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di Silvano Calzini

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Quando leggere è un piacere
e una autentica passione
    
Milano, 7 Marzo 2006

  Richard Yates: chi lo ricorda?

   A
utore di nove libri, fra cui due raccolte di racconti e sette romanzi, Richard Yates (1926 – 1992), è considerato un vero caposcuola per un’intera generazione di autori americani, ha raccolto consensi e ammirazione dalla critica, ma non ha mai sfondato presso il grande pubblico dei lettori, tanto da essere considerato “uno dei grandi scrittori meno famosi d’America”. Destino amaro ma non insolito nel mondo della letteratura. Basti pensare al grande Henry James che ha passato la vita a scrivere capolavori e a inseguire invano il successo popolare. Oltre tutto Yates è uno di quegli scrittori che ha dato il massimo con il primo libro, Revolutionary Road, un romanzo di grande impatto, diventato un vero “cult”, ma che ha finito per schiacciare tutte le opere successive.<br>   Fumatore incallito, alcolista, uomo depresso e irascibile, nel corso della sua esistenza Richard Yates fece svariati lavori: pubblicitario, ghost writer per il ministro della giustizia Robert Kennedy, sceneggiatore a Hollywood, professore universitario. Nel frattempo continuava a scrivere, senza peraltro raggiungere più le vette del suo romanzo d'esordio.
  Uscito negli Stati Uniti nel 1961 e ripubblicato qualche anno fa anche in Italia, Revolutionary Road, è un magnifico romanzo, un’analisi spietata e realista della società contemporanea, che non fa sconti a nessuno. Al centro della vicenda una coppia di trentenni della middle class americana degli anni Cinquanta. Giovani, belli, con due bambini, vivono nei sobborghi di New York e in apparenza sono il ritratto felice del sogno americano. Yates presenta il quartiere residenziale che da il titolo al romanzo con parole illuminanti anche sul finale della storia:
  “Il complesso residenziale di Revolutionary Hill non era stato progettato in funzione di una tragedia. Anche di notte, come di proposito, le sue costruzioni non presentavano ombre confuse né sagome spettrali. Era invincibilmente allegro: un paese dei balocchi composto di casette bianche e color pastello, le cui ampie finestre prive di tende occhieggiavano miti in un intrico di foglie verdi e gialle. Fasci di luce sfacciata spazzavano i prati, le eleganti porte d’ingresso e le curve delle automobili color panna ormeggiate dinanzi”.
   In realtà è tutto finto e i protagonisti sono due piccoli borghesi senza qualità che ricorrono a qualche whisky di troppo, a qualche piccolo tradimento, a qualche velleità pseudointellettuale per sopportare una quotidianità squallida e senza senso fatta di un lavoro cretino per lui, di una vita da casalinga frustrata con aspirazioni di attrice per lei e di una serie di amici e vicini di casa uno più insulso dell’altro per tutti e due.
   Piano piano nel quadretto idillico si cominciano a sentire i primi scricchiolii e a intravedere le prime crepe. Per sconfiggere la noia e l’insoddisfazione salta fuori un’idea dal cappello: vendere la casa, trasferirsi tutti insieme a Parigi, dove lei entrerà nello staff della Nato e lui potrà finalmente “trovare la sua strada”. Improvvisamente tutto cambia e i due ritrovano un’apparente armonia, ma il sogno è destinato a durare poco e la situazione precipita. Il finale del romanzo è uno di quelli che restano nel cuore e nella mente dei lettori e non si dimenticano tanto facilmente.

Silvano Calzini

 


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