Era una grande civettina. Si calava l'età di ben sette anni, amava i
ricevimenti e la mondanità e soprattutto l'eleganza vistosa della belle
époque: abiti di ricchi tessuti con la gonna valorizzata dalla tournure, il
malizioso sellino posteriore, giri e giri di collane, strascichi e
soprattutto cappelli: enormi, piumati o fioriti come giardinetti. Fu una
delle prime donne italiane a far tornare di moda il trucco, bandito,
nell'epoca precedente, da tutte le signore "perbene": lei non risparmiò
rossetto e belletto. Eppure perbene lo era, eccome. Religiosa e pia, aveva
un marito che amava moltissimo e che sposò quando era un tenentino. " Il
colto e distinto cavalier Marcello Quinterno": così lo definì dedicandogli
un libro. Adorava l'unica figlia, Marcella. La famigliola visse
tranquillamente a Torino e poi a Cuneo, ove Carolina morì di polmonite nel
novembre 1916 (c'entrava qualcosa la sua passione per le scollature e le
stoffe leggere e fluttanti? Si disse di sì), ufficialmente cinquantottenne.
Uscita da un'ottima famiglia di Voghera, vissuta da ragazza a Firenze, è una
di quelle scrittrici che nascono, per dir così, con la penna in mano e non
la lasciano più. A quindici anni si fece quasi cacciare da scuola per aver
scritto un racconto osé, a ventisei pubblicò il suo primo romanzo: ne
seguirono almeno altri 129 e con la penna in mano morì. Aveva appena
terminato "La fidanzata del bersagliere" storia di una ardimentosa ragazza
che , travestita da soldato, segue il suo uomo in trincea.
La sua sfrenata fantasia fu pari solamente al successo che ebbe specie fra i
lettori poco alfabetizzati, perchè suo destino fu di essere sempre snobbata
dalla critica seria. Ricordiamo solo il tremendo " Onesta gallina della
letteratura italiana" di Gramsci. Eppure non fu una cattiva scrittrice. Elaborava,
sì, trame impossibili popolate di eroi ed eroine spesso assurdi ma riusciva
ad avvincere. Notevoli le sue figure femminili che vanno dall'angelico al
demoniaco: pure fanciulle, contadine e operaie laboriose, titolate
malvagie,spose innamorate, perfide matrigne. C'è perfino un' araba in "Odio
di araba", appunto, libro che l'ha fatta recentemente definire, per l'acceso
anti-islamismo, un'Oriana Fallaci ante litteram.
Carolina lavorava in tandem con la sorella Vittorina che, in funzione di
segretaria, prendeva nota di trame e personaggi per evitare incongruenze .
La scrittrice di tante vicende cupe e angosciose ("noir", si direbbe oggi),
non era sprovvista di umorismo: la sorella stessa testimoniò di una sua
simpatica autoironia. Per esempio "Questa contessa" disse una volta a
Vittorina mentre si accingeva a concludere un romanzo "comincia a farmi un
po' pena. Quasi quasi scrivo ancora una quarantina di pagine e la faccio
redimere".
Maria Santini
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