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Verona, 23 Settembre 2021

La declinazione Green
farà ri-splendere il mito del New Deal?

    Il 1929 si tramanda nella memoria di generazioni successive ma per quel che accadde dopo. In sé non fu un evento eccezionale. Il capitalismo fin dalle origini era segnato da un ciclo perpetuo di boom and bust, euforia e panico, prosperità e depressione, distruzione creatrice e instabilità.
    Il ricordo della Grande Crisi non è durato in eterno.

    Nel 1999, la legge Glass-Stegall è stata abrogata (Presidente B. Clinton) cancellando la prevista separazione fra banche commerciali e d’investimento, e i banchieri sono tornati a fare cento mestieri talvolta opachi e contraddittori. Sui mercati l’innovazione tecnologica ha partorito strumenti finanziari sempre più complessi, veloci e sofisticati come i DERIVATI su cui le banche e i privati poterono investire a leva grazie alle enormi liquidità, quasi a costo zero, che la FED di Alan Greenspan mise a disposizione. Si è realizzata anche una disintermediazione: oggi il credito si reperisce in tante forme, emettendo titoli e vendendoli direttamente in Borsa, senza bussare alla porta dei banchieri. Gli hedge funds o le società di private equity muovono capitali anche superiori a quelli delle banche. Come a dire: le lezioni apprese nelle crisi non durano per sempre; si fatica a tramandare la memoria da una generazione all’altra; le ricadute sono probabili, anzi certe se mettiamo nel conto lo tsunami finanziario del 2008.

    Credo sia utile, tuttavia, analizzare per sommi capi, ma realisticamente, il mito del New Deal, ritornato prepotentemente in auge dopo lo tsunami finanziario del 2008 e la grave crisi pandemica del 2020.

    Le riforme di Roosevelt sono state un succedersi incalzante e disordinato di idee talvolta geniali, spesso preveggenti, in anticipo sui tempi, anche se avevano qualche analogia con esperimenti dirigisti condotti, nello stesso periodo, dai regimi autoritari in Europa. Alla rinfusa, possiamo dire che Roosevelt sperimentò la distruzione di eccedenze agricole per far salire i prezzi pagati ai contadini, prefigurando quel che farà la PAC dell’UE mezzo secolo dopo. Rafforzò i diritti sindacali lasciando fuori, però, l’agricoltura. Varò ampi programmi di sussidi ai disoccupati, di investimenti in opere pubbliche. Fondò la Social Security, forse la più influente e durevole di tutte le sue creature: è il sistema pensionistico in vigore tuttora negli USA. Fece qualche intervento diretto dello Stato nell’economia – nell’energia idroelettrica -, ma su questo terreno restò ben più cauto e tradizionalista rispetto a quel che accadeva in Europa.
    Il mito costruito a posteriori sull’epopea rooseveltiana non deve farci velo.
    Al di là dell’entusiasmo per l’atmosfera idealista, la serietà, la competenza e la moralità delle personalità pubbliche al vertice dello Stato in quel periodo, quell’atmosfera, sorretta da artisti, scrittori e intellettuali di alta caratura, non giustifica i giudizi entusiastici (più politici che storici) sui risultati: le riforme americane degli anni Trenta furono molto meno efficaci di quanto si crede e si continua a ripetere a pappagallo, almeno nel curare la GRANDE emergenza, cioè la disoccupazione di massa.
    Il New Deal fino al 1939 fu, sostanzialmente, protezionista e isolazionista. Praticò dazi, barriere doganali e svalutazioni competitive. L’America già negli anni Trenta aveva l’economia più ricca del pianeta ma sembrava indifferente alle conseguenze della propria politica economica sul resto del mondo. La versione “internazionalista” di Roosevelt ebbe il sopravvento solo con l’inizio della seconda guerra mondiale.

    L’economista britannico il liberale Keynes viene spesso associato a sproposito al New Deal, come se ne fosse stato l’ispiratore. In realtà, le idee di Keynes – innovatrici o perfino rivoluzionarie – ebbero, semmai, una storia parallela. A volte coincisero con le riforme di Roosevelt e sembravano legittimarle; altre volte il pensatore inglese fu in totale disaccordo con il presidente americano. Il New Deal non fu affatto una panacea contro la depressione. Per tutto il primo decennio fino alla seconda guerra mondiale la produzione industriale recuperò solo metà del suo rovinoso crollo iniziale e la disoccupazione scese, certo, dal suo picco del 25% ma rimase ad una media del 17%.
    E’ utile ricordare un aspetto quasi sempre messo in sordina: il 1937 fu l’anno di una ricaduta tremenda.
    Venne chiamata “Roosevelt Recession”, con altri crac di Borsa, crolli di produzione industriale, panico. Durò poco ma fu esemplare della non raggiunta stabilità, della vera fuoriuscita dalla crisi. Una teoria in circolazione in quell’epoca ipotizzò si trattasse degli effetti di uno “sciopero dei capitalisti”
    . Fu, però, da quel momento che Roosevelt si convertì veramente al deficit spending keynesiano
    : un modello che lasciò invariate le regole dell’economia capitalistica, non intervenne sulla distribuzione dei redditi tra capitale e lavoro. E’ in questa fase che le loro strade diventarono convergenti: di ambedue si disse, in seguito, che “salvarono il capitalismo da se stesso”, ne curarono le tendenze autodistruttive preservando però un’economia di mercato, in una fase in cui, a ben vedere, esistevano robuste alternative fondate sui Piani Quinquennali nei regimi autoritari e dirigisti a Berlino e a Mosca.
    Fu solo in conseguenza della mobilitazione militar-industriale che si azzerò la disoccupazione, l’apparato industriale si rimise a correre e che il debito pubblico americano raggiunse per la prima volta un livello inaudito: nel 1946 il 106% del PIL. Poi scese per decenni, molto giù, fino a un quarto di quel valore record.

    Abbiamo dovuto aspettare le misure adottate per tamponare la grave crisi finanziaria del 2008 per veder risalire, in termini robusti, il Debito USA. Ma è la pandemia del 2020 che vede il prodigio: il debito federale degli Stati Uniti superare il record della seconda guerra mondiale raggiungendo (con l’ultima iniezione di 6.000 Mld di $ operata da Biden) quota 156% del PIL
    AL POSTO DELLE SPESE MILITARI
    oggi a far schizzare in alto l’indebitamento, oltre alla necessità di fronteggiare tutti gli effetti immediati e devastanti della depressione pandemica con il sostegno ai cittadini e alle imprese, c’è IL PIANO DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA-ENERGETICA che tinge di GREEN il New Deal e ne sta rivitalizzando il MITO, negli Stati Uniti ma, soprattutto, nel vecchio Continente. Le stesse dinamiche riguardano l’Europa che con il New Generation UE ha portato il suo Debito Pubblico medio al 130% sul PIL (Italia 159).
    Ciò che mi sembra poco realistico è l’obiettivo europeo di raggiungere la Climate Neutrality entro il 2050 con il “solo sviluppo delle rinnovabili”, senza un accordo globale e senza mettere in conto l’idrogeno (da subito) e la fusione (entro 2035). Temo possa essere l’ultima manifestazione eurocentrica, un vero “miraggio” che costerà caro potendo incidere solo sul 9,8% delle emissioni CO2 (Cina 27% - USA 15% - India 7% - Russia 5%). E potrebbe rivelarsi un colpo duro per la competitività industriale europea.
    L’Unione Europea dovrebbe
    , invece, aiutare la Ricerca per accelerare la maturazione del nuovo nucleare se si vuole raggiungere, realisticamente, la decarbonizzazione e la transizione energetica. Si delinea, peraltro, una molto promettente filiera italiana nella tecnologia dei nuovi reattori SMR (Smal Modular Reactors), facente capo a Stefano Buono collaboratore di Rubbia al Cern: scorie irrilevanti, altissima sicurezza, abbattimento verticale dei costi, localizzazione resa più semplice dalle mini-dimensioni, il tutto entro il 2027. Comunque la si pensi, a me pare abbia ragione il Ministro Cingolani: “Se ne può almeno parlare o è un argomento Tabù?”

    Tommaso Basileo

























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