L'Auto da fé di Elias Canetti
Elias Canetti (1905 – 1994),
nato in Bulgaria da una famiglia ebrea sefardita e premio Nobel per la
letteratura nel 1981, è stato una delle ultime e più nobili voci di quella
straordinaria cultura multinazionale nata nell’Impero austro-ungarico e
soprattutto è stato l’autore di uno dei più grandi libri del Novecento,
“Auto da fé”, il suo primo e unico romanzo, pubblicato nel 1935, poi quasi
scomparso e riscoperto molti anni più tardi. La storia è quella del
professor Kien, che vive in mezzo ai suoi 250.000 volumi che occupano
l’intero spazio della sua casa di Vienna: qui, sempre più isolato e
rifiutando ogni rapporto con il mondo reale egli cerca la verità assoluta,
ma in questo disperato sforzo finisce per innescare un processo che lo
porterà inevitabilmente all’autodistruzione. Kien darà fuoco ai propri libri
e morirà tra le fiamme del rogo. La scena finale del romanzo è di quelle che
lasciano il segno:
“Sale fino al sesto gradino,
sorveglia il fuoco e aspetta. Quando finalmente le fiamme lo raggiungono
ride forte, come non ha mai riso in tutta la sua vita.”
Quel fuoco che conclude il
romanzo è una straordinaria anticipazione allegorica del totalitarismo che
di lì a pochi anni dilagherà in Europa, ma il libro è soprattutto un viaggio
negli abissi della solitudine, una grande parabola del delirio che ha
sconvolto la ragione dell’uomo contemporaneo, che incapace di vivere si
riduce a essere solo una “testa senza mondo”, titolo dato da Canetti alla
prima parte del romanzo. E’ la descrizione di come l’intelligenza, per paura
della vita, si ribelli contro di essa, riducendo l’esistenza intera a un
meccanismo di difesa, costruendosi intorno una corazza e finendo per
distruggersi, proprio perché l’esistenza intera ha finito per trasformarsi
in una corazza, che soffoca ogni cosa. Kien, il protagonista, è il ritratto
perfetto delle manie e delle fobie con le quali irrigidiamo la nostra vita
cercando così di fronteggiare la nostra paura. Il titolo originale tedesco
del romanzo è “Die Blendung”, che significa “abbagliamento”, quello che
acceca l’uomo investito e travolto dal mondo e che per sopravvivere crede
che l’unica soluzione sia negarsi alla vita vera.<br>
Autentico figlio della
Mitteleuropea, Elias Canetti è cresciuto e si è formato tra Vienna, Zurigo,
Francoforte, Berlino, per poi trasferirsi a Londra dove vivrà fino al 1971
per poi tornare a stabilirsi a Zurigo fino alla morte. Chi ha avuto
occasione di conoscerlo lo descrive come un signore estremamente gentile e
cortese, pieno di riguardi e attenzioni per i conoscenti, padre
affettuosissimo di una figlia nata dal suo secondo matrimonio quando lui era
già in età avanzata. Eppure l’impressione era che dietro questa maschera
rassicurante si nascondesse un’altra identità inafferrabile, un altro Elias
Canetti, quello che si era affacciato sull’abisso e che con sguardo
implacabile aveva indagato l’uomo di oggi, incapace di comunicare con gli
altri ma capace solo di ascoltare se stesso. Anche se hanno avuto vite ed
esperienze diverse io ho sempre trovato molte similitudini tra Canetti e
Robert Walser: entrambi hanno osato guardare l’inguardabile e se ne sono
ritratti, Walser rifugiandosi nel silenzio, Canetti parlando di altro.<br>
“Auto da fé” è un libro non
facile, aspro, spigoloso, che per certi versi prende il lettore allo
stomaco, ma chi riesce a superare il brusco impatto può scoprire che proprio
la rappresentazione di un mondo folle, prosciugato di ogni desiderio,
totalmente privo di amore, per contrasto fa sentire ancora più forte
l’esigenza di una vita come dovrebbe essere, la necessità dell’amore e alla
fine il romanzo diventa uno spietato atto di accusa contro l’istinto di
morte. La tragica fine di Kien si trasforma così in un monito che ci spinge
a rispondere all’angoscia, alla paura, alla morte con la fedeltà alla vita,
a ogni vita, perché, come ha scritto Canetti, ognuna è il centro del mondo.
Silvano Calzini
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