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Verona, 28 Gennaio 2021

Quando Matteo Ricci
avvicinò la Cina e l’Europa

    Quando il padre gesuita Matteo Ricci si lanciò nelle sue avventure asiatiche, le trucide guerre di religione tra cattolici e protestanti insanguinavano l’Europa. L’Italia era un campo di battaglia attraversata da milizie mercenarie straniere. Il nemico per eccellenza che occupava la Terra Santa attentava alla sicurezza stessa dell’Europa cristiana spingendosi fino alle porte di Vienna. L’avanzata ottomana fu fortunosamente bloccata dalla Lega Santa tra la Spagna, Venezia e il papato a Lepanto.
    Era viva, in quell’epoca, un’idea germinata fra noi nel tardo Medioevo delle crociate: se si fosse riusciti ad aggirare la vasta terra nemica (il Medio Oriente) controllata dall’Islam, più oltre si potevano trovare dei potenti alleati per la cristianità, da arruolare in una coalizione comune.
    La prima tappa dell’avventura asiatica di Ricci nel 1578 lo portò a Goa in India, poi a Cochin nel Kerala. Nel 1582 si trasferì a Malacca e a Macao, sempre seguendo gli avamposti del nascente imperialismo portoghese. L’anno dopo fece il suo sbarco nella Cina continentale; prima a Zhaoqing nella regione di Canton, poi a Shaozhu, Nanchino, Nanchang. Il gesuita non lascerà più la Cina che diventerà la sua seconda patria per quasi trent’anni. Morì a Pechino nel 1610.
    Padre Ricci era un intellettuale polivalente, formidabile mente matematica, dotato di eccezionale curiosità e capacità di apprendimento, fu attratto a tal punto dalla civiltà cinese da adattare il proprio messaggio cristiano, ai limiti dell’eresia.>Il gesuita si impose da subito un ambizioso obiettivo: spiegare l’Occidente cristiano ai cinesi e decifrare per noi la Cina buddhista e confuciana. Un’operazione grandiosa, immensa, che gli riuscì solo in parte e lo condannò ad essere spesso incompreso sia dagli uni che dagli altri.
    Senza venir meno al mandato originario – evangelizzare i cinesi – capì che il rispetto confuciano per la conoscenza era la chiave per far breccia nella classe dirigente locale. Più che a convertire il popolo egli puntò soprattutto al proselitismo fra i mandarini, le élite, i sovrani. Quella di padre Ricci diventò presto una sorta di competizione scientifica, per impressionare i dirigenti cinesi con un’esibizione delle migliori conoscenze occidentali. Gli daranno man forte più tardi altri due gesuiti-scienziati giunti in Cina, i padri Rho e Schall.
    La cosa straordinaria e in parte paradossale fu che i gesuiti in Cina utilizzarono e diffusero le più avanzate teorie astronomiche che la Santa inquisizione aveva condannato e perseguitato come eretiche: idee di Copernico e, più avanti, quelle di Galileo e Keplero. Usando la scienza più moderna dell’epoca, i gesuiti corressero alcune imperfezioni del calendario lunare cinese, con grande vantaggio per l’organizzazione dei raccolti agricoli che lo applicavano.
    Tra le doti di padre Ricci c’era una memoria prodigiosa, allenata sistematicamente attraverso dei metodi che si tramandavano dalla Grecia antica. Il “Palazzo della memoria” di Ricci era una tecnica che consisteva nel memorizzare le cose (cifre, vocaboli e segni di una lingua straniera, concetti, persone o eventi storici) associandole a stanze di un immaginario palazzo, con ripostigli, armadi, tutti custoditi mentalmente. Ricci offrì astutamente questo metodo ai cinesi come la strategia vincente per passare i concorsi di ammissione all’alta burocrazia imperiale. Concorsi costituiti da esami difficilissimi e iperselettivi che imponevano grossi sforzi mnemonici.
    Lo sforzo di adattare il messaggio cristiano alla Cina gli suggerisce di evitare la messa in latino; scese a compromessi con taoismo e buddhismo per tradurre in mandarino il nostro concetto di Dio. Via via, però, che s’immerse nello studio di Confucio, il gesuita capì che il più grande pensatore della storia cinese era sostanzialmente agnostico. Nell’insegnamento di Confucio non c’era posto per Dio né per l’immortalità dell’anima. Anche il buddhismo delle origini era ateo.
    Ricci si conquistò il rispetto dei mandarini cinesi più illuminati: nella sua mentalità scientifica e razionale essi videro un’alternativa alla superstizione delle masse. In quanto al ruolo d’interprete-divulgatore delle credenze cinesi in Europa, il gesuita fece un’operazione simile a quella che San Tommaso d’Aquino aveva fatto con Aristotele.
    La questione dei “riti cinesi”, venne strumentalizzata negli scontri politico-religiosi in Europa. Papi, re, ordini religiosi diversi si scontrarono sulla Cina, in realtà per regolare altri conflitti di potere.
    Non giovò a Ricci il fatto che lui poté esibire un numero limitato di conversioni; e la crescente ostilità verso il cristianesimo da parte di una Cina che cominciò a intravvedere le ambizioni espansionistiche degli europei.
    Due secoli dopo l’avventura di Ricci in terra cinese la sua eredità venne celebrata da uno dei più importanti intellettuali francesi che ispirarono la rivoluzione del 1789 e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Montesquieu, nel capitolo dedicato all’impero cinese nel suo famoso “Lo spirito delle leggi” coniò quel concetto semplicistico che ebbe una enorme fortuna e influenza, in seguito, sul modo di vedere la Cina da parte di noi occidentali: “Per la sua immensità, e per la sua densità abitativa, la Cina non può che essere governata attraverso l’obbedienza servile a un governo dispotico. E tuttavia, si tratta del miglior dispotismo al mondo”.
    La formula del “dispotismo orientale” diventò una delle chiavi di lettura standard utilizzate da molti autori, in Occidente, persino da Marx. Mi auguro vivamente che questa chiave di lettura della realtà cinese sia un anacronismo che quel grande popolo e quella grande civiltà sapranno prima o poi superare.

    Tommaso Basileo

























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