L'occhio indiscreto
Poltronissima di Prima Visione

di Luca Dresda

 

 


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THE HOLE
di Nick Hamm
Con: Thora Birch, Desmond Harrington, Daniel Brockelbank, Laurence Fox, Keira Knightley, Embeth Davidtz.
Genere: Thrilling psicologico.
Sceneggiatura: Guy Burt (autore del romanzo da cui è tratto il film), Ben Cort.
Nazione: UK. Durata: 102 minuti.

14 Settembre 2001

Questo film è stato accolto negli USA con un certo scalpore, suscitando scandalo e diventando un piccolo caso. All'arrivo in Italia, invece, la critica ha un po' gettato acqua sul fuoco, ridimensionandolo come un prodotto deludente e a tratti inconcludente.
«The Hole» deve molto a «The Blair Witch Project», di cui ho parlato, e alla tradizione dei thriller psicologici americani che sempre più spesso si concentrano sulle figure dei serial killer. In effetti, se di indecisioni si può parlare nella tessitura della storia, si possono trovare in due aspetti che in qualche modo sono essenziali. Da una parte, la scelta di genere. All'inizio assistiamo ad una scelta registica tipicamente "horror". I titoli di testa richiamano, senza alcun dubbio (e pudore), all'ormai classico sulla strega di Witch. Tutto l'incipit è pieno di pathos, con quei colpi di scena improvvisi tipici di un film del terrore. Ma da un certo punto in poi, ecco il "twist" narrativo. Non ci troviamo più di fronte ad un mistero da svelare, non nel senso di una forza del male che può colpire o che lo ha già fatto, ma assistiamo allo svelamento di una personalità. Il film diventa quasi "Wellesiano", si insinua nei meandri della ricostruzione psicologica di una mente adolescenziale disturbata, cercando di afferrarne i tratti essenziali, o per lo meno di riconoscerli.
L'altro elemento che rimane sospeso senza una definizione che avrebbe certamente dato maggior peso alla storia, è il tipico dualismo, il conflitto, la sfida tra personalità contrapposte: da un lato il cattivo, dall'altro il buono. O meglio, da una parte il colpevole con i suoi ragionamenti labirintici, e dall'altra l'investigatore che viene suo malgrado coinvolto nella spirale di follia e morte. Entriamo nel vivo.
In un College esclusivo della Scozia, quattro ragazzi scompaiono a seguito di una breve vacanza di tre giorni. Solo una di loro tornerà, e la sua ricostruzione degli eventi è il cardine di tutto il film. Il regista sembra divertirsi a giocare con i generi (senza però coinvolgere troppo il pubblico) e passa disinvoltamente da una storia dalle tinte horror, ad un thriller psicologico focalizzato sul rapporto tra la protagonista, Liz (una Thora Birch bravissima che abbiamo visto già in «American Beauty» come figlia di Kevin Spacey), e la psicologa/investigatrice, ad un film-indagine sull'amore, o sulla follia che scaturisce dall'amore.
Liz è da sempre innamorata di Mike, un ragazzo americano figlio di una famosa rockstar. Solo che lei fisicamente non può competere con la modella con cui Mike è fidanzato. Il caso vuole che questa relazione scoppi e la mente di Liz vola al di sopra della realtà per concepire un piano dai contorni inquietanti.
«The hole», il buco, è un rifugio militare probabilmente risalente al secondo conflitto mondiale; è lì che Liz intende passare tre giorni con Mike. Per lo scopo coinvolge l'amica Frankie, che ha una tresca con Geoff, amico e compagno di squadra di Mike. Il tutto finisce tragicamente, con i quattro rinchiusi in una prigione senza via d'uscita, alle prese con i sintomi della sete e della claustrofobia e con Liz che accetta la deriva estrema pur di esaudire il suo desiderio di possedere il suo Mike. Qui il film assume i contorni di un racconto molto ben calibrato di stampo psichiatrico. Il delitto e la follia come ultima ratio dell'amore per esprimere se stesso. Ma Liz non mostra ripensamenti, la sua è una convinta e spesso convincente asserzione dell'essenza dell'amore, del desiderio in quanto tale, di quel sentimento che assurge a mistica e che non prevede in sé la possibilità di calcolare l'altro, se non come oggetto puro e semplice.
Il buco è quello spazio interiore in cui ci rifugiamo nel dolore. È quell'angolo recondito del nostro inconscio in cui ci atrofizziamo e in cui coviamo le emozioni più inconfessabili. È la stanza delle metamorfosi, dove un sentimento si può trasformare agilmente nel suo opposto senza esitazioni e dove si forma anche quel castello di giustificazioni e razionalizzazioni che ci conduce direttamente alla perdita di ogni contatto con il mondo reale.
Liz, così, realizza il tristemente famoso sogno di fermare il tempo nel momento migliore, quello dei sorrisi e delle parole dolci, della giovinezza e della freschezza, dell'amore allo stato nascente, anche se in fondo partorito da un decadimento psicofisico che alla lontana richiama quello rappresentato in quel capolavoro di Bunuel che è «L'Angelo Sterminatore».
Nel complesso un bel film, efficace, intelligente, in cui i dialoghi sono al limite della perfezione (non geniali, ma scorrevoli), e nel quale manca forse soltanto una chiave di genere più solida oltre ad una figura antagonista di Liz con maggiore corporeità. A questo proposito la figura del suo amico Martin sembra più un esigenza fine a se stessa di prolungare il pathos e di sviare l'attenzione dello spettatore, che una vera e propria tessera di un mosaico che, in fondo, rappresenta una solitudine confinante con una sindrome psicotica.
Da vedere.
Voto 6

Luca Dresda

 


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