la
Bacheca Virtuale
di Silvano
Calzini
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Quando leggere è un piacere e una autentica passione
Milano,
17 luglio 2006
Guido Piovene: la diplomazia dell'anima
Guido
Piovene (1907 - 1974), scrittore, giornalista, personaggio di grande cultura
e raffinatezza mi ha sempre dato l'idea di essere un uomo afflitto da un
eccesso di intelligenza. Nel senso più nobile dell'espressione. Intendo dire
una di quelle persone con il dono, o la disgrazia per certi versi, di
penetrare fin troppo a fondo nelle cose e soprattutto nella natura umana.
Emblematica in questo senso anche la malattia neurologica che lo colpì negli
ultimi anni di vita. Alla fine aveva il corpo completamente paralizzato, ma
la mente ancora presente e lucidissima fino agli ultimi istanti.
L'intelligenza e la capacita di analisi hanno portato Piovene a mantenere
sempre un atteggiamento di leggero distacco e di scetticismo che spesso è
stato giudicato male da molti. Non si trattava di snobismo o pavidità come
da più parti è stato detto, ma una presa d'atto che non tutto può essere
capito e non tutto può essere detto. Già, ma vaglielo a spiegare a quelli
che hanno sempre pronta una spiegazione razionale per tutto, che non hanno
mai dubbi e ripensamenti. Loro sanno, o credono di sapere, quello che è bene
e quello che è male. Tranciano giudizi con l'accetta, vanno avanti come
bulldozer. Piovene invece era uomo di fioretto, un maestro del chiaroscuro,
delle mezze tinte.
"Lettere di una novizia", il libro che gli ha dato la fama, pubblicato nel
1939, è un esempio lampante di come Piovene sapesse muoversi in quell'autentica
terra di nessuno che è la coscienza umana. Il romanzo, scritto in forma
epistolare, è composto da quarantadue lettere che ruotano intorno alla
drammatica vicenda di Rita, novizia in un convento tra i colli del
vicentino, la terra di origine dello scrittore e che rappresenta uno sfondo
perfetto per la storia. Il Veneto, sospeso tra mare e montagna, costituisce
lo scenario ideale e simbolico delle contraddizioni e delle indecisioni dei
vari personaggi.
Romanzo dell'ambiguità e dell'arte di non conoscersi, come spiega bene lo
stesso autore nella nota introduttiva:
"I personaggi di questo romanzo, sebbene diversi tra loro, hanno un punto
comune: tutti ripugnano dal conoscersi a fondo. Ognuno capisce se stesso
solo quanto gli occorre; ognuno tiene i suoi pensieri sospesi, fluidi,
indecifrati, pronti a mutare seconda la sua convenienza".
Piovene definisce questo atteggiamento "malafede", e anche "diplomazia". Non
era uomo da usare la parole a vanvera e quindi "diplomazia" aveva un
significato ben preciso:
"Noi uomini moderni non possiamo aspirare alla stupenda ignoranza di alcune
zone pericolose dell'animo, che garantiva la vita dei nostri antichi. Noi
siamo costretti all'acume. Appunto per questo occorre moderarlo
continuamente di una pietà guardinga... Ognuno di noi, come medico, nel suo
animo deve saper rischiarare o abbuiare, ricordare o, se occorre, lasciar
cadere nell'oblio, e regolare la chiarezza interiore con una specie di umana
diplomazia. Diplomazia, ma quella stessa che insegna a nascondere anche nel
nostro segreto le cose meno degne dell'animo nostro".
Dunque una visione lontanissima da quei moralismi fanatici tanto in voga
allora come oggi, incapaci di cogliere le pieghe dell'anima e le tortuosità
dei sentimenti, e che hanno sempre portato solo a dei disastri. Il suo
elogio della "diplomazia" rivela una grande pietà per le miserie umane, per
le nostre debolezze e i nostri egoismi. La speranza Piovene la affida alle
ultime parole che Rita, la protagonista delle "Lettere di una novizia",
pronuncia prima di morire: "Speriamo che Dio mi capisca".
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