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Verona, 21 Ottobre 2022

Intelligenza Artificiale:
uno sterminato orizzonte

    F in dall’inizio risalente al 1956, quando lo scienziato informatico John McCarthy organizzò un convegno nel New Hampshire, questa nuova tecnologia definita Intelligenza Artificiale, ebbe notevole difformità da ogni altra invenzione nella storia delle conquiste. Dal bastone, alla lancia, alle armi da fuoco, agli aerei a reazione, alle navicelle spaziali, le varie estensioni via via escogitate hanno sempre avuto lo scopo di potenziare le capacità umane: colpire più forte, colpire da lontano, volare tra le nubi alla velocità del suono, esplorare lo spazio. Una serie continua di prodigi.
    L’IA, al contrario, non ha la pretesa di superare le nostre capacità, si accontenterebbe di avvicinarsi per imitazione a quel groviglio di neuroni, sinapsi, segnali elettrici e chimici, reti di connessioni che è il nostro cervello. Lo scopo dichiarato è di essere il punto più ambizioso della rivoluzione digitale in atto. È una tecnologia che imita alcune capacità umane riuscendo a farlo a velocità e con abilità di calcolo molto ma molto superiori. Inoltre, uno degli aspetti stupefacenti dell’IA è la rapidità dei suoi progressi. Nel mondo sono al lavoro cento laboratori (di cui tre in Italia coordinati dalla Sapienza di Roma dalla Professoressa Rita Cucchiara) con ricercatori di altissimo livello sovvenzionati da ogni tipo di fondazione, industria, istituto finanziario, organismo pubblico, servizi segreti. Questa massa di investimenti e la qualità degli specialisti impiegati dicono chiaramente che è illusorio pensare di porre un limite alla ricerca anche quando ci si dovesse rendere conto di una qualche deriva che sfugge di mano.
    In un futuro imminente ci saranno macchine capaci di imparare dai propri errori e di compiere azioni o elaborare deduzioni non previste dal loro programma iniziale. Ci si è già cominciati a chiedere quanti posti di lavoro le nuove macchine faranno saltare dando risultati più veloci, minore percentuale di errori – e nessuna rivendicazione sindacale.
    C’è però una questione che supera anche quella già grave dell’occupazione. L’IA avrà molto presto una presenza costante nelle nostre vite, libererà uomini e donne da molte incombenze ripetitive e noiose, robot affettuosi accudiranno con grande delicatezza bambini vecchi e malati, cambieranno i pannolini ai neonati, eseguiranno un’operazione di neurochirurgia, daranno le medicine giuste all’orario previsto a chi ne ha bisogno, puliranno casa e sforneranno pane caldo e croccante nell’orario impostato. Benvenuta dunque l’IA, ma quali conseguenze avrà in molti atti e momenti della nostra esistenza?
    Fumetti e barzellette ci hanno abituato a robot con fattezze umanoidi. Non è quasi mai così, i robot che assemblano automobili sono solo delle poderose braccia meccaniche capaci di prendere un pezzo di lamiera, sagomarlo secondo necessità, saldarlo a un altro pezzo per poi spedire il prodotto al robot successivo, tutta la loro intelligenza finisce lì.
    L’auto che si guida da sola è già molto più complicata. Chi sarà responsabile d’un eventuale incidente? Poi c’è la nanorobotica – robot di dimensioni nanometriche, capaci di agire Isolatamente o a sciami – fino a sistemi complessi in grado di prendere iniziative dettate dalle circostanze. Quindi, una macchina in grado di pensare? NO, non esageriamo, solo obbediente all’algoritmo.
    Tutto questo allora ci autorizza a definire intelligenti queste macchine meravigliose dal momento che non sappiamo nemmeno bene come definire l’intelligenza umana? Jerry Kaplan, che insegna Computer Science alla Stanford University, offre dell’intelligenza – umana o elettronica che sia – questa succinta definizione: capacità di fare generalizzazioni appropriate in modo tempestivo contando su una limitata base di dati.
    A questo punto però si affaccia una variante della domanda fondamentale, cioè se davvero l’intelligenza umana sia riassumibile in una qualche formula per quanto ingegnosa. I nostri neuroni possono essere più lenti delle connessioni elettroniche di una macchina, in compenso hanno una duttilità incomparabile potendo immagazzinare ricordi, elaborare informazioni visive, controllare gli innumerevoli movimenti del corpo, generare le emozioni che ci fanno piangere o ridere, predisporre l’organismo all’atto amoroso, guidare il nostro comportamento obbedendo nella maggior parte dei casi ad alcune norme etiche; soprattutto generare la coscienza di noi stessi, cioè la consapevolezza di esistere e di dover morire: biografia, esperienze, ricordi, affetti – la nostra mente, il nostro io.
    Le macchine saranno mai capaci di tutto questo? Più ancora: saranno mai consapevoli di poter fare tutto questo? Perché alla fine questa è l’intelligenza: sapere di sapere e non solo imitare meccanicamente il sapere.

    Tommaso Basileo

























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