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Cronaca di una leggenda medievale pescarese: L'Empio sacrilego ebraico e la costruzione della nuova Gerusalemme
L'edizione elettronica degli "Annali degli Abruzzi" di Antinori, a cui lavoro da 10 anni circa, mi offre continuamente nuovi spunti di riflessione sulla storia poco nota dell'Abruzzo e dell'Italia centro-meridionale, e qualche volta le "scoperte" sono eccezionalmente interessanti, perché riguardano luoghi e monumenti di cui si sa poco o niente.
Riporto qui di seguito in versione originale il testo che lo Storico ha a sua volta traslato da un libello della seconda metà dell'XI secolo, epoca a cui sono riferiti i fatti narrati, composto da un monaco benedettino della vicina Abbazia di San Giovanni in Venere sotto la cui giurisdizione ricadevano all'epoca la cura degli edifici ecclesiastici di Pescara e parte dei proventi del porto commerciale.
La narrazione presenta molti elementi comuni alle leggende miracolistiche medievali che circolavano anche nei secoli successivi in tutta Italia e ne ripete parecchi luoghi comuni, per cui è evidente che sia stata composta con finalità propagandistiche e per legittimare un atto di violenza perpetrato contro la comunità ebraica pescarese, che è sempre stata molto numerosa e dedita ai commerci fin dal V secolo, epoca a cui le fonti storiche ne fanno risalire l'originario insediamento, contemporaneo a quello in altre due città della zona costiera abruzzese come Ortona e Lanciano.
Come ogni leggenda, però, reca in sé alcuni fatti degni di attenzione, come l'evidente importanza della comunità commerciale ebraica, la presenza di una sinagoga su cui venne edificata una chiesa cristiana (e su cui oggi insiste la Cattedrale cittadina), il collegamento territoriale e sicuramente stradale tra Pescara e le località della costa abruzzese meridionale; oltre al fatto che la maggior parte dei Pescaresi di oggi non ha la più pallida idea di cosa siano le rovine in vista (quando libere dalla vegetazione che le infesta) lungo il Viale su cui affaccia la moderna Cattedrale di San Cetteo.
Ecco il testo integrale:
«1059. Un empio attentato de Giudei nella Città Aternina presso il fiume della Pescara divenne poi memorabile. Le genti di quella nazione ostinata nelle superstizioni Patrie erano sparse per la Puglia fin dai tempi dell'Imperadore Onorio, che nell'Anno 398 fece legge perché non si potessero scusare dai pubblici pesi. S'erano fin da i Regni de Longobardi propagate nelle Terre marittime di Aterno, d'Ortona, e di Lanzano. Vi esercitavano, precisamente nella prima mercimoni, e in gran numero, assoggettate a un certo annuo Tributo, che pagavano nella Pasqua. Vi avevano Sinagoga. Per ignominia de Cristiani, quelli di tal nazione, i quali abitavano in essa Città, dopo avere determinato in un loro congresso di sottoporre all'anatema chiunque non fosse imitatore de loro fatti, nella quarta feria avanti alla celebrazione dell'immolazione dell'Agnello dopo la sera, e sulle prime ore della notte, entrati dieci di essi nella Sinagoga, adattarono sopra una tavola di legno una figura umana impressa in cera, che rappresentava Gesù Cristo. Conficcarono come sulla Croce aghi nelle mani, e ne' piedi, e con altri aghi intorno intorno forarono il capo. Due di loro, che furono i primi a consigliare l'impresa, Samuele, e Mel, con un ferro a lancia ferirono, e passarono in più parti il corpo di quell'immagine, e più profondamente il lato. Compita così l'azione se ne ritornarono avanzata molto la notte nelle loro case, irridendo la rappresentanza che avevano fatta per rinnovare l'atroce morte data realmente dai loro Antenati a Gesù Cristo, e che si diedero parola di non ridire ad alcuno. Venuto il mattino, entrati al solito nella Sinagoga, viddero che l'immagine aveva grondato sangue, e le gocce stillate per terra, minutamente s'erano impastate colla polvere. Costernati allora, nel timore che se lo risapessero i Cristiani con tumulto li farebbero morire, procurarono in più maniere di nascondere i segni del delitto. Guastarono però l'immagine, e ridussero la cera in una palla. Raccolsero le gocce del sangue aggrumate in un picciolo vaso di vetro, e nascosero tutto in parte più che segreta».
[...]
«1062. Volgeva il terzo anno da che gli Ebrei in Aterno avevano per ischerno rinnovata in un'immagine di cera la passione di Gesù Cristo. Era intanto il capo dei complici Samuele venuto a rissa con Abraamo pure Giudeo suo convicino, e dopo le parole ignominiose l'aveva ferito. Si aveva Abraamo segnato l'affronto; e di là a pochi dì capitato in Aterno Abraamo Eleazario, Giudeo ancora esso, e creditore di Samuele, l'Abraamo offeso sfogando con quello l'interna rabbia, non solamente gli aveva raccontato i maltrattamenti ricevuti; ma per astio aveva rivelato quanto aveva con altri fatto contro all'immagine del Crocefisso; e come da quella era poi sgorgato sangue.
L'Abraamo straniero, che per altro l'aveva con Samuele pe' suoi interessi, aveva tenuto il secreto con sè; e aveva potuto avere quella lancia, colla quale era stata forata l'immagine. Nel viaggio però sopreso nell'atto, che commetteva uno stupro, con una donna l'aveva perduta coll'altre robe.
S'era egli ricoverato, se non piuttosto vi era stato condotto a motivo dell'inquisizione di quello stupro, nel Castello di Sette dove faceva sua residenza allora Trasmondo Conte Teatino. Le persuasive della moglie, e forse anche il racconto del sangue versato dalla immagine; e più le sue disgrazie, lo avevano indotto a divenir Cristiano, come aveva fatto, ed era stato battezzato col nome di Niccolò. Ora in quest'anno alcuni giorni prima della Pasqua il Nuncio del Conte diretto alla Città Aternense, o sia a Pescara, ordinò al Castaldo di riscuotere le solite contribuzioni, che prestavano i Giudei alla Corte. Il Castaldo o che incontrasse renitenza, o che altro fosse, citò tutti i Giudei nella seconda feria della Pasca a Sette alla Corte del Conte. Vi andarono quelli senza niun sospetto; e trovato il Conte occupato in altri affari con altri Signori, lungamente aspettarono nel cortile del Palazzo; avviati finalmente per udienza, viddero fra i molti della Corte quell'Abraamo Giudeo, fatto Cristiano, e cui andava ancora debitore Samuele d'alcuni bisanzi, e per essi pochi giorni prima gli erano state sequestrate d'ordine del Conte buona parte delle sue robe. Non ebbe la prudenza di dissimulare, e venuto a parola ingiuriò il creditore col nome di battezzato, che presso di sè corrispondeva a quello di rinnegato. Niccolò vidde allora venuta l'occasione di vendicare colla sua l'ingiuria del Crocifisso, e manifestò quanto aveva lungamente tenuto occulto, rimproverando a lui quanto aveva commesso contro all'immagine tre anni prima. Samuele sfrontatamente negò; ma Niccola chiamò in testimonio del fatto Abraamo, del quale disse che l'aveva sentito borbottare tra sè passando avanti l'uscio della casa di lui. Abraamo, per timore della morte, parimenti rispose di non saper nulla, e si venne così a strepito di voci. Accorse il Conte con molti altri, e benché quasi tutti riputassero quell'imputazione piuttosto follia, il Conte con maggior prudenza stimò, che de Giudei niente si diceva, che non si potesse credere. Fatte cessare le altercazioni e fatti arrestare i Giudei progettò, che per ritrovare la verità, si venisse all'esperimento del duello nel seguente giorno, ed assegnò per esso i testimoni, e i Giudici assistenti. Tal'era l'abuso di questo Secolo, e si ricorreva a questo che chiamavano Giudizio di Dio, quando era tentazione. Accettarono sulle prime l'accusatore, e'l Testimonio; ma poco dopo Abraamo diffidando di sua coscienza, escogitò una via per evitare il duello, e pregò i compagni ad interporre i Famigliari del Conte, e colla promessa di buona somma di denaro far rivocare l'ordine della pugna, attestando l'innocenza dell'accusato calunniosamente. Il Conte ricusata l'offerta, appunto per quella accrebbe il sospetto della colpa, e si ostinò a volere la pruova dell'armi. Abraamo, che non la potette sfuggire, vi andò all'ora assegnata; ma vi restò vinto, fra le acclamazioni fatte all'avversario dal popolo. Dalla Corte fù immediatamente spedito Corriero a Pescara, per confiscare le robe de Giudei. E allorché quelle si trasportavano da uno ad altro luogo, fù presa ancora l'ampolla di vetro col sangue senza sapere quello che contenesse. In Sette dai Giudei carcerati per via di tormenti il Conte riseppe al fine la verità, e mentre ciasuno volle scusare se stesso, ciasuno rifuse la colpa sugli altri a segno che tutti si scuoprirono rei. Allora cercò l'ampolla, nella quale avevano confessato d'aver riposto il Sangue, e minacciato di gravi pene Samuele confessò, che Mel suo compagno l'aveva conservata in un'arca, e che in morte l'aveva lasciata ad un suo genero, perché la custodisse, ma non la rivelasse. Non negò il genero indiziato d'avere in sua Casa l'ampolla, ma disse di non sapere quello che vi fosse dentro. Andò conseguentemente a Pescara il figlio del Conte a fare la ricerca, e trovò che l'ampolla era pervenuta nelle mani della moglie del Castaldo; dalla quale il giovane se la fece dare, e la portò al Conte suo Padre. Questo voleva per rimuovere ogni ambiguità, che si facesse l'esperienza, e che si ponesse di quelle gocciole indurite di sangue sulla brace dentro d'un Incensiero. Il che tentando di fare un Sacerdote, sorpreso immantinente da una caligine d'occhi, cadde a terra svenuto, e vi giacque per qualche spazio di tempo. Da quel segno stimarono verificato d'essere quelle vere gocce di quel Sangue, miracolosamente versato.
Venne poi desiderio al Conte d'avere la cera dell'immagine, ed esposti nuovamente i Giudei a tormenti, all'ultimo un altro Samuele domandò il permesso di ritornare ad Aterno, sotto specie di fare ivi diligenze; ma conosciuta d'essere un'astuta illusione, e minacciato dal patibolo, confessò che l'aveva egli raccomandata in un luogo vicino a Sette ad una donna; spedito a quella uomo fidato, si trovò la cera. Si ritrovarono ancora per nuove diligenze del Conte e la lancia, e la tavola, sulla quale era stata delineata l'immagine; ma carolata, e rosa.
Queste due furono riposte nella Chiesa di S. Salvatore sul fiume della Pescara nel propugnacolo, o sia fortino della Città. La Sinagoga de Giudei fù prestamente cambiata in Chiesa, tuttoche non fossero le pareti che di legni. Il Sangue rimase in Sette, dove accorsi molti, molti miracoli si viddero operati; e fra gli altri fù liberato un ossesso dal Demonio. Né minori ne avvennero nella Chiesa Aternense, dove si conservarono e la tavola, e la lancia. E perché la novità dell'avvenimento, e la fama de' miracoli si propagò all'intorno, vi fù gran concorso di popoli, che con divozione vennero a venerare la Sinagoga mutata in Chiesa, e denominata la nuova Gerusalemme. Anzi de Giudei se ne compunsero dodici, e lasciata la loro superstizione abbracciarono la fede Cristiana. Dal Conte si convocarono i Vescovi convicini, ed altri Uomini religiosi per consigliare quello, ch'ei far dovesse dell'ampolla del Sangue miracoloso; ed avuta risposta, che se ne implorasse l'oracolo del Papa, da questo si disse, che si riportasse nella Città Aternense, nella quale era avvenuto l'attentato, e il miracolo. Molti Prelati adunque, Abati, Religiosi, e Cherici seguiti dal popolo nell'ottava della festa de SS. Apostoli Pietro, e Paolo, vale a dire a 6 di Luglio con quella riverenza, e solennità maggiore, che si potette, trasferirono l'ampolla dal Castello di Sette. Il Conte, e la Contessa moglie di lui, che di tutto ebbero la cura, tanto essi, quanto tutti gli altri a piedi nudi associarono la processione; ed avvicinati ad Aterno gli uscirono all'incontro il Clero, e il popolo della Città, e altri molti, che con frequenza grande dall'altra riva del fiume erano accorsi. Gli Ecclesiastici vestiti di sacri paramenti portarono altre reliquie di Santi, e la sopra riferita lancia. L'ampolla del Sangue fù riposta nella Chiesa di S. Salvatore nella sommità della scala di essa, scoperta prima dai Vescovi, che vi assistevano, e che con quella benedissero il popolo per divozione, e per tenerezza piangente.
Scrisse la storia di tale avvenimento persona che fù presente, o almeno poco lontana di luogo, cioè Attone Monaco del Monistero di S. Giovanni in Venere.
La leggenda è composta in mediocre latino, fraseggiato, e contornato a periodi, a posposizioni, a circoscrizioni, e ad altre eleganze per quanto portava il Secolo. E formata a stile, e a maniera d'Omelia con episodi morali, o mistici, e con frequenti passi di Sacra Scrittura».
I passi, riferti agli anni 1059 e 1062, sono contenuti nel Volume VI degli Annali degli Abruzzi con abbondante apparato bibliografico di riferimento e commento storico dello stesso Antinori, il tutto ovviamente datato alla seconda metà del XVIII secolo.
La mia trascrizione in formato elettronico sta per essere pubblicata.
Chiara Zuccarini
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