L'occhio indiscreto
Poltronissima di Prima Visione

di Luca Dresda

 

 


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PEARL HARBOUR
di Michael Bay
Con: Ben Affleck, Kate Beckinsale, Cuba Gooding Jr, Alec Baldwin, Jon Voight, Dan Aikroyd.
Genere: Guerra/Sentimentale.
Sceneggiatura: Randall Wallace.
Nazione: USA. Durata: 183 minuti circa.

18 Giugno 2001

Ci tengo a dire che sono andato a vederlo per senso di responsabilità verso "L'Istrice". Credo che questa rivista meriti di più di un critico cinefilo incallito che vede film rari o semi-sconosciuti. E' per questo che spesso mi inoltro in sale dove proiettano qualcosa che per principio eviterei. Il discorso è lungo e non voglio tediare nessuno.
Pearl Harbour è una di quelle tappe storiche che segnano una generazione intera rimanendo negli incubi e nelle fantasie orrorifiche di tutti i testimoni. Una società come quella americana, già uscita vincitrice dalla I Guerra Mondiale, se ne stava nel suo bell'isolamento solo presunto, domandandosi se fosse stato il caso e se si quando sarebbe stato il caso di intervenire nelle diatribe di un'Europa allo sbando. Qualcuno magari speculava sulla necessità di avere nello scacchiere del Vecchio Continente una forza che facesse da contrappeso alla potenza Comunista, qualcun altro magari temeva le eventuali perdite, forse non tutti credevano veramente nella propria superiorità.
I tedeschi erano ancora in fase d'ascesa nel 1941. Siamo appena alla marcia su Parigi, all'inizio delle scaramucce per il controllo della Manica. Roosvelt sente che qualcosa deve essere fatto, ma pare non avere la personalità o il carisma o l'ascolto dei suoi capi delle forze militari. Solo qualche volontario si arruola nelle forze aeree inglesi speciali. Ma sono gocce nell'Oceano di un'inconsistente resistenza allo strapotere Tedesco. C'è da dire che forse è proprio in aria che i Tedeschi hanno perso il conflitto, sia in battaglia che soprattutto nella tecnologia (l'invenzione del Radar da parte degli angloamericani è solo uno degli esempi).
Gli USA se ne restano ad osservare, assorbono una fuga senza requie di menti tedesche e cercano di contenere il tentativo Giapponese di dominare per mare nel Pacifico. Ecco dove si comportano da Isolani, magari di una serie elevata, ma isolani. Sottovalutano il desiderio Nipponico di superare la crisi (l'embargo di petrolio li ha messi al tappeto). E' tipico di chi domina quasi senza disturbo sottovalutare la disperazione dell'avversario. E qui i Giapponesi preparano la più folle delle operazioni, quella inaspettata, la più ardita e impensabile: un attacco nel cuore stesso del quartier generale navale. E' come spodestare un Re sfilandogli la corona quando è in bagno a fare la doccia. Un vero smacco. Nessuno poteva mai crederci, anche se i segnali non erano dei più concilianti.
Il verificarsi di questo evento segna una delle pagine più tristi della storia americana, sempre in cerca di motivi per rinvigorire l'orgoglio patriottico. Questa sconfitta è più di una sconfitta. E' una beffa, qualosa che nell'animo degli americani suona come un ridimensionamento difficile da accettare anche ad anni di distanza (quando verrà metabolizzato il Vietnam?). Il tutto accade sia per l'arditezza giapponese che per l'incapacità dei comandi americani, l'uno e l'altro involontari alleati.
Il film, purtroppo, mette questo evento all'interno di una teca centrale da ammirare estasiati pur con l'ennesimo sbadiglio che fa capolino. La storia che passa in primo piano, come spesso accade, è l'amore tra un giovane aviatore e una crocerossina. Scontato. Lui partirà, lei lo crederà morto, si riconsolerà con l'amico del cuore di lui.... ma lui torna. E ancora a questo punto la crisi nippo-americana è appena sfiorata. Il tutto con gag inverosimili, inaspettate in un film che vorrebbe replicare e superare gli incassi, ma forse (forse soltanto) anche il gradimento avuto da "Titanic". Il produttore è uno di quelli che hanno fatto la storia degli incassi americani, uno alla Selznick per intendersi (il produttore di "Via col vento"): Jerry Bruckheimer, colui che ha firmato anche "Flashdance", "American Gigolo", "Beverly Hills Cop", "Armageddon", insomma uno di successo. Egli ha affermato: «bisogna fare ciò che è drammaticamente interessante, non vogliamo annoiare il pubblico. Questo non è un programma per l'History Channel!».
Questo vuol dire che ormai l'invasione della televisione e dello stile a soap-opera rende impossibile vedere i bei film di una volta, come si direbbe. Un film storico non può essere storico, deve contenere una storia d'amore magari anche un po' sfortunata, come in "Titanic", con qualche contrasto forte. La guerra diventa lo sfondo di un movimento interiore, di una storia che dovrebbe avvicinare lo spettatore all'evento.
Io resto scettico. Mi ricordo "Reds" di Warren Beatty, il film sulla Rivoluzione d'Ottobre tratto dal romanzo di John Reed "I dieci giorni che sconovolsero il mondo"; io il libro l'avevo letto prima di vedere il film e nel trovarmi al cinema immerso in una storia d'amore che prendeva grossa parte del plot, mi sono cominciato a domandare se i produttori americani (soprattutto quelli legati alle Majors di Holliwood) non siano letteralmente refrattari alle analisi, alle riflessioni e non invadano il campo del pensiero di fatti, fattarelli e cronache rosa. E' come una sorta di Horror Vacui che devono sfatare con un colpo di bacchetta magica.
Questo film, certamente, farà degli incassi record, ma le facce del pubblico all'uscita, il gradimento, non ha anch'esso un qualche valore economico? Non sarebbe bello pagare un film o una mostra di dipinti a seconda di quanto la si è gradita? Utopia.
Resta la buona interpretazione (miracolo!) di Kate Beckinsale, la protagonista femminile che avevamo già apprezzato come protagonista in "Cold Comfort Farm" di John Schlesinger, film di cui ho parlato spesso. Ben Affleck sembra rinchiuso in espressioni da giovane imbelle e sbruffone, imbalsamato e poco interessante. Piacerà al genere femminile tutto, ma questa non è neanche la parvenza di un'intepretazione. Se il confronto è con Di Caprio, è perso in partenza.
Molto belle tutte le sequenze del campo nipponico. Intense, dinamiche, piene di pathos e di cinema. Forse le uniche in cui il regista aveva campo libero per la sua creatività?
Voto 4

Luca Dresda

 


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