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Pescara, 2 Giugno 2017

LA RIVOLUZIONE RENZIANA
DEI MUSEI

    Si è parlato molto ultimamente di Musei statali e del giusto modo di dirigerli, a causa dello scontro istituzionale che si è consumato tra il Ministro Franceschini ed il TAR del Lazio sulle nomine dirette di alcuni Direttori.
    Al di là delle polemiche politiche che, come accade spesso, hanno coinvolto l’opinione pubblica ed i mass e social media con un’informazione superficiale in cui è mancato un reale approfondimento giuridico della questione, il fatto è interessante di per sè, poiché offre lo spunto per analizzare la numerosissima e variegata galassia museale italiana da un punto di vista nuovo. La riforma renziana di alcuni importanti Musei Nazionali, infatti, è stata presentata dal Governo come un balzo in avanti rispetto al passato, poiché ha proposto per la prima volta ed apertamente il Museo come un’azienda che deve produrre un utile in denaro, gravando il meno possibile sulle casse dello Stato, secondo il modello vincente di alcuni fulgidi esempi stranieri, come il British Museum o il Louvre.
    Per quanto ovvio possa sembrare questo aspetto a chiunque abbia una minima esperienza commerciale di qualsiasi tipo, non lo è affatto nell’ottica statalista dei Beni Culturali in Italia, in cui fino a due anni fa l’unico compito istituzionalmente riconosciuto a qualsiasi ente statale operante nel settore museale era esclusivamente quello della conservazione del bene.
    Non si era mai parlato di “dover” produrre un guadagno dalla promozione e dalla valorizzazione, ci si era sempre limitati a considerare il Direttore di un Museo come una sorta di Grande Custode, emanazione diretta dello spirito conservativo statale.
    Al di là, perciò, delle polemiche e delle critiche che ogni riforma governativa porta inevitabilmente con sè, bisogna riconoscere a questa in particolare lo sdoganamento del ruolo manageriale della figura del Direttore di un Museo, che da oggi in poi dovremo abituarci tutti a considerare come il Capo di un’azienda “commerciale” a tutti gli effetti.
    Ciò porta a due riflessioni; la prima riguarda l’inadeguatezza, anche se non generalizzata, della classe dirigente museale nazionale, che non è stata formata per dirigere un’azienda ma per tutelare e salvaguardare il Bene Culturale; ciò forse spiega la preferenza del Governo verso dirigenti stranieri, per quanto effettivamente spiccia sia stata la fase di selezione; certo è che all’estero il salto per così dire “imprenditoriale” nel settore culturale è stato fatto decenni fa, e naturalmente la formazione accademica ha lì prodotto figure professionali già pronte, mentre qui c’è ancora molta strada da fare in questo senso.
    La seconda riflessione, invece, è più filosofica: se il Museo è un’Azienda, allora il Bene Culturale è un prodotto, e come tale deve essere proposto al pubblico, che non è più composto da visitatori, ma da consumatori.
    Si esce dal recinto ideologico socialista e si entra nella piazza del mercato, oggi tra l’altro globalizzato.
    E mi chiedo: siamo pronti ad accettare veramente questa visione liberale della Cultura? Ci rendiamo veramente conto della portata ideologica di questo cambio di rotta? Secondo me non se ne sono accorti nemmeno Renzi e Franceschini, ma del resto le grandi trasformazioni di coscienza avvengono sempre così, in modo per così dire accidentale.
    Sono disponibile alla discussione del tema, a me particolarmente caro e che riprenderò anche nei prossimi mesi, poiché lo considero stimolante e degno di massima considerazione.

    Chiara Zuccarini






















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