Se ai nostri giorni ha ancora un senso adoperare la parola “classico”
riferita a uno scrittore lo dobbiamo a Goran Tunstrom (1937 – 2000). Un
autore originalissimo, uno dei pochi, veri, autentici classici
contemporanei. Le sue storie partono dalla realtà, ma ben presto entrano in
una dimensione surreale e visionaria per portare un messaggio sull’uomo e
sul senso della vita. I personaggi devono quasi sempre combattere contro
qualche trauma che li rende momentaneamente degli sconfitti, ma la ferita
non è necessariamente un ostacolo insormontabile, anzi diventa un trampolino
per scoprire se stessi e dare un nuovo significato alla propria vita. A
patto di avere del coraggio. Come ebbe lo stesso Tunstrom, che da piccolo
soffriva di asma, a dodici anni perse il padre e a vent’anni cadde in una
profonda depressione. A tredici anni però aveva cominciato a scrivere e
continuerà a farlo fino al febbraio del 2000 quando morì a Stoccolma. Vivere
e scrivere furono per Tunstrom un’unica cosa. Lo scopo della sua esistenza e
del suo lavoro fu uno solo: la ricerca del vero senso della vita.
Più volte candidato al premio Nobel per la letteratura, ma inesorabilmente
dimenticato dai tromboni dell’Accademia svedese, intenti ad andare a caccia
di presunti geni in giro per il mondo e incapaci di accorgersi di chi
avevano sotto il naso. Forse è stata una dimenticanza casuale, o forse no.
Tutta la produzione di Tunstrom, a cominciare da “L’oratorio di Natale”, uno
dei più straordinari romanzi contemporanei, è caratterizzata dall’interesse
per l’esperienza interiore, per l’individuo come portatore di sogni, per la
costante ricerca dei significati del vivere, senza quasi mai dedicare
attenzione a tematiche di attualità, di critica sociale, o tanto meno di
politica.
Nei suoi libri il mondo è segnato dal dolore e dalla sua forza di formare o
deformare le persone. Davanti a una perdita, a un grande dolore, c’è chi
reagisce isolandosi dagli altri e chiudendosi nella sordità e nella durezza.
Per Tunstrom invece è importante mantenere aperti i canali della
comunicazione, dell’ascolto, della comprensione. In una vecchia intervista
spiegò bene la sua filosofia: “Non mi piacciono parole che sono diventate
logore per il troppo uso come Dio o religiosità. Quello che importa è
l’energia vitale qui e ora. E’ come acqua che riposa nel nostro profondo e
noi dobbiamo aprire dei canali per rendere possibile la comunicazione. Con i
miei libri io voglio predicare questa possibilità di comunicazione”.<br>
Quella di Tunstrom non è certo narrativa di evasione o di intrattenimento,
al contrario è all’insegna di un’espressività forte, destinata a porci
domande da fare tremare le vene ai polsi. Sono storie costruite su un
inestricabile intreccio di gioie e dolori, che può essere sciolto solo dai
poteri della parola, dell’invenzione poetica, capace di ricreare di volta in
volta il mondo.
In un racconto Tunstrom fa dire a un personaggio una frase illuminante:
“Così è la vita vera. Una terra arida. Una mulattiera in mezzo alle rocce.
Qua e là qualche sottile filo d’erba, che trema al vento. Cielo e orizzonte,
cime di monti. Grandi distanze tra i pozzi, Un filo di fumo presso una
capanna. Pecore che cercano il pascolo. Un pastore. Tutte le altre cose che
ho visto sono state eccezioni: le sorgenti alle quali ho bevuto. Le città
che ho visitato, illuminate dall’elettricità. I letti soffici con lenzuola e
coperte. Le tavole ben apparecchiate. Eccezioni”. Ecco, partendo da questa
apparente banalità della realtà, Tunstrom grazie all’emozione delle sue
invenzioni è capace di fare quel passo in più, quello decisivo, per cambiare
la visione del mondo e della vita, per illuminare la profondità dell’anima
degli uomini e portarci a scoprire quelle che lui ha definito “cattedrali di
sogni e di idee”. Come solo i grandi classici di ogni tempo sanno fare.
Silvano Calzini
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