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Il 14 Settembre 1321 moriva Dante Alighieri...
a cura di Maria Santini - Prima Parte Seconda Parte Terza Parte Quarta Parte

Una grande scrittrice e saggista come Maria Santini, autrice di tredici romanzi, di fondamentali saggi storici e biografici, una vastissima produzione [Cliccando qui potete scoprire tutta la sua bibliografia in eBook], offre gratuitamente, in quattro parti, una chiave molto originale di lettura per ricordare e scoprire l'Autore de La Divina Commedia. Buona Lettura

Gli ospiti di Dante

Questa non è soltanto la storia del sommo poeta ma delle grandi e potenti famiglie che lo ospitarono durante il suo lungo e mai terminato esilio: i signori dell’Appennino, cioè i marchesi Malaspina e i conti Guidi, gli Scaligeri, veri e propri sovrani di Verona, i Da Polenta di Ravenna. A loro si aggiunge Enrico VII del Lussemburgo, che non fu propriamente un ospite di Dante: anzi il sovrano e il poeta si incontrarono non più di due volte. Ma Enrico – chiamato da Dante sempre Arrigo – ebbe una tale importanza nella visione del mondo in cui il poeta credette fermamente, da dover essere necessariamente trattato in maniera approfondita anche in questa sede.
Comunque il nostro punto di vista è questo. In un dato momento della discendenza di tutti loro, uno o più membri delle famiglie citate si incontrarono con Dante, gli offrirono ospitalità, lo protessero. E anche di questo naturalmente parleremo.
Ma le famiglie in sé?
Il prima e il dopo Dante?
Quando si affacciarono alla storia, come influirono sugli avvenimenti italiani, quando si estinsero?

SECONDA PARTE

I conti Guidi

Cominciamo come al solito da Dante. Conclusa forzatamente la permanenza presso i Malaspina, il poeta scende dal nord al sud della Toscana, nel Casentino e precisamente al castello di Poppi dove lo accoglie il conte Guido da Battifolle il quale, tra parentesi, sembra il primo ad aver portato questo titolo. Dante è accolto con tutti gli onori per la sua fama sempre crescente di scienziato e diplomatico oltre che di poeta. E questo spiega una tale amicizia in quanto i precedenti di Guido non erano tali da dimostrare una grande simpatia verso i Guelfi Bianchi.
Il conte aveva cinque o dieci anni più di Dante, essendo nato fra il 1255 e il 1260. Aveva aderito alla parte guelfa e nel 1282 insieme a un gruppo di giovani ed entusiasti nobili fiorentini era sceso in Italia meridionale per sostenere il re di Napoli Carlo d’Angiò che a causa di quelli che poi furono chiamati Vespri Siciliani, stava perdendo la Sicilia: cosa che presto avvenne a dispetto del contingente fiorentino. Ma Guido non se ne curò più di tanto perché aveva partecipato alla spedizione solo per ottenere dal re l’ambito titolo di cavaliere.
Nel 1285 fu nominato podestà di Siena e prese parte alle campagne fiorentine contro la ghibellina Arezzo. Ma un altro episodio avrebbe dovuto metterlo in perpetua inimicizia con Dante: nel 1301 appoggiò il colpo di stato dei Neri, capeggiato dai Donati, quello che fece di Dante un esule perpetuo. E invece già nel 1307 troviamo il poeta ospite temporaneo di Guido nel castello di Poppi. Nel 1311, poi, dopo il distacco di Dante dai Malaspina, Guido lo ospitò per un anno intero a Poppi e a Porciano, fatti salvi, naturalmente, i numerosi viaggi del suo protetto.
Guido aveva sposato Gherardesca, figlia dello sventurato conte Ugolino. Pare che Dante abbia scritto il trentatreesimo canto dell’Inferno, quello dedicato alla tragedia svoltasi nella Torre della Muda, proprio in quell’anno forse come omaggio alla gentildonna.
Frattanto si profilava un enorme terremoto politico. Enrico del Lussemburgo, nuovo Sacro Romano Imperatore, “calava” in Italia per riaffermare i suoi diritti sul paese e farsi incoronare a Roma. Grande fu il giubilo di Dante del quale esamineremo più avanti le motivazioni: e con lui si schierarono la ghibellina Pisa (sì, proprio quella che Dante aveva chiamato “vituperio delle genti”, augurandosi caritatevolmente che l’Arno la inondasse annegando tutti) altre città ghibelline e fra gli amici di Dante, Moroello e Franceschino Malaspina. Anche Guido si schierò con l’invasore tedesco, ma fra tutti fu il più tepido, il più cauto e il primo a defilarsi, sbarazzandosi anche di Dante.
Ma prima di andare avanti con la narrazione, vediamo chi erano e come erano diventati tanto potenti i conti Guidi.

Potenti e feroci

Come i Malaspina, i Guidi si affacciarono alla storia nel decimo secolo. Il loro capostipite portava il fiero nome di Teudegrimo e operò nei primi decenni di quel secolo. Ebbe due figli, Guido e Raniero, che divenne abate, contemporanei dell’imperatore Ottone I. La discendenza fu assicurata ovviamente da Guido che divenne signore del Casentino, dove si trovavano i due principali castelli di Poppi e di Porciano, nonché il chiacchierato castello di Romena dove in seguito, ovviamente sotto la protezione dei Guidi, operò Mastro Adamo, abile falsario del fiorino d’oro di Firenze.
Diciamo subito che Mastro Adamo, scoperto dalla Signoria Fiorentina, finì al rogo (1281) e come se non bastasse, Dante lo spedì all’Inferno dove i falsari sono puniti con malattie schifose.
In Romagna, invece, i Guidi furono signori dei castelli di Dovadola e Modigliana. Per qualche generazione i nomi di Teudegrimo e Guido si alternarono ma alla fine Guido prevalse. Ai tempi della Gran Contessa Matilde di Toscana (seconda metà dell’undicesimo secolo) i conti Guidi si erano meritati una tale fama di guerrieri spietati e crudeli che il Guido di turno fu denominato “Guido Guerra” e da allora in poi tutti i discendenti ebbero questo appellativo. Non solo: Matilde, che li considerava ottimi alleati, verso il finire del secolo adottò il giovane Guido Guerra II.
Matilde era stata sposata due volte ma sempre infelicemente. Dal primo marito Goffredo di Lorena detto il Gobbo, era nata una bambina, chiamata Beatrice come la nonna materna, che visse poche ore (1070): poi il matrimonio si sfasciò tanto che quando Goffredo venne assassinato a Frisinga, in Germania (1076), si sospettò che dietro quella morte orribile ci fosse la mano di Matilde.
Parecchi anni dopo la contessa quarantatreenne fu persuasa dal papa Urbano II a sposare … un ragazzino, il sedicenne Guelfo di Baviera. Ma il povero adolescente, certamente intimidito da quella Signora tanto più grande di lui, non riuscì a consumare il matrimonio. Stavolta non ci fu una fine tragica ma Guelfo venne rispedito dalla “moglie” nella natia Baviera.
Ma Matilde non resistette neppure come madre virtuale. Tanto la contessa era stata nemica dell’imperatore Enrico IV (quello dell’umiliazione di Canossa, per intenderci) tanto ebbe buoni rapporti con il figlio di lui, Enrico V. Così nel 1108 Matilde si accordò con questo nuovo imperatore che la persuase a cancellare l’adozione di Guido Guerra e a disporre diversamente dei suoi feudi.
Quindi Guido non divenne il signore di mezza Italia ma rimase saldamente in possesso del territorio avito. Morì nel 1124 e i suoi discendenti trovarono, nella seconda metà del secolo dodicesimo, dei formidabili protettori negli imperatori svevi: Federico Barbarossa e il figlio Enrico VI. Quest’ultimo ampliò i possessi dei Guidi sia in Toscana che in Romagna (1191). Così Guido Guerra III divenne il più potente signore dell’Italia centrale. Ma ebbe cinque figli maschi e si ripeté il destino dei Malaspina. I Guidi si divisero non solo territorialmente ma anche politicamente. Alla battaglia di Montaperti (1260) quella che costò quasi la rovina di Firenze, due cugini Guidi furono dalla parte dei ghibellini senesi e altri due da quella dei guelfi fiorentini.
Ma siamo ormai tornati a Dante e al suo rapporto con Guido da Battifolle, complicato dalla discesa in Italia dell’imperatore Enrico VII.

Arriva il tedesco

Enrico non fu propriamente uno degli ospiti di Dante. Imperatore e “suddito “entusiasta si incontrarono di persona poche volte, forse due, a Genova e a Pisa, e dobbiamo ritenere che Dante non fece la minima impressione al sovrano. Uno dei tanti intellettuali ghibellini, l’avrà giudicato.
Dante invece vedeva realizzarsi il sogno di una vita. Pe lui quello che si rivelò per un mediocre e prepotente signorotto tedesco e che ai tempi nostri sarebbe stato definito un arrampicatore sociale, era l’Imperatore cristiano mandato da Dio per governare il mondo. Ma della posizione del poeta diremo dopo. Prima occupiamoci della sbilenca ma non per questo meno cruenta impresa di questo nuovo imperatore.
Il personaggio non gode del resto di buona stampa soprattutto a ragione dell’esito disastroso della sua impresa italiana ma sarebbe un errore considerarlo un insicuro e un inetto. Enrico aveva un’altissima opinione di sé ed era ben saldo nelle sue convinzioni. Non per niente riuscì a farsi eleggere Sacro Romano Imperatore all’età di 35 anni (1309) riuscendo a spuntarla su quello che oggi chiameremmo un pezzo da novanta, cioè il francese Carlo di Valois, fratello del potentissimo re Luigi IV il Bello: quello stesso principe che aveva supportato il colpo di stato del Neri di Firenze nel 1301. Impresa doppiamente importante, quella di Enrico, che a differenza dell’avversario non era nessuno: discendeva infatti dai modesti conti del Lussemburgo.
Una volta eletto, Enrico svelò subito le sue ambizioni smisurate. Voleva per prima cosa scendere in Italia, il giardino dell’Impero, per farsi incoronare Imperatore e Re. Questo era lo scopo ufficiale mentre quello a cui il sovrano teneva di più era riaffermare il suo potere sulle ricche città dell’Italia settentrionale e centrale. La sua bestia nera era Firenze, ricca, potente e guelfa. Detto fatto: il giovane imperatore armò un poderoso esercito e partì.
Da principio tutto parve andargli bene. Varcato il Moncenisio, fu accolto con favore da Amedeo di Savoia, in Piemonte e poi gli andò bene anche a Milano. Qui riuscì a riportare al potere i Visconti, cacciati da un colpo di stato dei Della Torre e ottenne il primo successo tanto ambito: fu incoronato re d’Italia, con l’antica Corona Ferrea, nella prestigiosa basilica di Sant’Ambrogio (6 gennaio 1311).
Passò quindi a Genova che però era una repubblica marinara troppo potente per essere sfidata. Si presentò quindi come conciliatore fra le varie parti in lotta, in un periodo particolarmente turbolento. Non ottenne grandi risultati se non quello di essere colpito da un lutto: nella regione serpeggiava la peste e di peste morì sua moglie e coetanea, l’imperatrice Margherita di Brabante. Di lei non si sa molto, se non che aveva dato al marito diversi figli, ormai adulti, e che passava per essere una donna buona e dolce.
Non si sa quanto commosso, Enrico diresse il suo esercito in Lombardia. Diverse città ghibelline gli resero omaggio ma altre lo rifiutarono. E qui venne a galla tutta la sua ferocia. Assediò Cremona, la conquistò e fece radere al suolo le mura, occupandola militarmente nel modo più brutale: poi si rivolse contro Brescia, che ugualmente dovette capitolare e contro Pavia. Parimenti si dimostrava spietato contro i singoli personaggi che pure gli avevano giurato fedeltà, quando si convinceva che lo stavano tradendo. Allora erano per i disgraziati torture orribili prima di una morte altrettanto orribile.
A questo punto tutte le città del Nord, comprese quelle di fede ghibellina, cambiarono repentinamente opinione su di lui e gli si rivoltarono contro. Ma Enrico stava ormai scendendo verso Roma, ben deciso ad essere incoronato Imperatore dal pontefice in San Pietro. Invano Dante, non molto caritatevolmente, lo esortò a conquistare per prima cosa Firenze…
Ma a Roma Enrico trovò una situazione che, se non fosse stata tragica, avrebbe assunto l’aspetto di una farsa. Per prima cosa, Clemente V, il pontefice che aveva appoggiato molto tepidamente l’impresa del tedesco, non c’era e non aveva nessuna intenzione di tornare: sotto la pressione di Filippo il Bello, si era trasferito in Francia (1309). Cominciava con lui infatti la famosa “cattività avignonese” che si sarebbe conclusa solo verso la fine del secolo (1377).
Inoltre, farsi incoronare in San Pietro era impossibile. Roma era divisa in fazioni in lotta feroce fra di loro e il Vaticano era occupato dagli Orsini, ostili alle pretese del nuovo venuto, e dalle milizie del re di Napoli Roberto d’Angiò, suo nemico dichiarato.
Andò a finire che Enrico riuscì a farsi incoronare imperatore ma in San Giovanni in Laterano, sotto la protezione dei Colonna. La corona gli fu imposta dai tre potenti cardinali ghibellini Niccolò da Prato, Luca Fieschi e Arnaud de Faugères (29 giugno 1312). Potenti quanto si vuole, ma sempre un ripiego. E ben presto l’Imperatore giudicò salutare lasciare Roma.
Non si arrendeva, però. A questo punto decise di porre l’assedio a Firenze (settembre 1312). Ma stavolta il boccone risultò troppo indigesto anche per lui. Firenze era una città troppo grande per essere completamente chiusa dall’esercito di Enrico: i suoi approvvigionamenti e i suoi commerci continuavano attraverso diverse porte che il nemico non riusciva a controllare. Così dopo sei settimane l’imperatore fu costretto a levare l’inutile e parziale assedio. A questo punto dovette essere molto disorientato. È vero, aveva conquistato parecchie città toscane ma cominciava a chiedersi se il gioco valesse la candela … specialmente perché non aveva più soldi per pagare le truppe.
Furono i suoi alleati ghibellini a convincerlo a continuare. La ricca Pisa procurò ingenti somme di danaro così come altre città. Ma soprattutto Federico d’Aragona, re di Sicilia e nemico giurato di Roberto d’Angiò, stipulò un’alleanza con l’imperatore, alleanza che avrebbe dovuto stringere il regno di Napoli in una morsa, eliminando ogni pericolo da quel lato.
Enrico quindi riprese la lotta con vigore ma questa volta ci si mise il destino. Mentre muoveva contro la guelfa Siena, che intendeva assediare, l’imperatore si ammalò e morì nella città di Buonconvento il 24 agosto 1313. Si parlò di febbri malariche ma anche di avvelenamento. Ma nulla è certo. Enrico non lasciò l’Italia: ebbe una tomba suntuosa nel Duomo di Pisa, visibile ancor oggi. Recentemente è stata compiuta una ricognizione dei suoi resti che ha dimostrato la presenza di arsenico nelle viscere. Tuttavia ciò non vuol dir molto. L’arsenico, a quei tempi, era adoperato anche a scopo curativo e quindi potrebbe essergli stato somministrato da medici in perfetta buona fede.
Quello che conta è che per Dante quella morte rappresentò il crollo di ogni speranza.

Ma perché Dante …

… se la prese tanto? Perché si era speso tanto per quello che, in fondo, non era che un invasore?
Consideriamo i fatti. Come seppe della “calata” di Enrico, che seguendo il volgare dell’epoca chiama sempre Arrigo, Dante prese ad agitarsi.
Intanto scrisse, per conto della contessa Gherardesca di Battifolle, una lettera di benvenuto e augurio (ne esistono tre versioni), all’imperatrice Margherita: ma non si sa neppure se la poveretta, morta così precocemente, abbia mai ricevuto la versione definitiva.
Fin qui non c’era gran che di male trattandosi di una comunicazione quasi privata. Ma poi Dante letteralmente si scatenò con tre delle sue Epistole, documenti scritti in latino che egli mandava fuori ufficialmente. Si tratta delle Epistole V, VI e VII. La V è destinata ai signori d’Italia, che vengono ammoniti a sottomettersi di buon grado all’imperatore mandato da Dio. La VI è destinata ai Fiorentini, che il poeta senza tanti complimenti definisce “scelleratissimi”, perché anche loro si sottomettano all’Augusto Signore. Questa epistola non solo non ottenne, ovviamente, lo scopo per cui era stata scritta, ma valse al poeta la cancellazione dall’amnistia concessa dalla Signoria, in quell’anno 1311, a molti fuoriusciti.
Infine l’epistola VII è diretta all’imperatore “l’alto Arrigo” perché prenda in mano saldamente la situazione dell’Italia, con particolare riferimento a Firenze, città ribelle che deve essere domata.
Perché tutto questo? Perché Dante confonde un condottiero di mezza tacca con il salvatore dell’Italia anche a costo della rovina della sua patria? Dante è un traditore, un opportunista che è saltato sul carro di quello che crede il vincitore, per poter tornare a Firenze con tutti gli onori?
Ma non è così.
Dante non è un voltagabbana, le sue intenzioni sono pure. Crede appassionatamente in una visione del mondo e non capisce quanto ormai sia anacronistica: la teoria dei due Soli. Uno è il potere temporale e spetta all’imperatore, successore di Carlo Magno e designato da Dio per governare il mondo: l’altro il potere spirituale, rappresentato dal pontefice ma che deve essere limitato alla cura delle anime. Il papa non può essere considerato un monarca con tutti i vizi e le prepotenze degli altri. Dante si ostina a non capire che il “primo sole” è ormai oscurato per sempre data l’affermazione degli stati nazionali e delle potenti città italiane: là dove non sono riusciti sovrani del calibro di Federico Barbarossa e Federico II certo non sarà un piccolo Arrigo lussemburghese a realizzare la monarchia universale da lui auspicata. Né può sapere, Dante, che invece la seconda parte del sogno si realizzerà … ma cinque secoli dopo quando il papa smetterà di essere anche “re” (1870) e da allora on poi sarà solo un pastore di anime.
Né gli ideali di Dante vennero meno dopo il fallimento dell’impresa imperiale e la morte del suo Arrigo. Nel “Paradiso”, giunto nella “Candida Rosa” egli vede, tra i seggi occupati dai beati, un trono vuoto, sormontato da una corona. Beatrice gli spiega che esso attende “l’Alto Arrigo che a drizzare Italia/verrà prima ch’ella sia disposta”. Ricordiamo che il viaggio ultraterreno di Dante si svolge nella primavera del 1300, quando Arrigo era un giovane vivo e vegeto, ben lontano dalla dignità imperiale.
L’appassionata presa di posizione di Dante gli costò anche la protezione dei Guidi. In particolare, Guido da Battifolle si andava sempre più riavvicinando ai Fiorentini, convinto di non poter competere con la loro potenza. Così quando Firenze mandò una delegazione al castello di Porciano per prendere in consegna Dante, il conte non si oppose ma fece in modo di allontanare il suo ospite prima dell’arrivo dei Fiorentini. Un aneddoto, che forse è leggenda, vuole che il poeta mentre scendeva lungo la valle casentinese si incontrasse con i magistrati fiorentini che salivano a prenderlo. Fortunatamente essi non lo riconobbero anzi chiesero proprio a lui se al castello fosse ospitato un certo Dante Alighieri. Quando io v’ero, v’era avrebbe risposto impassibile il poeta. E così ognuno proseguì per la sua strada.
Ma come era abbigliato Dante in simili circostanze? È giunto il momento di spogliarlo dell’onnipresente lucco. In viaggio, avrà indossato mantello, calzabraca, casacca e stivali, come tutti.
Stavano infatti tramontando i tempi in cui i ricchi fiorentini, Dante compreso, vestivano abiti pesanti e ingombranti, lunghi fino ai piedi. In questo stile, era prevista la gonnella, stretta in vita da una cintura, e sopra di essa la gamurra, chiamata anche guarnacca o guarnaccia, cioè una veste di stoffa pregiata con ampie maniche. Infine ci si copriva con un mantello e, se si era una persona autorevole, con il famoso lucco. Casacca e calzabraca indicavano che gli antichi vestiti lunghi si erano per dir così ritirati. La casacca scendeva di poco sotto la vita e le calze di un tempo salivano fino a formare un pantalone che la moda voleva aderentissimo in tutti i punti, tanto da rappresentare lo scandalo dei religiosi. Tale pantalone a seconda pelle era rinforzato sotto le piante dei piedi a formare una scarpa incorporata: ma si usavano anche scarpe vere e proprie e stivali.
Non restava a questo Dante più modernamente calzato e vestito che chiedere asilo a un potentato più forte della Signoria fiorentina: quello di Cangrande della Scala a Verona. Ma prima di arrivare a questo punto vediamo quale fu la decadenza e la fine del potere dei conti Guidi.

Una parabola discendente

Guido da Battifolle rimase fedele all’alleanza con i Fiorentini e la cosa gli costò abbastanza cara. Mandò infatti un contingente di truppe a sostegno della Signoria che si preparava alla guerra contro i Pisani, i quali avevano come comandante in capo il famoso condottiero Uguccione della Faggiola. Nella battaglia di Montecatini (1315) i Fiorentini furono clamorosamente sconfitti e Guido vi perse il figlio Simone, che guidava le truppe paterne.
Se Firenze si salvò, lo dovette al fatto che riuscì a ricomporre i dissidi interni e anche alla mediazione affidata proprio a Guido, eletto per un anno vicario della città. Successivamente il conte fu chiamato a Genova perché anche lì si adoperasse a concretare una riconciliazione tra le fazioni ma in questo caso non poté che fallire. La situazione era troppo incancrenita. Alla fine si ritirò nel castello di Poppi e delegò il potere ai suoi figli. Morì un paio d’anni dopo Dante.
Cominciò allora una decadenza dei Guidi che fu lenta ma inesorabile. Nel 1377 Modigliana si ribellò ai conti e si consegnò alla signoria di Firenze. Da allora in poi i numerosi castelli dei Guidi furono smantellati dai Fiorentini o svenduti dai proprietari impoveriti. Rimanevano solo, ancora abbastanza potenti, i signori di Poppi.
Passarono ancora cinquant’anni e il conte Francesco Guidi compì l’errore irreparabile che avrebbe distrutto il casato. Nel 1440 una coalizione formata da Firenze, Venezia e lo Stato Pontificio, si preparò ad affrontare il duca di Milano Filippo Maria Visconti che scendeva in Toscana ben deciso ad espandersi territorialmente. Ebbene, Francesco Guidi concesse il passaggio attraverso le sue terre all’esercito milanese invasore. I due contendenti si scontrarono in battaglia ad Anghiari vicino Arezzo, e la coalizione vinse.
Fu la fine per Francesco. Il castello di Poppi venne occupato dai Fiorentini che, data la mole e l’importanza strategica dell’imponente costruzione, non lo distrussero. Se ne impadronirono, ovviamente, facendone un avamposto militare di tutto rispetto e diedero al conte Francesco il permesso di allontanarsi con la famiglia. I Guidi si stabilirono a Bologna … e uscirono dalla storia.

2. CONTINUA


MARIA SANTINI è una grande scrittrice e saggista. È autrice di tredici romanzi, di fondamentali saggi storici e biografici: Cliccando qui potete scoprire tutta la sua vasta bibliografia in eBook.



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