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Verona, 21 Dicembre 2021

Il cantiere Giapponese 1945/51: modello unico per esportare la Democrazia?

    IIl 2 settembre 1945, dopo aver raccolto sul ponte della portaerei USS Missouri la resa incondizionata del Governo del Sol Levante, il generale Douglas Mac Arthur si trasferì in un ufficio di Tokyo per diventare il plenipotenziario militare con pieni poteri: scrisse la nuova Costituzione liberal-democratica del Giappone e impose tutte le riforme politiche ed economiche, censurò i media e “rieducò” un popolo imbevuto di nazionalismo e militarismo. Così furono gettate, in quegli anni, le fondamenta di una cultura rispettosa dei diritti individuali e pacifista.
    La rinascita del Sol Levante, che diventò di nuovo una superpotenza, ma solo nel campo economico e tecnologico, maturò nei cinque anni e mezzo di quell’esperimento senza precedenti: la “dittatura militare americana” in un paese dell’Estremo Oriente. In Europa, per tante ragioni, quel cantiere non fu mai compreso nella sua portata e dinamica, perché, spontaneamente, spuntava fuori il parallelismo con la Germania. L’analogia era, però, superficiale. La Germania aveva assaggiato 14 anni di democrazia, durante la Repubblica di Weimar, e possedeva una numerosa classe dirigente intermedia e importanti politici anti-nazisti tornati dall’esilio.
    Come riuscì a Mac Arthur, un capo militare profondamente razzista, convinto della superiorità dell’Occidente, animato da pulsioni autoritarie, realizzare tante cose giuste, al momento giusto, nel luogo giusto? Questo è un vero mistero. Tuttavia, l’imposizione del suo modello rispose, evidentemente, ad aspirazioni profonde della società giapponese e ne seppe valorizzare molte tradizioni dimenticate.
    “Quando le truppe americane vittoriose invadono il Giappone” racconta lo storico Dower “molti di loro si aspettano un confronto traumatico con un popolo di fanatici adoratori dell’imperatore; gli vengono incontro delle donne che salutano festosamente i soldati al grido di yoo-hoo, uomini che s’inchinano con ossequio chiedendo in cosa possono rendersi utili”. Certo, è facile la tentazione di spiegare quest’accoglienza come servilismo o rispetto confuciano dell’autorità. Ma la realtà è più sottile e complicata. Molti giapponesi si sentirono veramente liberati. Anzitutto dalla fame: la follia bellica è stata possibile solo grazie a privazioni terrificanti. Tre milioni di morti. Un quarto dell’economia distrutto, polverizzato dai bombardamenti. Il popolo era esaurito e disperato, sfinito e depresso.
    Mac Arthur fece venire dall’America squadre di giovani tecnocrati, sia civili che militari, i quali non sapevano nulla del Giappone, ne ignoravano la storia e la lingua. Erano stati allevati nel New Deal rooseveltiano. Il generale aveva poco in comune con quei “criptosocialisti” cresciuti intorno ai coniugi Roosevelt, tranne l’assoluta fiducia nello Stato, nella pianificazione, nel dirigismo. Buona parte delle riforme che fece calare su Tokyo si ispirava al modello sociale ed economico con cui l’America degli anni trenta cercò di attutire le sofferenze della Grande Depressione. Come non abbiano combinato disastri, con quei chiari di luna, è un mistero e un miracolo.
    Al Giappone vennero dati d’autorità nuovi diritti dei lavoratori e nuovi poteri per i sindacati. Le riforme economiche smantellarono la grande proprietà terriera, in omaggio all’ideale americano per cui la democrazia si fonda su una società civile autosufficiente. Vennero dissolti gli zabatsu, i colossi monopolistici a proprietà familiare che avevano dominato il capitalismo bellico unendo grande industria, banche, società di import-export.
    Smilitarizzare e democratizzare furono i due obiettivi delle riforme politiche. Infatti, la nuova Costituzione, oltre a essere democratica, fu pacifista: vietava il riarmo, ammetteva solo limitate forze di autodifesa. Vennero liberati i prigionieri politici, molti dei quali erano socialisti e comunisti. Il diritto di voto fu esteso per la prima volta alle donne. Fu abolito il culto di Stato, privilegio riservato alla religione Shinto. Partì una campagna di massa per riscrivere i testi scolastici che coinvolse gli insegnanti che erano stati i disseminatori dell’ideologia nazionalista del regime. Vennero incaricati di una sorta di censura dal basso e insieme agli allievi cancellarono interi brani di esaltazione della guerra e dell’impero, nell’attesa che arrivassero nuovi manuali impregnati di pacifismo.
    Un mistero e un miracolo, in parte, spiegabili: Molte correnti nascoste, della società e della cultura giapponese, che avevano sognato libertà e diritti umani anche prima della guerra, si impadronirono dell’aiuto insperato arrivato dall’alto e da fuori per fare avanzare quelle conquiste.
    La storia del miracolo economico giapponese non è meno misteriosa, avvincente e affascinante di quella delle riforme democratiche. Nel 1960 il Giappone diventò la quinta economia mondiale dietro USA, Germania Ovest, UK e Francia. Nel 1968 li superò tutti, salvo gli USA.
    L’intervento attivo dello Stato nell’economia, in Giappone, dura dalla seconda metà dell’Ottocento. Mai veramente convertiti al liberalismo, i governanti democratici nipponici hanno cercato di orientare e aiutare lo sviluppo economico. Non è un dirigismo che vuole imporsi su tutto. E’ solo su alcune industrie strategiche, che richiedono molti capitali e tanta innovazione. Il fatto che il miracolo giapponese sia stato propiziato da un mix di capitalismo e socialismo continua a generare stupore e discussioni fino ai nostri giorni, ma resta incomprensibile se non si indaga la costruzione dell’armonia sociale e l’affermazione di un sindacalismo del consenso e della cogestione.

    IL 1989 SEGNA LA FINE DEL MITO GIAPPONESE. Il crac, la successiva stagnazione e l’indebitamento abnorme dello Stato hanno prodotto il lungo, graduale, declino di quel modello economico: stabilità senza crescita. Durante la crisi pandemica Covid, lo Stato ha erogato a tutti i cittadini nipponici l’equivalente di 900 Euro. La misura ha fatto flop: non ha rilanciato i consumi interni e la produzione ma ha gonfiato i risparmi già elevatissimi e l’acquisto in casa dei titoli del Debito Pubblico schizzato al 266% sul Pil. Continua, dunque, la stagnazione sorretta dall’indebitamento.
    Ma il Sol Levante resta un’economia solida, una potenza tecnologica, una società colta e raffinata, una nazione che ha dato risposte originali ad alcune delle sfide contemporanee come l’invecchiamento demografico o il cambiamento climatico.
    Finito nell’ombra di una Cina sempre più ingombrante, non sembra aver sofferto troppo per il declassamento nello status. Questo identico modello originale di esportazione del sistema democratico non è stato più replicato né durante la Guerra Fredda né successivamente.

    Tommaso Basileo

























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