L'occhio indiscreto
Poltronissima di Prima Visione

           di Luca Dresda


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AMERICAN BEAUTY
di Sam Mendes
Con Kevin Spacey, Annette Benning
Genere: Drammatico-Pscicologico.
Durata: 2 ore circa

Sarò prolisso.
Una cosa mi è venuta in mente vedendo questo indiscutibile gioiello: forse sarebbe diventato un capolavoro con tutti attori sconosciuti. Se c'è qualcosa che non mi torna è proprio l'eccessiva luminosità di Kevin Spacey accanto ad una A Benning che non fa una piega, ma che non risulta insostituibile. Non so se sia un discorso inutile...
«American Beauty» lo collocherei in un filone non meglio identificato ma piuttosto corposo di neosentimentalismo globale. Certo, qui, l'intenzione è proprio di scalfire quella sostanziosa superficie incrostata di buone intenzioni e facce pronte per uno schiaffo volante. E la cosa che può veramente fare riflettere è quanto ogni volta si descriva questa cultura borghese e alienata dell'uomo moderno occidentale, ognuno di noi ha anche la possibilità di tirarsene fuori e considerarsi frutto di un seme diverso. Risiede proprio in questa contraddizione il circolo vizioso e la coazione che porta all'insuccesso di questa "reverie" di Lester Burnham. Si diceva che il potere rigenera se stesso. Che la ricchezza produce ricchezza. Beh, anche la cultura si rigenera e si autoproduce, e forse ha mille risorse in più per restare il più possibile simile a se stessa negli anni, tra cui la rigidità della mente umana.
«American Beauty» è un film non proprio originale, ma sicuramente controverso, dalle molte sfaccettature. E questo è dovuto a una costruzione di personaggi a tutto campo, contraddittori quanto sono contraddittorie le persone in carne ed ossa. Certo, questo stile tra il psichedelico e il Frick, tra il cinema "off" alla Sex Lies and Videotapes, e una nuova ondata di neo-cinismo critico alla Slodondz (Happiness), dicevo questo stile trasognato e "pissed off" ha il grande merito di sottolineare con grande cura la muffa che si è formata in una società che ormai è più interessata a non sporcare il divano del salotto che a cogliere il senso della propria esistenza. Voglio però aggiungere che la forza «American Beauty» la trae piuttosto da una sceneggiatura che non lascia respiro. Dialoghi sensati. Qui c'è da aprire una parentesi sul modo di lavorare degli Americans. Da una parte senza dubbio esiste una tradizione consolidata al "mettere in bocca agli attori" parole che non risultino forzatamente intellettualizzate o per forza pregne di significati, dall'altra la loro tendenza a valorizzare l'improvvisazione, in prova e anche girando, offre alla scrittura una ulteriore chance di sistemarsi nell'apparato fonatorio e uscire come petali di rosa. Chiusa la parentesi.
Questo figlio maturo di Altman, si tuffa senza timore di sporcarsi, nel mondo del quotidiano ordinario, dove la parola più odiata è proprio "ordinario", come a ricordare un bell'adagio psicoanalitico: odiamo nel mondo quello che rifiutiamo di noi stessi, attraverso il meccanismo della proiezione. Citazione psicoanalitica che non è messa a caso. Una delle battute che mi hanno colpito di più del film è: "mai sottovalutare il potere della negazione (denial)" detto da Ricky Fitts a Jane Burnham riferendosi a suo padre il Colonnello pseudo-semi-nazista. (Un padre come purtroppo ce ne sono. Un padre incapace di confrontarsi con il figlio adolescente per paura, per meschinità, ma soprattutto per negazione delle emozioni). Un ragazzo americano dei quartieri bene, figlio di un (ex?) Colonnello dei Marines di poche parole, ma dure, con una madre presa da una forma di mutismo isterico o semplicemente depressa o succube o inetta come credete, beh, un ragazzo di queste origini familiari può dire quella frase senza stupire nessuno. Il frutto della sottocultura (come lui stesso la definisce) diventa egli stesso il seme dell'annientamento di quella realtà. Ma la questione qui non è soltanto sviscerare il marcio che viene velato dalla musica da sala d'attesa, o tutto quello che d'inespresso e di rimosso palpita dietro una facciata di "normalità" che assomiglia più alla morte-in-vita che ad altro (e qui Coleridge è un grande maestro).
«American Beauty» non è una favoletta, una moralitate. È implicito che non si può cercare una trasformazione senza pagare un prezzo. E se diamo retta alle nostre intuizioni, la voce recitante che ci accompagna quasi fosse un Virgilio, in un moderno girone Infernale, quella voce non è di un'anima che parla dal Paradiso, quella voce appartiene ad un uomo trasformato. Prendiamo il film come una rappresentazione simbolica di un percorso di trasformazione e di cura, di rinascita e di purificazione. A questo punto la morte non è altro che l'atto con cui ci si separa da un'imagine di sé desueta, ormai inutilizzabile. Perché vivere in questa forma così alienante? Meglio morire, d'altro canto si è già morti... non è questo il senso del commento all'inizio del film (fatto in prima persona certo ma....)?? E se è vero che quell'uomo è un accompagnatore, una levatrice, alla maniera Socratica, «American Beauty» raggiunge le alte sfere della metafisica e della metapsicologia.
Ovviamente ognuno di noi può riempire gli spazi semi vuoti di significazione. In ogni caso, continuo ad interrogarmi, molto più che sul filmico in sé, sul girato, sull'uso della MdP (molto intrigante, sinuoso, con una fotografia pastello dai contorni netti, taglienti)... piuttosto mi interrogo sullo script, sul concetto insito nella sceneggiatura. È vero che non siamo di fronte ad uno shootage lineare, che la mistica filmica è attinta a piene mani, che questa lenta ma tenace insistenza sulle espressioni di Lester Burnham, consolidano un disegno che mostra le crepe in questo enorme ritratto del mondo "per bene". E voglio aggiungere che la simbolica usata in «American Beauty» deve molto ad una cultura "settantottina" sperimentale e psichedelica. Ma il peso, la forza, l'energia, ce la dà una storia coraggiosa. Nulla è scontato, neanche la bellezza dello script. Non è scontato altrimenti vedremmo storie del genere anche in Italia (perdonatemi ero riuscito a non parlare male dell'Italietta)... e ferisce quanto negli Studios abbiano capito che il buon cinema fa arricchire poco meno che le megaproduzioni commerciali, aumentando però la stima e l'affetto del pubblico (ormai nel marketing le variabili "emotive" sono importanti come quelle "razionali"), superandoci (a noi Europei) anche sul terreno propriamente nostro, delle storie, delle vite, dei personaggi, delle relazioni umane.
«American Beauty» è un capolavoro per la sua mancanza di compromessi. L'andare fino in fondo che è segno di grande chiarezza e di determinazione.

Luca Dresda

 


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