L'occhio indiscreto
Poltronissima di Prima Visione

           di Luca Dresda


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BROTHER
di Takeshi Kitano
Con: Takeshi Kitano, Kuroudo Maki, Omar Epps.
Genere: Drammatico-"Kitaniano".
Sceneggiatura: Takeshi Kitano.
Nazione: Giapponese-USA-UK.
Durata: 120 minuti

Possiamo parlare di un fenomeno che non riesce ad uscire dalla mera esaltazione dei cinefili stretti. Non è sicuramente il primo caso di un regista idolatrato, quasi portato ad esempio di una nuova grammatica, arrivando ad affermarne la genialità, la poesia, la sua mistica, che, nonostante questo, rimane confinato ad una cerchia di fruitori piuttosto limitata. È vero che il numero di spettatori non crea la qualità di un prodotto. È anche vero che l'uomo-massa, per usare un'espressione coniata da Ennio Flaiano, non ama le riflessioni, le complicazioni dell'arte, e cerca la distrazione, magari soltanto un momento di break in una vita fatta di routines. È anche vero che la stretta cerchia dei "competenti" di un'arte detiene una sorta di orgoglio dell'esclusiva nei confronti del valore di contenuti compresi da pochi. La cosiddetta élite culturale tipica della fine degli anni '60.
Ma esiste ancora un'arte d'élite? Esiste ancora la possibilità di delegare agli esperti la decisione su cosa sia arte e cosa sia semplicemente spazzatura? Ditemi chi li dà questi patentini, vorrei fare domanda anche io!?
Non vorrei affossare Kitano, né l'amore che lo attornia, anche perché ho visto solo questo film e non posso giudicarlo nella sua globalità. Certo è che, in questo caso, poco si vede di un autore-cult, ed è difficile credere che quello che viene proposto sullo schermo sia potenziale oggetto di adorazione.
Brother è la storia di un Boss della Yakuza che se ne va dal Giappone. È troppo solo, violento e imperscrutabile per poter rimanere a lungo capo, a meno di una guerra totale. Quello che tocca muore. Le sue poche parole mirano alla distruzione. I suoi silenzi sono soltanto la preparazione per un'altra sparatoria. Sangue, sangue e sangue. Un tempo questa continua fiumana di liquido ematico veniva chiamata "Splatter". Erano film di serie Z, più che indipendenti, isolati. Snobbati sia dalla critica che dal pubblico, sfruttati commercialmente da qualche produttore senza scrupoli che cavalcava il boom di produzione degli anni '70. Ora li potete trovare nelle edicole, riproposti ad intervalli regolari in collezioni un po' nostalgiche, più per il periodo che per i film in sé. Ma d'altro canto non siamo in epoca di rivalutazione?? Rivalutiamo tutto, i regimi totalitari, i reati, le differenze, quello che conta è trovare sempre nuovi argomenti che scatenino scalpore, moda, eccitazione, sfavillio di prime pagine urlanti.
Brother cavalca la moda per la violenza che diventa comica per la sua assurdità. Ma con una mancanza di ironia che a volte sembra sovrapporsi al desiderio di violenza più che a quello di schernirla e dissacrarne il valore barbarico.
Beat-Kitano (lo pseudonimo di Kitano-attore) il Boss se ne va in America a seminare il suo esempio di pura violenza senza discussione anche tra i giovani delinquenti di quella parte del globo.


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Il tutto continua come sempre. E, come sempre, porta alla distruzione, alla solitudine alla tragedia quasi totale. Questo personaggio è troppo, esageratamente temerario per non infastidire, troppo poco "pensante", troppo compiaciuto dei suoi crimini, troppo orgoglioso, violento, solo. È troppo per non desiderare un segnale di ribellione a quella spirale di violenza e di spoliazione interiore. Eh no, non aspettatevi pietà, "buonismo", dialettica tra bene e male, non aspettatevi che ci sia qualcuno che urla il suo dissenso, che spera un mondo diverso anche se impotente. Niente di tutto questo. Kitano ci fa arrivare a pensare di apprezzare la logica perversa e inumana della Yakuza, perversamente colorata di tradizione Samurai ma semplicemente mirata al Dio-denaro. E questo pensiero arriva all'acme alla fine quando il giovane nero, unico sopravvissuto di questa banda centrifugata dall'arrivo del Giapponese, urla il suo affetto doloroso alla morte dell'amico, lui che si trova libero, ricco e forse anche sulla via della salvezza.
Qui dovrebbe insinuarsi la poetica del regista nipponico: un lungo silenzio che non sottolinea, non commenta, ma evoca forse la mancanza di un vero punto di vista necessario. Per farla breve, ci guida in un'area dubbia. Forse siamo troppo abituati a voler combattere "moralmente" la violenza e le sue filosofie annesse, la poetica "anoracoide" del criminale libero, dell'uno-contro-tutti o nonostante-tutti, e in questo sentiamo la mancanza di una controparte, un altro piatto della bilancia con il quale misurare il valore di questo personaggio. Ma Kitano ci priva proprio di questa unità di misura e insinua il "misunderstanding". Che sia d'accordo con quel mondo? Che vi trovi dei valori da salvare? O è attraverso questa visione dal di dentro che cerca di svelarne le mostruosità e riesce forse a minarlo? E poi, quel manifesto con la frase, "Chi ha detto Giapponese di Merda?", ricorda troppo "Taxi Driver"... con Robert De Niro allo specchio che si allena davanti ad un fantomatico sconosciuto che lo avrebbe insultato. La storia del cinema o si rapina con arte o si rischia di rendersi ridicoli.
Un'ultima cosa. Nonostante l'enorme investimento in pubblicità della casa distributrice, l'incasso è molto più che deludente. "Ponte Milvio" che noi abbiamo recensito (non senza sollevare qualche dubbio), nella settimana in cui è uscito in una sala a Roma ha incassato quasi il doppio di "Kitano". Eppure le logiche delle distribuzioni, a prescindere dalla qualità, non premiano un prodotto italiano neanche di fronte a delle prove di botteghino. E le distribuzioni hanno scarso interesse a investire in "Made in Italy". Piccola digressione per sottolineare una volta ancora come la nostra esterofilia a volte ci dà la zappa sui piedi.
Concludo sul film dicendo che Kitano è sicuramente un caposcuola. Volenti o nolenti, ha in Giappone una serie di imitazioni a non finire, e un nome affermato ovunque anche grazie ad "Hana-BI" che ha vinto il Festival di Venezia (miglior film), il premio della critica al Festival di San Paolo e una serie di nomination e di altri premi da lasciare a bocca aperta.
Non può essere il frutto di un'allucinazione!
Voto 6-

Luca Dresda

 


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