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la Bacheca Virtuale

di Silvano Calzini

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Quando leggere è un piacere e una autentica passione


7 settembre 2004

Le anime solitarie di Carson McCullers

Per ognuno di noi esistono luoghi e situazioni che si portano dietro sensazioni indelebili e che richiamano subito alla mente stati d’animo e momenti di particolare significato. Per esempio, quando io penso alla solitudine l’immagine che immancabilmente mi viene alla mente è quella di un pomeriggio estivo, caldissimo e assolato, vuoto e triste. Forse sarà anche per questo che non ho mai amato molto l’estate. Il ricordo di quei silenzi interrotti solo dal canto delle cicale e dal rumore di qualche macchina in lontananza mi prende alla gola.
C’è una scrittrice americana che ha indagato e descritto la solitudine e il potere del silenzio come pochi altri. Sto parlando di Carson McCullers (1917 – 1967), donna tormentata e fragile. Fin da giovane ebbe dei problemi fisici e a trentun anni era già semiparalizzata, tanto che per un periodo di tempo potè utilizzare solo un dito per scrivere a macchina. Non è un caso se la deformità, fisica o psicologica, costituisce un tratto caratteristico della gran parte dei suoi personaggi, quasi un marchio dell’isolamento spirituale e dell’esclusione . Molti dei suoi romanzi e racconti non sono niente altro che delle grandi metafore della solitudine e della incomunicabilità tra gli esseri umani. Penso al potentissimo “Il cuore è un cacciatore solitario”, il suo primo e più noto romanzo pubblicato quando la McCullers aveva solo 23 anni, il cui protagonista è un mite orologiaio sordomuto che vive in una cittadina del profondo Sud degli Stati Uniti e che finisce per diventare il catalizzatore della vita della piccola comunità. Tutti i vari personaggi del libro interpretano i silenzi del muto come una partecipazione alle proprie angosce e si aggrappano a lui come a un’ancora di salvezza per non annegare nella propria solitudine.
Nonostante il fatto che la McCullers, nata e cresciuta nella Georgia, si sia ben presto trasferita a New York, il Sud degli Stati Uniti e la sterminata provincia americana sono sempre rimasti per lei lo scenario ideale dove far muovere i suoi personaggi, a volte grotteschi a volte patetici, ma sempre inesorabilmente condannati a essere delle anime solitarie.
Anche ne “La ballata del caffè triste” ritornano l’ambiente della provincia e del Sud, ma qui soprattutto c’è un luogo-simbolo della solitudine intorno a cui ruota tutta la vicenda e che mi ha fatto scattare uno di quei collegamenti tra letteratura e pittura che tanto nel cuor mi stanno. Si tratta di un caffè, al cui interno si muovono i tre protagonisti della storia: la padrona del locale, una gigantessa scorbutica e solitaria, un nano gobbo che arriva da non si sa dove e trasforma la vita della donna e del locale, e l’ex marito che ricompare all’improvviso e che mette in moto un triangolo amoroso dagli esiti bizzarri. Dalle pagine di questo lungo racconto arrivano delle autentiche folate di incomunicabilità e ci sono scene di grande efficacia e suggestione che fanno venire alla mente un famoso quadro di Edward Hopper, maestro del realismo americano. Il dipinto a cui mi riferisco è intitolato “Nighthawks” (Nottambuli) e rappresenta un caffè notturno al cui interno si vede una coppia davanti al bancone dietro al quale c’è il barista, un altro cliente è raffigurato di spalle seduto da solo. La scena è vista dall’esterno ed è immersa in una luce fredda e tagliente e in un silenzio quasi metafisico. Ogni figura ritratta è sprofondata nei propri pensieri senza nessuna possibilità, e volontà, di comunicare con chi le sta al fianco. Anche la coppia seduta al bancone evoca un sentimento di solitudine, potrebbero essere marito e moglie oppure due estranei che si sono appena conosciuti casualmente in quel caffè, in ogni caso sono due persone tristi e silenziose.
L’arte, quella grande, quella vera, è sempre senza luogo e senza tempo e non ci sono confini di genere che possano imbrigliarla. Quindi la McCullers con le sue storie gotiche piene di personaggi che per molti versi ricordano i “mostri” di Fellini e Hopper con le sue immagini immerse nel silenzio parlano anche a noi, di noi e con noi, di come siamo, di quello che sentiamo e sono riusciti a darci uno spaccato formidabile della nostra solitudine quotidiana.

Silvano Calzini

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