L'occhio indiscreto
Poltronissima di Prima Visione

di Luca Dresda

 

 


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LA DEA DEL '67
di Clara Law
Con: Rose Byrne, Rikiya Kurosawa, Nicholas Hope.
Genere: Dramma/On The Road.
Sceneggiatura: Eddi Ling - Ching Fong - Clara Law.
Nazione: Australia. Durata: 118 minuti.

26 Febbraio 2001

Chi è nato prima della fine degli anni '60, non potrà mai scordare quella singolare macchina della Citroën che ha influenzato il gusto e l'immaginario del costume dell'epoca. In Italia è, a tutt'oggi, conosciuta come Lo Squalo dalla sua forma allungata e per quei fari che sembrano veramente simulare gli occhi di un mostro marino. Ma la sua caratteristica fondamentale sono le sospensioni idrauliche. Un sistema originalissimo e spettacolare. All'accensione, tutto il corpo macchina si eleva di qualche centimetro dal terreno, prima anteriormente e poi posteriormente, con un effetto da navicella spaziale. Un modello del genere ha stuzzicato per anni l'ingordigia dei cultori dell'estroso, e poi dei collezionisti di Miti da modernariato. Pochi sanno, oltre tutto, che quel possente mezzo ha vinto una quantità record di Rally in utto il mondo, stupendo e affascinando. Il suo appellativo, che forma il titolo del film, è dovuto alla traduzione della pronuncia originale francese del modello in questione. Citroën DS, DéEsse. Dea. Goddess. Uno scherzo del destino o un calambour voluto?
Non è affatto una sorpresa allora che lo spunto nasca in Giappone, terra d'appropriazione dei simboli degli anni del Boom economico europeo. E' risaputo, per esempio, che gran parte delle 500 esistenti nel mondo, sono finite nell'isola del Sol Levante con buona pace di chi se n'è disfatto con troppa leggerezza.
La storia prende spunto dall'amore di un giapponese (Boy) per questo simbolo degli anni '60. Trova via Internet un venditore e si precipita in Australia ad acquistarlo. Ma le cose prenderanno una piega insolita. Il padrone della DS e sua moglie si sono uccisi a vicenda in una discussione estrema sulla vendita, e Boy troverà ad attenderlo la sexy e cieca Deidre con la sua nipotina. Inizierà un viaggio verso il passato della ragazza che in qualche modo scavalcherà il tema inziale, l'auto-mito, e arriverà a una sorta di incartamento su se stessa.
Deidre, nella sua infermità, è sempre stata preda del mondo, delle sue minacce, di un nonno incestuoso, che dalla madre passava con disinvoltura alla nipotina, convinto che non poteva che fargli piacere. Eh già, come può non essere così, questo è il ragionamento di tutti gli stupratori, estranei o parenti che siano.
Questa è l'opera di una regista di Macao certo non al debutto che mantiene una brillantezza e una freschezza piuttosto inusuali, anche se in effetti la parte finale si trascina all'interno di una dimensione che non gli giova. La macchina diventa testimone di un dramma familiare consumato per due generazioni. Anche questo contribuisce ad elevarla a mito, archetipo del viaggio. Deidre non può fare altro che ritornare nel luogo della sua crescita deviata, laddove è stata vittima indifesa di un sopruso dal quale la madre ha avuto il coraggio di sottrarla. La cecità qui assume un significato quasi metafisico. È proprio grazie alla sua estrema sensibilità, a questo "guardare dentro" le cose, verso la loro essenza, che Deidre può puntare diritta verso la propria purificazione.
Sembra purtroppo che quest'ultima parte sia stata aggiunta in un modo piuttosto artificioso, allungando un brodo che poteva benissimo conservare un gusto vivace senza. Ma la cosa che colpisce di più è la finzione. Finzione degli scenari, dei fondali, quasi come negli anni '50 con l'aggiunta di una fotografia estremamente virata su colori digitali e sintetici. Finzione di una rappresentazione teatrale, giocata in spazi infiniti ricostruiti in studio che creano un estraniante senso di claustrofobia. La Dea del '67, è un film sui sentimenti, sull'amore. Amore degli oggetti culto, della libertà, della scoperta, della verità. Un amore inconsapevole, in cui cade Boy, troppo concentrato a gustare le sensazioni di esaltazioni che emanano dalla sua nuova automobile. È anche un film dei tradimenti. Il tradimento degli affetti più cari, che possono giovare e possono nuocere. Tradimento dei propri propositi, tradimento di una dimensione sottostante inaspettata. Tradimento come svelamento, in fondo.
Non si può certo negare un certo fascino, una modernità che però affonda le sue radici in un senso della tradizione molto profondo (soprattutto nello script) e che forma una mistura dalle enormi potenzialità. Il rammarico è per un esperimento e un'esperienza che sembra incagliarsi proprio al momento dell'attracco, del suo acme incontestabile e che si sofferma in modo confuso e un po' pesante sul grande ritorno al nonno e sul bisogno di lei di liberarsi di quella macchia indelebile. E qui lo stile quasi Kusturicano non giova certo alla coerenza del disegno. Passa così in secondo piano un gioco di suggestioni fotografiche e registiche che sviluppa il piano della rappresentazione nella rappresentazione quasi fosse un interessante viaggio nel mondo delle fiabe.
Ottimi gli attori, senza eccezioni. Con Rose Byrne già premiata a Venezia e Rikiya Kurosawa con sfumature delicate e ineccepibili.
Da vedere comunque.
(6 e 1/2 su 10)

Luca Dresda

 


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