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la Bacheca Virtuale

di Silvano Calzini

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Quando leggere è un piacere e una autentica passione


31 maggio 2004

Scerbanenco con quella faccia un po' così

“Sono nato in Russia. Mio padre era russo, mia madre romana. A sei mesi di età mia madre mi riportò in Italia e qui crebbi … D’improvviso, appena arrivato a Milano, verso i diciotto anni, divenni straniero. Fuori dalla mia famiglia, in una città dove nessuno mi conosceva, rimaneva soltanto il mio nome, che era Vladimir Scerbanenko … Io tolsi la k da Scerbanenko e feci Scerbanenco, tolsi anche il Vladimir e usai il mio secondo nome Giorgio.” In poche parole così si presentava quello che è stato definito il grande rivale di Simenon, l’autore che ha creato e dato dignità al genere poliziesco nel nostro Paese, il padre del noir italiano.
Per quello che mi riguarda non sono né un esperto né un grande appassionato di gialli, ma Giorgio Scerbanenco (1911 – 1969) è uno di quegli scrittori che nel cuor mi stanno. Forse per la storia della sua vita così poco italiana. Abbandonata prestissimo la scuola e trasferitosi da Roma a Milano, prima di diventare scrittore ha passato anni di vera miseria facendo i lavori più diversi, operaio alla Borletti, addetto al pronto soccorso della Croce Rossa, contabile in una ditta, leggendo e studiando alla sera. Ogni tanto qualche intermezzo in sanatorio, ricoverato più per denutrizione che per malattia, e dove veniva curato a suon di zabaioni. Poi l’ingresso nel mondo dei periodici femminili dove cominciò a collaborare all’inizio come correttore di bozze per poi rivelarsi una formidabile macchina per scrivere umana (la definizione è di Oreste Del Buono), sfornando migliaia di articoli e racconti rosa, curando la rubrica di posta del cuore sotto vari pseudonimi, e dando il meglio di sé come caposcuola del giallo all’italiana. Anche quando arrivò il successo e il benessere economico Scerbanenco gli anni duri se li portava addosso come lui stesso ricordava “Ero arrivato fin lì dopo troppa, troppa miseria. Veramente troppa. Ci vollero anni perché mi liberassi di quel complesso di inferiorità, e non me ne sono mai liberato del tutto”.
Molto probabilmente la mia simpatia nasce anche da come era fisicamente Scerbanenco magrissimo, allampanato, con quella faccia un po’ così, a metà strada tra Totò e Marty Feldman, il comico inglese con gli occhi a palla. L’immagine che ho sempre presente è quella di lui fotografato davanti alla macchina per scrivere, in maniche di camicia e con l’eterna sigaretta in bocca. Mi sarebbe piaciuto conoscerlo uno così. Un tipo fuori dal comune, come Duca Lamberti, il protagonista di tanti suoi romanzi, un ex medico radiato dall’albo che si è messo a fare il detective. E poi quelle storie ambientate nella Milano degli anni Cinquanta e Sessanta mi prendono il cuore. Se devo essere sincero più che a seguire l’intreccio delle vicende mi sono sempre divertito a ricostruire i percorsi delle sue storie milanesi. Camminando tra piazza della Repubblica e la Stazione Centrale, o passando davanti agli alberghetti di via Vitruvio per arrivare a Porta Venezia mi capita spesso di pensare a “I milanesi ammazzano al sabato”, “Venere privata”, “Traditori di tutti” o ai bellissimi racconti di “Milano calibro 9”. Quella di Scerbanenco è la Milano in bianco e nero degli anni compresi fra il dopoguerra e l’affermarsi del boom economico e dalle sue pagine esce il profumo (o il lezzo se volete) di un’atmosfera, il sapore di una città dove dilagano il crimine e l’indifferenza. C’è il mondo dei night fumosi, della droga, della prostituzione, ci sono le rapine a mano armata e il gioco d’azzardo con qualche incursione nell’ambiente della Milano bene. E’ un ritratto duro, spietato, senza concessioni all’agiografia, ma da cui traspare un amore fortissimo per Milano.
Nel 1969 Scerbanenco morì improvvisamente quando era al culmine del successo italiano ed europeo, lasciando una produzione sterminata di racconti, alcuni brevissimi, in ognuno dei quali è possibile trovare una sottile magia fatta di mistero e realtà intrecciati insieme, di cinismo e allo stesso tempo di pietà per la parte più oscura delle cose e dell’umanità.

Silvano Calzini

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