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Verona, 15 Febbraio 2021

Ad ogni grande Pandemia
il suo Rinascimento?

    “Il mondo non sarà più lo stesso” si sente ripetere come un mantra, da un po’ di tempo. Qualcuno si spinge più in là: “Dopo la pandemia potrebbe esserci un nuovo Rinascimento”. Questo ottimismo dogmatico è sicuramente contagioso perché ciascuno tende ad incollare agli scenari del futuro le proprie preferenze ideologiche, i propri desideri.
    La Storia, però, ci racconta un canovaccio molto diverso: decadenza di intere dinastie, imperi, civiltà, e l’avvento di nuove epoche. Gli storici europei dei nostri tempi hanno analizzato usando tutte le potenzialità tecnologiche e scientifiche di cui disponiamo oggi l’epidemia Antonina e l’hanno descritta come il potente, fondamentale acceleratore della fine dell’Impero romano. La peste del Trecento è stata considerata – insieme con altri fattori tra cui il cambiamento climatico – una delle levatrici del Rinascimento e di profondi mutamenti politici in tutta l’Europa. Quella del Seicento, raccontata dal Manzoni nei Promessi sposi, precipita il declino dell’Italia.
    La peste inglese del 1665 indebolisce il regno e sguarnisce a tal punto i ranghi della forza pubblica che nel 1666 il grande incendio di Londra imperversa per una settimana devastando il centro della capitale. Settantamila londinesi rimangono senza tetto, scoppiano rivolte sanguinose.
    L’idea che un’epidemia sia spesso seguita da un collasso dell’ordine sociale è molto chiara nelle pagine del Manzoni e non solo. Questa idea si è talmente consolidata nella memoria storica, che all’arrivo del coronavirus nel 2020 abbiamo avuto un immediato aumento delle vendite di armi negli Stati Uniti: molti cittadini (tra loro, una percentuale elevata di donne) dopo il contagio e la crisi economica prevedevano rapine, saccheggi e violenze.
    Nel 1793 una pandemia di febbre gialla arrivò in America dall’Africa sulle navi degli schiavisti, trasmessa dalla zanzara Aedes Aegypti e con tassi di mortalità del cinquanta per cento. Sterminò un decimo della popolazione di Philadelphia, allora capitale degli Stati Uniti. Costrinse alla fuga in campagna il presidente George Washington, il suo governo e l’intero Congresso, contribuendo ad imprimere nella giovane classe dirigente della nuova nazione un radicato pregiudizio a favore del modello rurale e contro i “miasmi” delle città. Nel Settecento, come oggi, New York in quanto porto globale è il canale d’ingresso di tutte le infezioni venute dal resto del mondo. Nell’estate del 1832 la fuga dei ricchi dalla città, stavolta contagiata dal colera, viene paragonata dai contemporanei “al panico di Pompei sommersa dalla lava”. La ricorrenza di pandemie negli Stati Uniti dell’Ottocento contribuisce alle legislazioni restrittive sull’immigrazione; vengono prese di mira singole etnie, in particolare la cinese.
    Lo studioso di geopolitica Robert Kagan, ha rivisitato il ruolo della spagnola del 1917-18 collocandola al centro di una concatenazione di eventi – due guerre mondiali, la Rivoluzione d’ottobre in Russia con relativa guerra civile, la Grande depressione, i nazi-fascismi – nei quali quella terribile influenza ha un impatto cruciale sovrapponendosi ad altri traumi collettivi e moltiplicandone la durezza.
    Al di là delle suggestioni apocalittiche, perché le grandi epidemie da millenni possono davvero decidere il corso della storia umana? Ci sono spiegazioni razionali. Da un lato la calamità sanitaria ha una conseguenza diretta sulla popolazione, può decimare alcune aree geografiche, alterare gli equilibri demografici, sconvolgere i rapporti tra le fasce di età, prolungare l’indebolimento fisico di alcune categorie anche dopo la fase dell’emergenza. Poi c’è lo shock economico, che impoverisce ancor di più le comunità già fiaccate dalla malattia. Infine l’epidemia diventa un test, una prova sulla tenuta dei governi, di interi sistemi politici e sociali, sulla loro solidarietà, compattezza, efficienza. Per tutte queste ragioni il mondo post-pandemia può essere profondamente diverso. Le nazioni ne escono stremate, ma alcune concorrenti reggono meglio all’esame. Si potrebbe costruire una mappa dei rapporti di forza prima e dopo una pandemia. Perfino all’interno di uno stesso Paese il test a volte dà risultati divergenti.
    La devastazione economico-sociale prodotta dal Covid 19 e i differenti impatti determinatisi nelle diverse realtà ci è nota attraverso alcuni dati statistici diffusi dal FMI ad inizio 2021: l’economia-Mondo ha subito una recessione media di -3,5% del PIL. L’Unione Europea ha patito una recessione media di -7,2%, l’India del -7,5%, gli USA -3,4% e la Cina (unico paese al mondo in crescita) +2,3% (anche se l’anno precedente viaggiava al +7,4%). Decine di milioni i disoccupati tra l’UE e gli USA. I Debiti sovrani di tutti i paesi OCSE sono aumentati mediamente del 30% sul PIL per le indispensabili spese dovute al sostegno dei redditi, alla caduta del gettito fiscale, e agli investimenti in conto capitale per la ripartenza.
    Bisognerebbe essere cauti nei pronostici. Quando siamo ancora sotto lo shock di una tragedia immane viene spontaneo dire: “Il mondo non sarà più lo stesso”.
    In realtà, salvo la scomparsa delle persone care che nessuno può restituirci, le catastrofi ci cambiano meno di quanto crediamo, o di quanto vorremmo.
    NON È SCONTATO CHE NE SAPREMO ESTRARRE LE LEZIONI GIUSTE.
    Per forza d’inerzia, per quella dote che chiamiamo resilienza, le comunità umane tendono a voltare pagina in fretta, a dimenticare, appena il peggio è passato. Solo raramente queste grandi prove sono delle catarsi da cui si esce con una qualità morale migliore, ci purificano come individui e come nazioni. Ma spesso le calamità esasperano le debolezze preesistenti, rendono ancora più nefasti i vizi dei singoli e delle comunità attraversati dalla paura e dai rancori.

    Tommaso Basileo

























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