dovrebbe essere attribuito al governo, mentre ad organi elettivi dovrebbero essere affidati ampi e reali poteri di ispezione e di controllo sulle attività dell’amministrazione.
    L’elezione diretta dei vertici dell’amministrazione potrebbe inoltre contribuire a limitare il potere di intermediazione dei partiti e ad assicurare maggiore stabilità alla funzione di governo.

    Una terza istanza, probabilmente quella decisiva (ma anche la più difficile da realizzare), dovrebbe essere la promozione di una comunicazione politica democratica veramente indipendente, affrancata sia dalla subordinazione al sistema politico che al sistema produttivo, e che possa rintuzzare con oggettività sistematica la propaganda falsa e denigratoria, rendendola oggetto di rigorose sanzioni civili e penali. La Politica, insomma, dovrebbe essere restituita alle sue funzioni laiche di organizzazione degli interessi particolari, di mediazione dei conflitti, di garanzia della sicurezza e di tutela delle libertà civili.
    Bisognerebbe sperimentare fino in fondo la fecondità euristica di una prospettiva sistemica liberalizzata. In questo quadro evolutivo, il sistema politico si presenterebbe come una struttura che svolge la funzione essenziale di “ridurre la paura” regolando selettivamente i rischi sociali.
    I regimi che chiamiamo democratici sono, più propriamente, dei sistemi autocratici e limitati o, in altri termini, delle oligarchie liberali. In questi regimi, però, si è realizzato, fino ad ora, un vivace equilibrio fra le istanze opposte della sicurezza e della complessità/libertà. In essi la struttura oligarchica del potere è sempre stata garantita dal pluralismo. A fare esplodere questo equilibrio, con il rischio che venga espulso ogni pluralismo, sono fiorite, come piante velenose, le istanze populiste/sovraniste. Tutto può saltare per aria. Sia l’articolazione interna delle funzioni potestative, sia il riconoscimento costituzionale delle libertà negative (lo stato di diritto) che hanno corrisposto, fino ad oggi, all’esigenza di conservare il livello di differenziazione e di complessità raggiunto dalle nostre società occidentali.
    In pericolo potrebbero essere i diritti individuali di libertà - proprietà privata, libertà degli scambi, habeas corpus, privacy, tolleranza religiosa - cioè gli istituti e le procedure attraverso i quali si realizza e viene formalmente sanzionata la reciproca autonomizzazione della politica e degli altri sottosistemi sociali. Il pericolo più grande potrebbe correrlo, con la diffusione delle teorie anti-sviluppo e la disgraziata crisi pandemica, in particolare l’economia di mercato. Questa esige la libertà del soggetto economico come una imprescindibile condizione funzionale, cosicché si potrebbe dire, parafrasando Schumpeter, che la democrazia liberale è un sottoprodotto non della competizione fra ideologie e partiti ma della differenziazione fra il sistema politico e il sistema economico.
    In questo senso, la conservazione della complessità sociale contro l’egemonia funzionale di qualsiasi particolare sottosistema – quello produttivo, quello scientifico tecnologico, quello religioso, quello sindacale e, anzitutto, lo stesso sottosistema politico egemonizzato da forze anti-sistema – è la premessa che la democrazia deve mantenere se intende distinguersi in termini non puramente formali dai regimi dispotici o totalitari.
    Uno strano dibattito è in corso in Italia, un dibattito strabico che oscilla pericolosamente tra richieste di limitazioni del suffragio universale e alla concezione della “sovranità popolare” senza limiti e determinazioni.

    Tommaso Basileo

























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