L'occhio indiscreto
Poltronissima di Prima Visione

di Luca Dresda

 

 


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L'ORA DI RELIGIONE

di Marco Bellocchio

Con: Sergio Castellitto, Jaqueline Lustig, Chiara Conti, Gigio Alberti, Toni Bertorelli, Piera degli Esposti, Maurizio Donadoni.

Sceneggiatura: Marco Belloccio

Genere: Drammatico.

Nazione: Italia.

Durata: 102 minuti.

24 Maggio 2002

M i trovo in un forte imbarazzo a dover scrivere di un film che viene acclamato come un'opera coraggiosa, profonda e ben fatta in un anno, a dire il vero, piuttosto magro per la produzione italiana.
«L'ora di religione» è un film sulla fede, o meglio sul ritrovamento o la scoperta di sé, sul rapporto dialettico tra Chiesa e non credenti, tra autorità e spinta alla ribellione e all'individualità.
Un pittore molto accreditato ma non famoso per la sua vena rivoluzionaria, riceve la visita di un emissario del Vaticano che gli porta l'invito ad un colloquio con un Cardinale. Motivo, la canonizzazione di sua madre. Ernesto cade dalle nuvole. Non ne sa nulla e vorrebbe essere lasciato fuori da questa storia che sa di disonesto. Ma cerca di capire. Parallelamente, suo figlio pare essere colpito dai discorsi dell'insegnante di religione. «L'ora di religione» fa capolino nella sua vita di adulto ateo e mette in risalto le crepe nella sua vita di artista.
A questo punto cominciano una serie di incontri più o meno onirici, sognati o vissuti che portano Ernesto all'interno di un mondo a lui non alieno ma da lui rifiutato da tempo. La sua famiglia in effetti è di origini aristocratiche e nella paura del decadimento ha tentato questa scorciatoia della canonizzazione. Un fatto economico prima di tutto.
Aristocrazia, ateismo, arte ribelle, una Chiesa rinchiusa in una logica di potere, questi sono gli ingredienti di un'opera che se fosse stata realizzata 30 anni fa sarebbe certamente stata definita un prodromo della peggiore stagione della "Nouvelle Vague" italiana.
È facile scorgere nella figura di Ernesto Picciafuoco, Belloccio stesso che si erge a vittima di un sistema fagocitante. Lui, il ribelle di talento, in mezzo alle mille pressioni ad integrarsi e a cedere alle lusinghe del mercato.
È facile anche individuare una carenza stilistica tipica di un certo cinema che vuole autodefinirsi "autoriale". Un cinema che si celebra da sé, eliminando il pubblico e la critica come fece con magistrale ironia Carmelo Bene in teatro. Sembra che Belloccio come molti altri "autori" di cinema nostrano, guardando all'ultimo dubbioso Godard di «Je vous salue Marie» abbiano tratto le conclusioni opposte al senso comune cinematografico: un opera di contenuti non deve essere condizionata dalla tecnica.
Questo lungo discorso mai terminato coinvolge molti registi internazionali. Ken Loach per esempio in Inghilterra, gira con un rigore stilistico che rasenta il piattume, per scelta, una scelta cosciente e non presuntuosa o pretestuosa, un modo per sottolineare i contenuti e farli volare. Lo stesso fa da anni Moretti, anche se in questo caso è più un eredità "autarchica" che una scelta competente.
È difficile invece capire come tematiche così vecchie e superate possano ancora animare la mente di un intellettuale se non per un senso di nostalgia di antiche battaglie che sono ormai dissolte nel privato della corsa allo status symbol e alla fame di fama.
Mi sembra che chi ha affermato che Belloccio è stato coraggioso, non si renda conto che quella Chiesa che lui raffigura è un entità scomparsa. Oggi la Chiesa Cattolica è ramificata, ha mille anime, da quella No-Global a quella reazionaria, da Pax Christi a Opus Dei, da Azione Cattolica a Rete Lilliput, dalla Teologia della Liberazione a CL. Lo stesso Papa dice un giorno qualcosa di "sinistra" e il giorno dopo per "par condicio" religiosa afferma un concetto estremamente conservatore. È una chiesa furba sì, ma dalle mille sfaccettature. E certamente non ha quella presa sulle coscienze come aveva negli anni '60.
Anche il discorso della fede come merce di scambio economico è una polemica mai sopita che data forse tardo Rinascimento. Vogliamo ancora dire che Bellocchio ha avuto coraggio?
Mi pare triste che un Festival come Cannes totalmente privo di contributi italiani tranne questo film, spinga l'ambiente e soprattutto certi politici (che non smettono mai di mettere bocca in settori che non competono loro) a fare buon viso a cattivo gioco.
Una nota di merito a Castellitto che si conferma un ottimo attore, maturo e pieno di sfumature interessanti. Certo, va detto, il suo personaggio è anche l'unico che parla una lingua vera, in carne ed ossa, probabilmente perché come alter ego dell'autore, ne incarna i pensieri e le domande. Al contrario gli altri personaggi parlano in modo letterario, scritto, quasi fossero apparizioni oniriche, fantastiche, invenzione di una mente creativa.
È forse ora di dire basta a questo cliché del cinema d'autore italiano. È forse ora di rompere questa schiavitù tutta nostrana del dover per forza essere Antonioni o Pasolini, altrimenti si diventa Neri Parenti o Vanzina. C'è un'infinità di possibilità in mezzo. E soprattutto non è vero, o meglio non è più vero che l'opera che si capisce poco è una vera opera d'arte. Non è vero che il simbolo è sinonimo di profondità. Questo valeva negli anni '70 nella rottura del dominio incontrastato di una cultura che mirava alla rappresentazione patinata della società. Quel ipersimbolismo serviva come rottura della superficie razionale, per spingere l'arte e la cultura nelle viscere di una dimensione inconscia, alla ricerca di una nuova identità, di un nuovo senso.
Un film noioso, ed esteticamente brutto.
Speriamo nella prossima stagione produttiva.

Voto 4.

Luca Dresda

 


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