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Verona, 26 Febbraio 2021

L’incredibile incontro
con Ian McEwan
nell’estate del ‘66

    Nell’estate del 1966, a Tripoli, appena conclusi gli esami di maturità, e prima di prendere il largo per l’Italia e l’Università, mi diedi alla pazza gioia con i miei compagni. Ricordo che eravamo raggianti, felici, ma non ci accorgevamo mai di esserlo. Chissà perché a diciotto anni, l’assimilazione di un sentimento così benevolo ci trovi sempre impreparati, distratti, e ci si senta attraversati piuttosto dalla nostalgia della felicità, o dalla sua perenne attesa.
    Con la scusa di far pratica diretta della lingua inglese, alcuni di noi studenti italiani, frequentavamo con una certa assiduità il Wheelus Field: la base militare USA situata a 11 Km da Tripoli. Era necessario farsi rilasciare un apposito pass per accedere alla zona dei servizi che ci interessavano: il dancing e la sala bowling.
    Lì incontravamo stupende pulzelle figlie degli ufficiali americani di stanza nella base con le relative famiglie. La cosa ci attraeva particolarmente per la disinvoltura e la libertà che caratterizzava quelle ragazze a confronto con le nostre connazionali.
    Fu giusto durante una serata al bowling che feci la conoscenza di Ian McEwan. Si avvicinò al nostro gruppetto solo soletto con molta circospezione e, con malcelata timidezza, ci chiese se poteva aggregarsi a noi. Non era esattamente un principiante come aveva cercato di farci credere. Era ben coordinato e potente nei tiri. Infatti, si piazzò subito in testa nella gara e mantenne la sua supremazia quasi fino alla fine della partita per essere superato, alla fine, per un soffio, da Ascer Raccah, il nostro campione.
    Prima di trasferirci tutti al dancing, sostammo un’oretta per bere e sgranocchiare qualcosa al bar del bowling. Familiarizzammo subito io e Ian. Una simpatia spontanea. Mi raccontò che aveva trascorso diversi anni da ragazzino a Tripoli, anni stupendi di mare e di sole. Anni di relativa solitudine, però. Era con suo padre che se la spassava nelle vaste e deserte spiagge libere nelle vicinanze di Tripoli, entrambi amavano molto il mare. Dal 1960 era tornato definitivamente in Gran Bretagna con la famiglia. Aveva appena terminato il liceo nel Suffolk. Suo padre era un militare di sua Maestà Britannica e a lui era toccato seguirlo con la madre, di base in base, dal centro Europa, a Singapore e infine a Tripoli. Ora era lì in vacanza con i genitori come regalo per il suo diciottesimo compleanno che cadeva il 21 giugno. Erano ospiti della famiglia di un amico e collega del padre, uno scozzese anche lui, graduato dell’esercito, che stava preparandosi a traslocare da Tripoli. Infatti, la base militare inglese sarebbe stata ufficialmente chiusa ai primi di settembre del ‘66 e gli addetti trasferiti nelle altre basi nel mondo. All’amico del padre era toccata la destinazione di Cipro.
    Sentendo che il padre era un militare di carriera gli chiesi se avesse preso parte alla guerra di Libia nel ‘42. “Certo” mi rispose “sotto il comando di Montgomery, aveva trent’anni, ed era molto motivato a battere i nazi-fascisti”. Allora, pensai tra me a mio padre che, poveretto, a 38 anni, operaio marmista, da socialista turattiano quale era, toccò in sorte di essere inquadrato sotto il comando di Rommel e venne ferito e catturato ad El Alamein.
    I miei amici e io stesso avevamo la fregola di trasferirci al dancing. Ognuno di noi faceva da tempo coppia fissa con una ragazza americana.
    Notai che Ian era un po’ titubante a trasferirsi al dancing insieme al nostro gruppo. Ci disse che era lì solo per giocare al bowling, non aveva messo in conto di andare al dancing. Dopo che fece una telefonata al padre tornò rinfrancato. Al dancing si ambientò subito e si scatenò allegramente sulla pista. Era un vero appassionato di rock’n’roll. Ad un certo punto lo vidi che guardava pensieroso l’orologio. Mi accertai di cosa fosse preoccupato: temeva semplicemente di perdere l’ultimo bus che lo avrebbe potuto riportare a Tripoli. Lo tranquillizzai dicendogli che lo avrei accompagnato io in macchina. Accettò subito di buon grado, ma mi guardò meravigliato: “Hai già la tua auto?” mi chiese. “No” risposi sorridendo “E’ l’auto di mia sorella. Vedrai che bolide”.
    Lasciammo il dancing verso le due accaldati e un po’ stanchi. Nel parcheggio indicai l’auto con cui lo avrei accompagnato a casa. La osservò attentamente, ci girò attorno e disse: ”Beh, non è male: un bel colore una forma sportiva”. Era una AutoUnion con motore a due tempi che andava a miscela. Mio padre l’aveva regalata a mia sorella comprandola da un Nuovo Concessionario figlio di un suo amico, così, tanto per dare una mano al giovane intraprendente. Quando partimmo vidi Ian attento ad ascoltare il rumore insolito del motore, a percepire il leggero tremolio della carrozzeria e lo strano olezzo di carburante e ad un certo punto sbottò: “Cazzo! sembra di stare su un taglia erba”. Dovetti fermare un attimo la macchina e accostare perché vennero ad entrambi le convulsioni dalle risate.
    Durante il tragitto verso Tripoli ci confidammo le nostre reciproche scelte sugli studi: lui aveva deciso di iscriversi a Lettere nell’Università del Sussex, io a Economia nell’Università di Padova sede distaccata di Verona. Fu lì che saltò fuori qualche indizio sulla sua vocazione e l’ impegno futuro: “Leggo come un dannato e mi piace veramente un sacco scrivere racconti” mi svelò.
    Ci lasciammo i rispettivi indirizzi e numeri di telefono, della sua famiglia in Gran Bretagna e quello della mia a Tripoli.
    Francamente, credevo non ci saremmo rivisti mai più. Invece, tre anni dopo mi arrivò una telefonata a Verona dove vivevo. Lo riconobbi subito prima che si annunciasse. Aveva avuto il mio indirizzo di via San Paolo 24 e il mio numero di telefono perché aveva contattato i miei a Tripoli, parlando in francese con mio padre. Mi disse che era a Venezia con la sua ragazza, che erano diretti a Roma, ma volevano fare tappa a Verona per non più di un giorno e una notte. Mi pregò di consigliargli una pensioncina economica. Li invitai a casa mia senza accettare discussioni. Ero rimasto solo da due mesi: la mia compagna Dana Worlova, la ragazza cecoslovacca che viveva con me, era dovuta rientrare a Brno perché la madre non stava bene. Ne avevo di spazio, quindi. Avrei lasciato loro la camera e mi sarei sistemato per quell’unica notte in salotto su un divano.
    Li andai a prendere alla stazione di Porta Nuova. Lui aveva l’aria un po’ hippy ma con la moderazione che metteva in ogni cosa. Quando vidi la sua ragazza che sbucò all’improvviso alle sue spalle, sobbalzai esclamando: “Ma è Twiggy?” (longilinea, viso d’angelo e miniabito da sballo). Si misero a ridere perché evidentemente non ero stato il primo a fare quell’accostamento. Arrivati a casa mia per sistemare i bagagli, Ian si guardò intorno e notai che due cose lo avevano impressionato positivamente: la libreria tutta parete che stava in camera oltre quella che aveva già incontrato nel corridoio, e poi, tra i numerosi quadri, sopra la scrivania, una stampa che additò guardandomi negli occhi: “E’ Gramsci” disse. Li portai a fare un giro turistico per il centro di Verona che li lasciò letteralmente entusiasti. Feci loro visitare, a due passi da Castel Vecchio, i locali dell’attività artigiano-commerciale che stavo ultimando: un laboratorio di produzione borse con annessa boutique. “Complimenti”, mi fece Ian, “mi entusiasma sempre l’intraprendenza in ogni campo. Io sono focalizzato sulla scrittura, ho una fantasia galoppante, l’avrò presa da mia madre”. Notarono l’insegna sulle vetrine, il nome banale che avevo scelto per la ditta: “Il Marsupio”. Ian mi disse subito: “vedrai che lo scambieranno per il tuo cognome”.
    “Assolutamente si” risposi “sono già diventato il Sig. Marsupio”.
    A pranzo andammo alle “Sei Barche” una trattoria in fondo a via XX Settembre, dove ero di casa. Nel pomeriggio li scarrozzai sul lago di Garda e la sera, tornati a Verona, mangiammo qualcosa alla “Bottega del Vino”. Avevamo quasi finito di degustare la cenetta quando irruppe Sandro (un compagno FGCI) che, come spesso faceva, si mise a scandire col suo vocione cavernoso: “Viva Marx, Viva Lenin, Viva Mao Tse Dong”. Così, tanto per fare innervosire le mammolette che aveva avvistato, con un colpo d’occhio, entrando. Quando mi videro ridere i miei commensali risero di rimando.
    Dopo che la sua ragazza si congedò per andare a letto perché stanchissima del giro a tappe forzate che avevamo fatto, noi due passammo la serata a raccontarci un po’ quello che stavamo combinando nella nostra vita. Ian mi disse che aveva fatto i salti mortali per permettersi quel viaggio di cinque giorni in Italia. Faceva lavoretti saltuari per mantenersi. Si era iscritto ad un corso universitario di scrittura creativa e aveva ultimato alcuni racconti brevi che si augurava di poter pubblicare prima o poi. Ma ci scambiammo anche le nostre opinioni sui movimenti studenteschi, la fine di Dubcek, la maledetta guerra del Viet-Nam, i torbidi americani con l’assassinio di Luther King e Bob Kennedy, l’odioso apartheid in Sud Africa, e ci trovammo in tutto e per tutto d’accordo.
    La mattina della partenza per Roma, sentii i due piccioncini trafficare in bagno, poi Ian venne a bussare alla porta del salotto. Vidi subito che era preoccupato e girando lo sguardo in direzione della camera notai “Twiggy” che piangeva. Alla morosa era scivolato nello scarico del lavandino l’anello che lui le aveva comprato a Venezia: era disperata, si sentiva stupida e in colpa. Credeva d’averlo perduto.
    “Nessun problema” esclamai sorridendo. “Twiggy” si rianimò all’istante e mi guardò incredula tirando su col naso. Tirai fuori l’occorrente, smontai il sifone del lavandino e l’anello cadde rumorosamente nella bacinella sistemata sotto. Salti, baci, abbracci e urletti di gioia.
    Con Ian mi risentii solo in un’altra occasione, tre mesi dopo il nostro incontro a Verona. Anzi, fu lui che mi chiamò quando seppe del colpo di Stato di Gheddafi in Libia ricordando che la mia famiglia vi risiedeva ancora. Mi disse che gli dispiaceva moltissimo ma che l’essenziale era che la comunità non avesse subito violenze. Quando mi salutò aggiunse una nota che, in seguito, mi parve veramente profetica: “Con il nazionalismo arabo e l’estremismo islamico, caro Tommy, vedremo i sorci verdi noi occidentali nei prossimi lustri”.
    Non ci sentimmo mai più. Naturalmente, nei decenni successivi, sia io che lui cambiammo diverse residenze e recapiti telefonici sia per ragioni di lavoro che per problemi familiari ma, soprattutto, lui era diventato una impegnatissima celebrità mondiale.
    Ho letto tutti i suoi libri pubblicati in Italia da Einaudi. Una scrittura eccellente. Temi complessi e originali. Un successo meritato. Poi, nel 2016 mi capitò di leggere una sua intervista. “Ecco” mi dissi “è sempre lui con la sua vocazione cosmopolita, aperta, da cittadino del mondo”.
    L’intervistatore, Enrico Franceschini, fra le tante cose attinenti alla sua attività letteraria, gli aveva chiesto cosa ne pensasse della vittoria della Brexit al Referendum. Ian aveva risposto: “Il mio paese è in uno stato di confusione totale e di depressione assoluta. Noi vi abbiamo salvato dai nazisti, adesso toccherebbe a voi salvare noi dalla Brexit. Mi sembra di vivere in una forma di idiozia collettiva, come durante la stupida guerra all’Iraq”.

    Tommaso Basileo

























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