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Verona, 2 GENNAIO 2019

Da Weimar al Terzo Reich: era ineluttabile?

    Sono sempre più convinto che se si osserva attentamente il fenomeno del crollo di una democrazia, in una prospettiva globale, ad ampio spettro di determinazioni causali, non è possibile aggrapparsi solo alla semplice motivazione della “Depressione economica”. Storicamente, ci sono state democrazie che sono riuscite a superare gravi crisi economiche ed altrettante dittature che si sono affermate prima di una grave recessione o in seguito a cali produttivi e di occupazione non proprio drammatici (il caso italiano del 1922 ne è un esempio). Nella storia strettamente europea, tuttavia, non si può ignorare la correlazione tra intensità della crisi economica e percentuale dei voti a favore dei partiti fascisti. Ciò vale, soprattutto, per l'Europa centrale e dell'Est. Ma furono i tedeschi a lasciarsi sedurre più di tutti gli altri, probabilmente perché avevano subito gli stress più micidiali.
    IL CASO TEDESCO E' RESO UNICO DA DUE ELEMENTI.
    PRIMO:
    Non si riesce compiutamente a spiegare come fu possibile ad un gruppo di psicopatici criminali, intellettualmente scadenti, di conquistare il CONTROLLO TOTALE di quello che in molti consideravano, almeno fino al 1933, il paese più evoluto e sofisticato, forse a livello mondiale.
    SECONDO: Quasi tutti i paesi che, tra le due guerre mondiali, subirono il crollo del sistema democratico, erano paesi piuttosto arretrati, comunque, con un'economia prevalentemente agricola. In Germania, fortemente industrializzata, solo il 30% dei cittadini lavorava nei campi. Le università, le attività scientifiche, artistiche (si pensi al Bauhaus) e culturali in generale, non temevano confronti sia in Europa che con il Nord-America. Tutto il dinamismo germanico era, però, concentrato nelle grandi città, compresi i troppo numerosi episodi rivoluzionari e controrivoluzionari dell'immediato dopo guerra dal 1918-19. Nei piccoli e medi centri della provincia esisteva un'altra Germania che non si interessava un fico secco del frenetico modernismo delle metropoli e, invece, si sentì brutalmente traumatizzata dalla inattesa e incompresa disfatta militare del '18, dall'inflazione esplosiva, dalla disoccupazione e dai tumulti.
    Dopo l'abdicazione del Kaiser il 9 novembre 1918, la Germania fu sconvolta da continui, violenti, moti rivoluzionari. Il governo provvisorio, presieduto dal socialdemocratico maggioritario Ebert, dovette tenere a bada sia i fanatici militari nazionalisti che gli spartachisti filo-bolscevichi.
    LA REPUBBLICA DI WEIMAR SI LANCIÒ IN UN'ARDUA IMPRESA: creare le prime avanzate istituzioni liberal-democratiche insieme ad uno Stato sociale ma, al tempo stesso, pagare le riparazioni imposte dal Trattato di Versailles che ebbero come effetto l'iperinflazione del '23 (il dollaro valeva 4 marchi nel 1914, 62,6 nel '21, nel '23 superava i 7.000. La moneta si era volatilizzata). Tra il 1919 e il '23 ci fu un succedersi spasmodico di tentati colpi di Stato di destra e di sinistra, di oscuri omicidi da parte di sconosciute società segrete, compreso quello di Erzberger e Rathenau accusati del “vergognoso” Trattato di pace. Solo la creazione, nel dicembre del 1923, di una nuova moneta e l'adozione nell'aprile 1924 del Piano Dawes decisamente più blando per le riparazioni, e, soprattutto, l'avvento di un periodo di prosperità e di espansione economica mondiale dal '24 al 1929 ebbero come risultato di allentare la morsa dell'influenza nazista e di consolidare, in apparenza, la Repubblica di Weimar. I partiti governativi e moderati, nel frattempo, continuarono a frantumarsi in diverse fazioni mentre proliferavano i gruppi d'influenza. Poi, nel 1929, arrivò lo Tsunami della “Grande Crisi” proveniente da oltre Atlantico e la Germania affogò in una devastante deflazione che fece esplodere la latente e mai superata frustrazione del sentimento nazionale tedesco.
    L'esperimento di Weimar, a ben considerare, rimase in piedi 14 anni dal '19 al '33.
    Più a lungo, quindi, del Reich “Millenario”. Ciò fu possibile non solo grazie ai 5 anni di robusta crescita economica che riuscì ad intercettare e alle buone riforme che implementò ma, soprattutto, perché Ebert, divenuto presidente, al contrario di Vittorio Emanuele III, ebbe il coraggio di proclamare lo stato d'assedio contro l'eversione e di mantenerlo con il pugno di ferro.
    Naturalmente, si immaginarono e si provarono varie alternative prima di arrendersi ad Hitler, compreso l'incarico ad un personaggio inconsistente di estrema destra come von Papen, ma nessuna era veramente praticabile. L'unico provvedimento, morto Ebert, che avrebbe potuto prendere Hindenburg, appena eletto presidente, per evitare il Terzo Reich sarebbe stato sciogliere le Camere e mettere i nazisti al bando, ma pochissime personalità erano orientate su questa ipotesi, obbiettivamente tardiva (la Costituzione democratica del secondo dopoguerra prevederà la messa fuori legge di ideologie e organizzazioni anti-sistema).
    Il fascino incontenibile esercitato da Hitler e dai nazional-socialisti sui tedeschi era fondato, oltre che sul furioso nazionalismo che risarciva il popolo rancoroso dei patimenti subiti, sui rimedi prospettati contro la Depressione: un vasto programma di opere pubbliche e forti investimenti industriali prevalentemente militari. Quando social-democratici, cattolici e liberali obiettavano, ingenuamente, che quel programma di indebitamento pazzesco (anche se essi avevano sperimentato, nel quinquennio di crescita, l'effetto moltiplicatore degli investimenti) avrebbe fatto riesplodere l'inflazione e reso mostruoso il Debito Pubblico, non tenevano conto di due cose: che gli squadristi nazisti (300.000 organizzati in bande armate) si proponevano, con i loro metodi spicci, di “calmierare” i prezzi ma, soprattutto, che Hitler proponeva semplicemente ed esplicitamente, la strada dell'insolvenza armata (che venissero i creditori internazionali, Banche o Stati, a chiedere il recupero crediti a Berlino). Il Piano economico di Hitler funzionò benissimo nella concretezza della vita quotidiana del popolo. La follia e l'imbroglio si acquattarono dietro i risultati immediati prescindendo dagli scopi funesti tutt'altro che nascosti: quando Hitler diventò cancelliere c'erano più di 6 milioni di disoccupati. Nel 1939, in procinto di scatenare l'aggressione al mondo, i disoccupati tedeschi erano 34.000.
    Hitler dovette molto per il suo successo alla macchina infernale del marketing di Joseph Goebbels, un devoto del futurismo e della magia, che presentò Hitler al popolo tedesco come un miracoloso incrocio tra il Messia e Marlene Dietrich. Goebbels era un astuto manipolatore, feroce e vittimista, che seppe adattare il messaggio politico hitleriano ai diversi segmenti dell'elettorato prendendo spunti da tutte le parti. Fu un creatore e divulgatore instancabile di notizie false e tendenziose e di un linguaggio, fino allora sconosciuto, di sconcertante aggressività emotiva, nei confronti degli avversari. L'incapacità dei partiti anti-nazisti (come era già successo 11 anni prima nell'Italia vincitrice della guerra, solo a causa delle lotte intestine tra socialisti, con i massimalisti maggioritari incapaci sia di fare la rivoluzione che di concorrere al Governo) di stringere fra essi accordi politici e programmatici forti e coinvolgenti, fece il resto.
    I nazisti, entrarono in Parlamento per la prima volta con un piccolo manipolo di 14 rappresentanti nel 1928.
    Alle elezioni del 1930 presero il 18,3% di voti e 107 seggi diventando il secondo partito dietro l'SPD. Da allora trasformarono il Parlamento in una bolgia di scontri, ingiurie e minacce fisiche verso chiunque li osteggiasse. Nelle successive tornate elettorali ravvicinate, tenute nel caos generale, nel 1932 il partito nazional-socialista diventò il primo partito raggiungendo il 37,3% e, in seguito, il 5 marzo 1933 toccò il suo tetto con il 43,9%. Affermatisi inizialmente nelle zone rurali, del Nord e fra i ceti medio-bassi, i nazisti, nel corso di soli tre anni raccolsero consensi in tutte le regioni e in ogni classe sociale.
    I leader comunisti dovettero constatare con amarezza che in tutti i distretti a maggioranza operaia il partito nazista aveva fatto man bassa proprio dei loro consensi. Certo, in teoria, tra l'odio di classe e l'odio razziale c'era una bella differenza. Dove stava, quindi, il filo conduttore politico-culturale, psicologico e antropologico che facilitò la chimica di questa strana reazione tossica? Secondo me, bisogna prendere sul serio l'analisi che fece a caldo, dopo la cocente sconfitta, il capo del partito comunista di Sassonia: “Il bolscevismo e il fascismo condividono un obiettivo: distruggere il libero mercato e il partito Socialdemocratico”.
    La chimica, tuttavia, funzionò unilateralmente. Il 21 marzo 1933 i principali quotidiani bavaresi riportarono una dichiarazione di Heinrich Himmler – in quel momento capo della polizia di Monaco – che annunciava per il giorno successivo l'apertura, presso Dachau, di un campo di concentramento per funzionari politici e sindacali sia comunisti che socialdemocratici perché rappresentavano un pericolo per la sicurezza dello Stato.
    Poco più tardi vi furono rinchiusi ebrei, zingari, preti cattolici ostili alla marmaglia nazista e omosessuali. Sembra paradossale ma NEL 1991, APERTI GLI ARCHIVI DELL'EX URSS, abbiamo appreso che era proprio nel “Paradiso proletario stalinista” che i nazisti avevano imparato le tecniche dell'organizzazione concentrazionaria e dello sfruttamento neo-schiavista. Essi, poi, esercitando la loro peculiare malvagità e ossessione, inventarono i centri industriali dello sterminio.
    Un feroce sistema totalitario, nato per affermare la superiorità della razza ariana e per conquistare lo “spazio vitale” innescò, come era logico, date le premesse, una GUERRA TOTALE provocando ca. 60 milioni di morti. Solo Winston Churchill capì in anticipo, perfettamente, cosa ci si poteva aspettare dai nazisti. Una Democrazia imbelle, che non sa difendersi dagli assalti totalitari, finisce per essere corresponsabile delle tragedie che necessariamente ne conseguono (la tolleranza democratica non si può concedere agli intolleranti, ci ha insegnato K. Popper).

    Tommaso Basileo

























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