Scerbanenco con quella faccia un po' così
“Sono nato in Russia. Mio padre era russo, mia madre romana. A sei mesi di
età mia madre mi riportò in Italia e qui crebbi … D’improvviso, appena
arrivato a Milano, verso i diciotto anni, divenni straniero. Fuori dalla mia
famiglia, in una città dove nessuno mi conosceva, rimaneva soltanto il mio
nome, che era Vladimir Scerbanenko … Io tolsi la k da Scerbanenko e feci
Scerbanenco, tolsi anche il Vladimir e usai il mio secondo nome Giorgio.” In
poche parole così si presentava quello che è stato definito il grande rivale
di Simenon, l’autore che ha creato e dato dignità al genere poliziesco nel
nostro Paese, il padre del noir italiano.
Per quello che mi riguarda non sono né un esperto né un grande appassionato
di gialli, ma Giorgio Scerbanenco (1911 – 1969) è uno di quegli scrittori
che nel cuor mi stanno. Forse per la storia della sua vita così poco
italiana. Abbandonata prestissimo la scuola e trasferitosi da Roma a Milano,
prima di diventare scrittore ha passato anni di vera miseria facendo i
lavori più diversi, operaio alla Borletti, addetto al pronto soccorso della
Croce Rossa, contabile in una ditta, leggendo e studiando alla sera. Ogni
tanto qualche intermezzo in sanatorio, ricoverato più per denutrizione che
per malattia, e dove veniva curato a suon di zabaioni. Poi l’ingresso nel
mondo dei periodici femminili dove cominciò a collaborare all’inizio come
correttore di bozze per poi rivelarsi una formidabile macchina per scrivere
umana (la definizione è di Oreste Del Buono), sfornando migliaia di articoli
e racconti rosa, curando la rubrica di posta del cuore sotto vari
pseudonimi, e dando il meglio di sé come caposcuola del giallo all’italiana.
Anche quando arrivò il successo e il benessere economico Scerbanenco gli
anni duri se li portava addosso come lui stesso ricordava “Ero arrivato fin
lì dopo troppa, troppa miseria. Veramente troppa. Ci vollero anni perché mi
liberassi di quel complesso di inferiorità, e non me ne sono mai liberato
del tutto”.
Molto probabilmente la mia simpatia nasce anche da come era fisicamente
Scerbanenco magrissimo, allampanato, con quella faccia un po’ così, a metà
strada tra Totò e Marty Feldman, il comico inglese con gli occhi a palla.
L’immagine che ho sempre presente è quella di lui fotografato davanti alla
macchina per scrivere, in maniche di camicia e con l’eterna sigaretta in
bocca. Mi sarebbe piaciuto conoscerlo uno così. Un tipo fuori dal comune,
come Duca Lamberti, il protagonista di tanti suoi romanzi, un ex medico
radiato dall’albo che si è messo a fare il detective. E poi quelle storie
ambientate nella Milano degli anni Cinquanta e Sessanta mi prendono il
cuore. Se devo essere sincero più che a seguire l’intreccio delle vicende mi
sono sempre divertito a ricostruire i percorsi delle sue storie milanesi.
Camminando tra piazza della Repubblica e la Stazione Centrale, o passando
davanti agli alberghetti di via Vitruvio per arrivare a Porta Venezia mi
capita spesso di pensare a “I milanesi ammazzano al sabato”, “Venere
privata”, “Traditori di tutti” o ai bellissimi racconti di “Milano calibro
9”. Quella di Scerbanenco è la Milano in bianco e nero degli anni compresi
fra il dopoguerra e l’affermarsi del boom economico e dalle sue pagine esce
il profumo (o il lezzo se volete) di un’atmosfera, il sapore di una città
dove dilagano il crimine e l’indifferenza. C’è il mondo dei night fumosi,
della droga, della prostituzione, ci sono le rapine a mano armata e il gioco
d’azzardo con qualche incursione nell’ambiente della Milano bene. E’ un
ritratto duro, spietato, senza concessioni all’agiografia, ma da cui
traspare un amore fortissimo per Milano.
Nel 1969 Scerbanenco morì improvvisamente quando era al culmine del successo
italiano ed europeo, lasciando una produzione sterminata di racconti, alcuni
brevissimi, in ognuno dei quali è possibile trovare una sottile magia fatta
di mistero e realtà intrecciati insieme, di cinismo e allo stesso tempo di
pietà per la parte più oscura delle cose e dell’umanità.
Silvano Calzini
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