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Il 14 Settembre 1321 moriva Dante Alighieri...
a cura di Maria Santini Prima Parte Seconda Parte Terza Parte Quarta Parte

Una grande scrittrice e saggista come Maria Santini, autrice di tredici romanzi, di fondamentali saggi storici e biografici, una vastissima produzione [Cliccando qui potete scoprire tutta la sua bibliografia in eBook], offre gratuitamente, in quattro parti, una chiave molto originale di lettura per ricordare e scoprire l'Autore de La Divina Commedia. Buona Lettura

Gli ospiti di Dante

Questa non è soltanto la storia del sommo poeta ma delle grandi e potenti famiglie che lo ospitarono durante il suo lungo e mai terminato esilio: i signori dell’Appennino, cioè i marchesi Malaspina e i conti Guidi, gli Scaligeri, veri e propri sovrani di Verona, i Da Polenta di Ravenna. A loro si aggiunge Enrico VII del Lussemburgo, che non fu propriamente un ospite di Dante: anzi il sovrano e il poeta si incontrarono non più di due volte. Ma Enrico – chiamato da Dante sempre Arrigo – ebbe una tale importanza nella visione del mondo in cui il poeta credette fermamente, da dover essere necessariamente trattato in maniera approfondita anche in questa sede.
Comunque il nostro punto di vista è questo. In un dato momento della discendenza di tutti loro, uno o più membri delle famiglie citate si incontrarono con Dante, gli offrirono ospitalità, lo protessero. E anche di questo naturalmente parleremo.
Ma le famiglie in sé?
Il prima e il dopo Dante?
Quando si affacciarono alla storia, come influirono sugli avvenimenti italiani, quando si estinsero?

QUARTA ED ULTIMA PARTE

Un divorzio consensuale

Come avviene ciclicamente nella convulsa biografia del Dante esiliato, anche in questo caso, cioè nel suo passaggio da Verona a Ravenna, niente è chiaro. Si ritiene comunemente che Dante sia stato invitato da Guido Novello da Polenta, podestà ma in realtà signore guelfo della città e che il periodo trascorso a Ravenna dall’esule sia stato di circa tre anni, dal 1318 al 1321 quando la morte pose fine a tutto. Ma naturalmente gli studiosi danteschi non sono concordi e c’è chi riduce stato drasticamente il periodo. Noi ci atterremo all’ipotesi più seguita, cioè quella dei tre anni di permanenza a seguito dell’invito rivolto da Guido Novello, poeta lui stesso, a quel personaggio che ormai non veniva più considerato un esule sbandito ma un letterato e uno scienziato prestigioso.
Comunque siano andate le cose, il “divorzio” da Cangrande dovette svolgersi in maniera estremamente civile. Può anche darsi che Cangrande abbia tirato un sospiro di sollievo nel non vedere più, alla sua festosa tavo-la, quel commensale scorbutico, immusonito e dalla lingua affilata. Ma in ogni caso senza prendersela: la famiglia Alighieri sarebbe sempre stata bene accetta, nella sua Verona.
Non dimentichiamo: fu a Verona nella chiesa di Sant’Elena che Dante, il 20 gennaio 1320, tenne una conferenza per illustrare la sua ultima (in tutti i sensi) opera scientifica “Quaestio de aqua et terra”: cosa che sarebbe stata impossibile senza l’approvazione del Signore. E successiva-mente suo figlio Pietro ritornò nella città scaligera dove divenne un giudice stimatissimo e rispettato. Ed anche Jacopo, parecchi anni dopo, finì per tornarvi.
Ma ecco quindi Dante a Ravenna, seguito dai fedeli Pietro e Jacopo e raggiunto anche dalla figlia Antonia. Di Gemma si è detto: potrebbe aver completato la famiglia ma è estremamente improbabile. Sentimenti a parte, a Firenze c’erano degli interessi da salvaguardare, delle case da custodire. E poi perché la moglie di Dante non sarebbe stata menzionata co-me presente a Ravenna insieme ai figli e alla figlia? Non dal marito, naturalmente, che, lo ribadiamo, degli stretti familiari non parla mai, ma dalle fonti che abbondano di notizie su Pietro, Jacopo e Antonia.
Ma lasciamo ora il poeta ad organizzarsi nella sua nuova vita per raccontare, come già fatto negli altri casi, la scalata della stirpe dei Da Po-lenta fino al dominio su Ravenna.

Siede la terra dove nata fui

I Da Polenta prendevano il nome da un castello nelle loro terre, vicino alla cittadina di Bertinoro. In realtà affermavano di discendere da un nebuloso duca Geremia ma è certo che il primo di loro a distinguersi fu, ai tempi di Dante, Guido detto a posteriori “Il Vecchio”.
Guido era di fede guelfa e dovette lottare strenuamente contro la potente famiglia ghibellina dei Traversari per la supremazia su Ravenna. La vittoria definitiva del Polentano si ebbe nel 1275. Guido assunse il titolo di podestà ma in realtà fu il primo di una serie di signori assoluti della città.
Nella sua lotta contro i Traversari aveva avuto come prezioso alleato il signore di Rimini, Gianciotto Malatesta. Pare che sia per un motivo di riconoscenza che Guido gli abbia dato in moglie la figlia Francesca, in quel 1275 all’incirca quindicenne. E così comincia una delle storie d’amore e di sangue più famose della letteratura occidentale. Ed è proprio Dante che ha tratto dall’ombra quella che altrimenti sarebbe stata una vicenda di comune adulterio e feroce vendetta maritale come ne capitavano tante, all’epoca. E non solo all’epoca. Un secolo e mezzo dopo (1425) sarà proprio una Malatesta, Laura detta Parisina, a finire decapitata per ordine del marito Niccolò III marchese d’Este, insieme all’amante Ugo, che poi era il figlio, fino allora amatissimo, del suddetto Niccolò.
Dante nel quinto canto dell’Inferno mostra per Paolo e Francesca, i due amanti travolti dalla “bufera infernale” una grande pietà e una commozione così grande da cadere, alla fine, svenuto. D’altro canto, Francesca ha per lui delle parole tenerissime:
se fosse amico il re dell’Universo
noi pregheremmo lui per la tua pace
poiché hai pietà del nostro mal perverso
Insomma Dante è costretto dal suo senso morale a collocare i due sventurati cognati all’ Inferno ma tutte le sue simpatie vanno a loro, non al feroce marito di lei il quale un giorno, afferma per bocca di Francesca, fini-rà pure lui dannato nella Caina, destinata ai traditori dei parenti. D’altra parte, l’adulterio c’era stato, e doppio: sia Paolo che Francesca erano sposati e con figli.
Naturalmente i mirabili versi di Dante hanno ammantato di poesia la vicenda che si è sviluppata ben oltre i tempi suoi, sia nella letteratura che nelle arti figurative. Sia Paolo che Francesca nella tradizione sono diventati giovanissimi e bellissimi mentre Gianciotto è stato descritto come un mostro.
Si è detto che la giovane donna sia stata sposata per procura con Paolo in rappresentanza dell’effettivo marito Gianciotto, ma che lei fosse convinta di essersi veramente unita al Malatesta “bello”. Ma è un’ipotesi che non regge: data la particolarità di un simile rito, la giovane donna non avrebbe potuto non rendersi conto della realtà. Paolo era solo un rappresentante, il vero marito l’attendeva a Rimini.
Veniamo ai pochi dati certi che abbiamo. Giovanni Malatesta, detto Gian “ciotto”, cioè zoppo, soffriva del rachitismo ereditario della sua famiglia. Due secoli e mezzo dopo (1409) una Paola Malatesta, sposando il marchese di Mantova Gianfrancesco Gonzaga, avrebbe introdotto il rachitismo e l’accentuata scoliosi anche nella dinastia mantovana.
Tutto ciò però non vuol dire che Gianciotto fosse anche bruttissimo. Avrà avuto un aspetto normale, a parte la forte zoppia. Ma indubbiamente dovette rappresentare una forte delusione per una ragazzina quindicenne.
All’atto del matrimonio lo sposo aveva una trentina d’anni. Paolo, di due anni minore, era immune dalla malattia di famiglia ed effettivamente veniva chiamato “Paolo il Bello”. Sua moglie era la nobildonna Orabile Beatrice di Ghiaggiolo sposata nel 1270 ed ereditiera del feudo dei suoi avi. Avevano due figli, Uberto e Margherita. E anche Francesca aveva una figlia, la piccola Concordia.
Nel 1282 Paolo fu Capitano del Popolo a Firenze e in quella occasione conobbe sicuramente Dante. I due dovettero simpatizzare. Il poeta però nel canto a loro dedicato fa parlare solo Francesca: Paolo si limita a piangere.
E veniamo alla tragedia che si compì al ritorno del bel Malatesta in patria fra il 1283 e il 1285. È probabile che, come capita in questi casi, i due amanti avessero cominciato a trascurare le precauzioni necessarie ai loro incontri segreti oppure che qualcuno abbia fatto la spia a Gianciotto: certo è che costui sorprese gli adulteri in flagrante delicto e non ci pensò due volte a vendicarsi nel modo più terribile, passandoli a fil di spada. Ciò causò un momentaneo attrito fra i Malatesta e i Da Polenta: attrito presto superato perché sia Guido che Gianciotto, tutti e due di parte guelfa, avevano troppi interessi in comune. Su tutta la vicenda conveniva ad entrambi stendere un velo di silenzio.
Non avevano fatto i conti con Dante, che la rese immortale.
Tuttavia, il truce delitto non portò fortuna a Gianciotto che solo pochi anni dopo (1288) fu scacciato da Rimini. Cadde in piedi perché fu accolto a Pesaro dove resse la carica di podestà fino alla morte (1304). Intanto si era risposato ed aveva avuto numerosi figli. Una tradizione non provata vuole che egli sia stato assassinato da Uberto, il figlio di Paolo che intendeva così vendicare il padre.

Un Signore poeta: Guido Novello

Un poeta, sì, vagamente di stampo stilnovista. Corretto ma mediocre. Alcune delle sue opere, tre ballate e un sonetto, hanno avuto l’onore di essere chiosate e commentate dal grande italianista novecentesco Natalino Sapegno.
Poeta lui stesso, Guido Novello aveva creato un piccolo cenacolo letterario e certamente toccò il cielo con un dito quando si poté appropria-re anche del famoso Dante Alighieri.
Riprendiamo un attimo la storia dei suoi “maggiori” come avrebbe detto Dante. Guido il Vecchio cedette il potere al figlio Lamberto (1297) e costui, morendo nel 1316, designò a sua volta come successore il figlio di suo fratello Ostasio, premorto: Guido, detto Novello per distinguerlo dal nonno.
Dobbiamo riconoscere all’ancor giovane signore (aveva una decina d’anni meno di Dante) una grande sensibilità e una sincera comprensione delle necessità del suo ospite. Così per prima cosa gli mise a disposizione una casa perché ci andasse a vivere con i suoi figli. Una vera casa, fatta per una famiglia, il cui portone si poteva chiudere escludendo gli estranei, come ai tempi ormai lontani di Firenze. Non più stanze in castelli altrui, stanze magari confortevoli ma sempre “degli ospiti” o i locali pur lussuosi dei palazzi di Cangrande, dove tutti andavano e venivano senza ritegno e mille occhi spiavano e deridevano.
Indubbiamente non sarà stata una reggia. La Ravenna del tempo di Guido Novello doveva avere un aspetto alquanto deprimente. Quello che era stato uno dei due porti più importanti dell’Impero Romano quando Venezia ancora neppure esisteva, ormai distava due miglia dal mare ma canaletti ed anche piccoli stagni continuavano a insinuarsi fra le case, basse e povere. Perfino i Traversari e i Da Polenta vivevano in palazzetti assai modesti. In compenso c’erano duecento Chiese fra le quali spiccavano i meravigliosi capolavori bizantini che sono giunti fino a noi … anche se purtroppo, molte altre opere di pari bellezza sono andate perdute.
Dove fosse situata la casa di Dante è un altro dei suoi misteri. Spiegabilissimo, del resto: tutta quella Ravenna “povera” era destinata a sparire nei secoli successivi a favore di case e palazzi molto più imponenti e dignitosi. La casa di Dante sarà stata abbattuta e trasformata diverse volte senza che si serbasse la memoria del suo antico, illustre ospite. Ad ogni modo si pensa che sia stata ubicata nell’attuale via Corrado Ricci, in quella che viene chiamata “Zona dantesca” della città.
Ma, altra cosa importantissima, finalmente la famiglia venne resa indipendente dal punto di vista finanziario. Guido Novello assegnò a Pietro le rendite di due ricche chiese abbaziali. Ciò risolse il problema del “pane altrui”. Antonia divenne suora nel convento di Santo Stefano degli Ulivi, non sappiamo se prima o dopo la morte del padre. E neppure sappiamo se Dante raccolse intorno a sé una schiera di discepoli paganti, come usavano fare allora gli studiosi di prestigio. Certo è che intorno a Guido e a Dante si formò un cenacolo di poeti, letterati e filosofi. Una vita serena, finalmente, e punteggiata di soddisfazioni.
Ci fu anche la piccola provocazione di un letterato bolognese, Giovanni del Virgilio, il quale (siamo fra il 1319 e il 1320) rimproverò a Dante di aver privilegiato, lui, uno studioso così emerito, la lingua volgare. Dante rispose con un’egloga latina alla maniera di Virgilio, ribadendo le sue tesi. Giovanni non fu da meno … insomma furono quattro le egloghe scambiate. In una cosa Giovanni del Virgilio non riuscì: nonostante insistentemente lo pregasse, Dante si rifiutò di andare a Bologna per partecipare, presso il prestigioso Studio, a una pubblica discussione in merito. Certo gli sarebbe piaciuto ma conosceva bene il momento politico e sapeva che Bologna in quel momento era una stretta alleata di Firenze. Per conseguenza, recarsi nella città felsinea avrebbe rappresentato un grosso rischio. L’anatema dei suoi concittadini contro di lui era tutt’altro che caduto. Qualcuno ha perfino insinuato che Giovanni del Virgilio fosse un agente provocatore … ma in realtà non ci crede nessuno. Quel mite studioso pazzo per Virgilio, di cui aveva preso perfino il nome (quello suo vero non si conosce, si sa solo che era figlio di un Antonio), non era di certo una pedina del gioco politico dei potenti.

Tutto finisce

… anche il poema “al quale ha posto mano cielo e terra”. La Commedia, quella a cui Boccaccio attribuirà l’appellativo di Divina, è completa-ta.
L’amor che move il sole e le altre stelle
Ma è come se avesse consumato il suo autore: a breve Dante morirà. È proprio l’enorme considerazione che Guido Novello ha del suo ospite a decretarne la fine. Il Signore di Ravenna, infatti vuole che il suo poeta faccia parte dell’ambasceria che intende mandare a Venezia per concordare un trattato.
Era avvenuto infatti che le navi ravennati si fossero messe a compiere veri e propri atti di pirateria nei confronti della flotta veneziana. Tutto ruotava intorno al monopolio per il commercio del sale. La Serenissima non poteva tollerare un simile affronto e stava stipulando un’alleanza antiravennate con Cecco Ordelaffi, dal 1315 succeduto al fratello Scarpetta in qualità di signore di Forlì. Guido Novello capì di aver tirato troppo la corda e cercò di risolvere la cosa per via diplomatica. Era ovvio che pensasse ad inserire Dante come uno dei membri più autorevoli della sua ambasceria ai Veneziani perché sapeva che diverse volte il poeta o meglio in questo caso il patteggiatore Dante aveva svolto con successo missioni simili per i suoi precedenti protettori e forse anche qualcuna per lui. Inoltre Dante era stato molto amico di Scarpetta Ordelaffi, che aveva frequentato nei primi tempi del suo esilio. Ed era probabile che avesse avuto buoni rapporti anche con Cecco.
Sul lato pratico, non sappiamo bene come fu organizzata la missione. Sembrerebbe che i Ravennati abbiano raggiunto Venezia via mare ma che poi le navi, una volta sbarcati gli ambasciatori, siano tornate indietro forse anche per disposizione del doge, che era allora Giovanni Soranzo. Questo Doge è “accusato” anche di aver impedito ai Ravennati, una volti conclusi i colloqui di pace, di ripartire per mare. Ma non è una notizia certa. La decisione di tornare a Ravenna via terra attraverso le paludi di Co-macchio, infestate dalla “mala aria”, cioè dall’aria infetta che poteva causare la malattia, (così si pensava allora) può essere stato un rischio calcolato dagli ambasciatori, impazienti di tornare a casa senza aspettare il ri-torno delle navi dalla loro città.
Era la metà di agosto del 1321.
L’ambasceria fu un successo … che Dante non vide. Il trattato che sanciva la pace fra Venezia e Ravenna e che fu rispettato da ambo le parti, venne firmato in prima istanza nell’ottobre di quel 1321, quando Dante, forse il suo principale artefice, era morto da circa un mese.
Tornato a Ravenna, forse già febbricitante, il poeta andò aggravandosi sempre più. Evidentemente una forma acuta di malaria stava avendo ragione del suo fisico debilitato dalla vita che aveva condotto in quegli ultimi vent’anni. Senza contare che un uomo di cinquantasei anni all’epoca era a tutti gli effetti paragonabile a un ultrasessantenne di oggi.
Ricordiamo che ventun anni prima, precisamente il 29 agosto 1300, era morto ugualmente di malaria il più grande amico del poeta, Guido Cavalcanti, altro famoso rappresentante dello Stilnovo. Dante gli aveva dedicato, al tempo della loro giovinezza poetica, un sonetto dalla prima quartina delicata e fiabesca, una delle sue composizioni più incantevoli:
Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
Fossimo presi per incantamento
E messi in un vasel ch’ad ogni vento
Per mare andasse a voler vostro e mio

Guido, che rappresentava di certo un rimorso per Dante. Infatti nel giugno 1300 il poeta, allora priore, aveva dovuto votare con gli altri colleghi l’esilio dei notabili più facinorosi di Firenze, sia Bianchi che Neri. E Guido, bianco arrabbiato, certo non si risparmiava quanto a turbolenza. Stabilitosi a Sarzana, Cavalcanti contrasse subito la malaria in forma violenta tant’è vero che fu presto richiamato a Firenze per quelli che noi chiameremo mo-tivi umanitari e in patria morì.
Si vuole che Dante sia morto nella notte tra il 13 e il 14 settembre del 1321. Ma come al solito manchiamo di particolari. Il malato potrebbe essere rimasto abbastanza lucido per chiedere di essere sepolto, vestito del saio francescano, nella vicina chiesa che allora si chiamava San Pietro Maggiore in San Francesco dato che vi era annesso il convento dei Frati Minori. A meno che non avesse preso questo sue decisioni da tempo e nelle ultime ore non sia più stato presente a sé stesso. Si accorse di tutti quelli che si agitavano intorno a lui, Pietro, Jacopo, Antonia, certamente accanto al padre, che fosse monaca o no? E ancora percepì il poeta la presenza di Guido Novello che, disperato, sarà di sicuro stato al suo capezzale con i suoi medici migliori? Del resto è anche possibile se non probabile che l’illustre infermo sia stato trasportato nel palazzo del Signore per ricevere le cure più appropriate in un ambiente più comodo della sua casetta senz’altro mediocre, come tutte quelle di Ravenna.

A Ravenna, per sempre

Accenneremo ora brevemente alle rocambolesche avventure della sepoltura del poeta. Guido Novello, disperato per la perdita del suo vate, organizzò per lui splendidi funerali e rispettò la sua volontà per una sepoltura in San Pietro. Forse Dante l’avrebbe preferita modesta, ma il Signore la volle grandiosa: un antico sarcofago di marmo posto a un lato del porto-ne d’ingresso alla chiesa. E anche dopo l’allontanamento forzato di Guido e finché i Da Polenta rimasero signori di Ravenna, Dante non corse nessun rischio di spostamento.
Questo benché i Fiorentini, finalmente consci di come avevano trattato un uomo della statura di Dante, ne richiedessero in varie occasioni la salma. Il pericolo più grave di rimozione essa lo corse durante il pontificato di Leone X Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico. All’ epoca Ravenna era ormai sotto il potere dello Stato Pontificio e i Frati Francescani non pote-vano disobbedire al papa, che ordinò la traslazione del corpo di Dante a Fi-renze. Michelangelo tutto ringalluzzito dichiarò di essere disponibile ad eseguire una tomba monumentale. Ma…
… Ma quando gli incaricati venuti da Firenze (1519) si fecero aprire la tomba, la trovarono …vuota. Le ossa del poeta erano state nascoste abilmente. I frati allargarono le braccia. Il tempo, si sa … e i fiorentini dovettero prenderla persa.
Passarono i secoli. La tomba venne ripristinata e nel 1780 fu costruito dall’eccellente architetto Camillo Morigia un tempietto neoclassico per contenerla. Ma era destino che le povere ossa non potessero trovare ancora la pace. Nel 1810 un editto di Napoleone soppresse gli Ordini Religiosi. I frati custodi della tomba, andandosene, preferirono lasciare una cassetta contenente le ossa del poeta in una porta murata … ma il nascondiglio funzionò così bene che se ne perse il ricordo. Fu solo nel 1865 che alcuni muratori, lavorando all’interno della struttura conventuale, trovarono la cassetta con la scritta “Ossa Dantis”. Esiste anche una foto, confusa e sgranata, del ritrovamento. Lo scheletro era per fortuna quasi intatto. Per tre giorni i Ravennati poterono omaggiarlo, dato che rimase esposto in una ricca teca di cristallo e argento.
Poi Dante tornò all’interno del tempietto. Ancora un piccolo spostamento delle ossa in un luogo sicuro durante la Seconda guerra mondiale dato che Ravenna fu pesantemente bombardata …
Il resto lo conosciamo. E dobbiamo dire che la pace della salma subì ancora qualche sopraffazione, sia pure a fin di bene: le ricerche degli antropologi forensi.
Sia detto en passant, ai Fiorentini non rimase che la consolazione di erigere un superbo cenotafio al poeta fra le tombe dei Grandi, in Santa Croce.

I tredici canti perduti (?)

Torniamo ai giorni immediatamente successivi alla morte di Dante. Il solito, infaticabile Boccaccio ci informa che i due figli, facendo passare le carte del padre, non riuscivano a trovare gli ultimi tredici canti del Paradiso: eppure erano sicuri che Dante avesse completato l’opera! E dovettero trascorrere ben otto mesi prima Jacopo facesse un sogno rivelatore. Il padre gli apparve e gli indicò il nascondiglio di quei canti in una specie di cavità coperta da una stuoia, nella sua camera da letto. Jacopo verificò ed effettivamente i tredici canti, umidi e semicancellati, vennero fuori. I figli li ricopiarono con zelo. La Divina Commedia era completa.
Ci sono tutti i presupposti per ritenere che questo racconto non sia veritiero. Una leggenda notevole, se vogliamo, ma una leggenda.
Sappiamo infatti che Guido Novello ricevette il giorno stesso del suo ingresso a Bologna come capitano del Popolo (1aprile 1322), una specie di guida alla Commedia compilata proprio da Jacopo e riferentesi all’opera nella sua interezza. Già questo basterebbe. I canonici otto mesi erano passati. Dove avrebbe trovato, Jacopo, il tempo di scrivere la sua guida se aveva appena recuperato i canti mancanti, ben tredici?
E poi non si capisce perché Dante avrebbe dovuto nascondere quella parte cospicua della sua opera ai figli. Purtroppo noi non conosciamo il sistema di lavoro del poeta ma è verosimile pensare che facesse partecipi Pietro e Jacopo di ciò che andava via via elaborando: non per nulla i due giovani uomini si davano un gran da fare a copiare il testo paterno. Magari ne discutevano insieme e Dante leggeva loro le parti dell’opera che andava completando. Per quale motivo avrebbe dovuto nascondere ai suoi preziosi aiutanti, che erano anche i suoi figli affezionati, l’ultima parte dell’opera? E se vogliamo scendere terra terra possiamo anche chiederci come mai Pietro e Jacopo, che frugavano dappertutto, non abbiano avuto l’idea di sollevare la stuoia che copriva la famosa cavità: nella camera da letto pater-na, oltretutto. Si è persino pensato che i tredici canti mancanti siano stati completati in quegli otto mesi, proprio da Jacopo. Ma si tratta di un’assurdità a cui nessuno studioso serio presta fede. Jacopo ha lasciato una piccola opera poetica … piccola, appunto. Non avrebbe mai potuto elaborare quegli ultimi, perfetti canti, stilisticamente in linea con tutta l’opera dantesca.

La diaspora degli Alighieri

Ma tutto ciò perdette drammaticamente d’importanza.
Torniamo al 1322 e a Guido Novello che in quel primo di aprile as-sume la carica semestrale di Capitano del Popolo a Bologna lasciando la podesteria di Ravenna al fratello, l’arcivescovo Rinaldo.
Guido a Ravenna non ci tornerà più.
Infatti l’ambizioso cugino Ostasio, figlio di Bernardino e nipote anche lui di Guido il Vecchio, non ci pensò su due volte: uccise Rinaldo e prese il potere. Diremo subito che Guido Novello, spalleggiato dai Bolognesi e perfino dal papa, tentò ripetutamente ma senza successo di riprendersi la città. Ma non ci fu nulla da fare e l’amico e mecenate di Dante morì in esilio nel 1333.
Anche Ostasio passava per essere un mecenate ma sta di fatto che sia Pietro che Jacopo Alighieri abbandonarono Ravenna in quello stesso 1322. Antonia, divenuta suor Beatrice, rimase: nessuno si sarebbe permesso di toccare una suorina chiusa in un convento.
Restò a Ravenna e morì molto anziana, dopo il 1371. Boccaccio, che continuava ad essere ammiratore fanatico di Dante, volle incontrarla e lasciò anche un cospicuo obolo al convento di Santo Stefano.
Pietro e Jacopo erano stati un forte appoggio per il padre e anche negli anni successivi continuarono a preparare e mandare in giro copie della Divina Commedia. Intanto si rifecero una vita. I tempi erano cambiati ed essi poterono tornare a Firenze senza timore di essere bruciati vivi, ritrovando la madre Gemma ma anche una situazione patrimoniale dissestata. Pietro allora si recò a studiare Diritto a Bologna, finanziato da Cangrande della Scala: il signore veronese era evidentemente rimasto affezionato alla memoria di Dante più di quanto l’avesse apprezzato in vita. Così nel 1331 Pietro lasciò per sempre Firenze e si trasferì a Verona, dove divenne un giudice assai stimato e dove mise su famiglia. Negli ultimi tempi della vita passò a Treviso e qui morì nel 1364.
Jacopo fece più che mandare in giro copie dell’opera paterna: fu il primo commentatore della Divina Commedia. Tornato anche lui a Firenze, cercò di restaurare le finanze di famiglia con scarso successo. Prese allora gli Ordini Minori e tornò a Verona, dove ottenne un canonicato. Nonostante i voti presi, finì per farsi anche lui una famiglia illegittima: poco male, anche Petrarca, in seguito, avrebbe fatto la stessa cosa. Jacopo fu una del-le vittime della celebre, terribile peste nera (1348/1349).
Anche Gemma visse piuttosto a lungo. Era ancora in vita nel 1343. Ma nulla si sa di che vita facesse e di come sia morta.

Un interrogativo assai intrigante

E presto detto. Che ne sarebbe stato di Dante, se fosse sopravvissuto fino al colpo di stato perpetrato da Ostasio?
La risposta è una sola. Avrebbe dovuto riprendere la sua vita randagia ed affidarsi a qualche altro Signore, tornando magari a Verona da Cangrande.
Infatti, anche ammettendo che Ostasio lo rispettasse, lasciandogli la casa e le rendite, Dante, con il suo carattere adamantino, non avrebbe potuto di certo accettare di diventare subalterno dell’uomo che aveva usurpato il potere di Guido Novello, perpetrando anche l’assassinio del cugino vescovo. Ormai tutto era finito: sparito il cenacolo letterario, fuori portata il gentile e amichevole Signore irraggiungibile per lui, dato che stava in quella Bologna così legata, ormai, alla politica fiorentina ...
Sarebbe stato un colpo terribile per il poeta. Forse la morte, in que-sto, gli fu pietosa.

Un nido di vipere

La signoria dei Da Polenta ebbe un’evoluzione simile a quella di tante altre dinastie italiane e anche straniere, per la verità. Cominciò bene, con una comunità di intenti fra i suoi membri: si vedano i rapporti fra Guido il Vecchio e i suoi figli. O anche l’affiatamento dei tre figli di Alberto della Scala, a Verona. Ma sia nella città scaligera che in quella polentana la trasmissione del potere proseguì nel tempo molto male con una lotta furiosa e implacabile che non guardava a nessuna parentela.
Ostasio a morì nel 1346 forse in seguito a una spintarella datagli dal premuroso figlio Bernardino. Del resto, buon sangue non mente. Subito dopo aver preso il potere, Ostasio si era liberato anche dello zio Bannino, ultimo dei figli di Guido il Vecchio e signore di Cervia, in modo di appropriarsi anche di questa ricca città. Pure aveva un suo lato più umano. Infatti passava per un mecenate delle arti e ricevette Boccaccio, che gravitava sempre intorno a Ravenna in cerca di notizie dantesche.
Bernardino, salito al potere, non si dimostrò certo migliore di lui. Forse parricida, fu certamente fratricida. Fece finta di accordarsi con i fratelli Lamberto e Pandolfo per una signoria condivisa ma al momento buono li imprigionò e li abbandonò a morire di fame (1347). Nel frattempo, si rese odioso alla popolazione per l’esosa tassazione che pretendeva da tutti.
Nel 1350 commise un atto che oltre ad essere odioso in sé per poco non gli costò la signoria. In parole povere, fece rapire una giovane nobile tedesca che si stava recando a Roma in pellegrinaggio, e la stuprò. La ragazza, simile all’antica Lucrezia romana, non resistette all’onta e si suicidò.
Ma non finì così. La poveretta era di nobile e ricca famiglia e i suoi fratelli giurarono di vendicarla. Così si rivolsero a un famoso condottiero e capitano di ventura tedesco. Il suo nome era Conrad Wirtinger von Landau, noto in Italia come il Conte Lando: all’epoca e per secoli ancora tutti i nomi stranieri venivano italianizzati perché gli originali non si sapevano pronunciare. Pensiamo a Giovanni Acuto: ma, per esempio, ancora nel 700 l’architetto di padre olandese van Wittel era noto da noi come Luigi Vanvi-telli e come tale è passato alla storia. Il conte Lando era noto per imprese molto importanti e molto spregiudicate: in parole povere era un condottiero feroce e spietato, specializzato in devastazioni dei territori che attaccava. E va da sé che era estremamente venale. Quindi non disdegnò l’incarico, ben pagato dai fratelli dell’infelice contessa, di andare a mettere il territorio ravennate a ferro e fuoco. Qualcosa fece, distruggendo alcune campagne intorno a Ravenna, ma Bernardino, vista la mala parata, fece l’unica cosa possibile: lo pagò meglio dei suoi clienti tedeschi. Il conte Lando non ebbe scrupoli ad accettare. Si ritirò e Bernardino fu salvo (1355).
Al terribile Bernardino succedette un signore mite e rispettabile, quasi una eccezione in un contesto familiare crudele e turbolento: si chiamava Guido Lucio e governò per trent’anni dando pace e prosperità alla città.
Povero Guido Lucio. La moglie gli aveva dato tredici figli fra i quali sette maschi. Uno si fece monaco ma gli altri sei, dopo trent’anni di governo paterno, si stancarono di aspettare ed ordirono una congiura (1389). Il padre fu rinchiuso in una torre a morire di stenti e loro si divisero il potere. Non sappiamo che accordi avessero, tranne il fatto che Bernardino e Ostasio divennero i signori ufficiali della città. Ma nell’arco di dodici anni cinque di loro, Azzo, Ostasio, Bernardino, Pietro e Aldobrandino morirono e rimase signore di Ravenna solo Obizzo, non si sa se più robusto o più scaltro e crudele degli altri.
Obizzo morì nel 1431. Ma erano passati i tempi in cui Ravenna poteva sfidare Venezia: la Serenissima era ora una grande potenza e Obizzo riuscì a lasciare la signoria di Ravenna al figlio Ostasio, terzo della serie, ma sotto il protettorato veneziano. E quando i Visconti di Milano convinsero Ostasio ad allearsi con loro contro Venezia (1441), la Serenissima intervenne con una flotta, conquistò Ravenna senza colpo ferire e fece deportare Ostasio e il figlio Gerolamo in un monastero di Candia (l’isola di Creta). I due ultimi Polentani non durarono molto: morirono nel 1447, probabilmen-te assassinati e con questo ultimo fatto di sangue si estinse l’antica dinastia romagnola.
In conclusione, rimasero soltanto i Malaspina, nei loro infiniti rami per la verità sempre meno influenti, a potersi vantare di essere stati, in quei loro lontani e isolati castelli appenninici, i premurosi ospiti uno dei più grandi poeti dell’umanità.

Appendice

Il morbo che lo uccise

E vi par di toccarla con le mani, stagnante nella pianura a guisa dell’afa pesante di luglio … È che la malaria v’entra nelle ossa col pane che mangiate e se aprite bocca per parlare mentre camminate lungo le strade soffocanti di polvere e di sole e vi sentite mancare le ginocchia e vi accasciate … la malaria acchiappa gli abitanti per le vie e li inchioda dinnanzi agli usci delle case calcinate dal sole, tremanti di febbre sotto il pastrano e con tutte le coperte del letto sulle spalle.
Si tratta dell’incipit di una delle più significative novelle di Giovanni Verga, intitolata “Malaria”, appunto, che descrive la situazione della pianura di Lentini, in Sicilia. Siamo negli ultimi anni del secolo diciannovesimo e la malaria è presente ancora in tante regioni italiane.
Dalla lettura di questo inizio della novella, sembra quasi che Verga consideri la malaria come un miasma, proprio come ai tempi di Dante. Sì, perché il poeta si sarebbe molto meravigliato se gli avessero spiegato che la sua febbre mortale non era dovuta alla “mala aria” delle valli di Comacchio ma gli era stata iniettata dalla puntura di una zanzara, una femmina del genere anofele, che dal sangue umano voleva ricavare le proteine necessarie alla crescita delle sue uova.
Non che ai tempi di Dante le zanzare fossero insetti non identificati con un nome. Le conoscevano bene e conoscevano anche le loro punture. Dante le nomina anche nella Commedia. Nel canto XXVI dell’Inferno, quello di Ulisse, per intenderci, il poeta e Virgilio contemplano dall’alto la bolgia riservata ai consiglieri fraudolenti.
Appare loro una valle che sembra tutta piena di lucciole, come avviene nel mondo di sopra dopo il crepuscolo:
Come la mosca cede alla zanzara (verso 28)
In realtà si tratta di fuochi che consumano i suddetti consiglieri di cattive azioni. Ma non è questo che ci interessa bensì l’errata concezione di cosa fosse la malaria. Aria putrida, appunto.
Ne doveva passare del tempo, prima di una corretta valutazione. Fu un eminente medico italiano, Giovanni Maria Lancisi (1654 1720) il primo a mettere in relazione la malattia con il morso delle zanzare. Ma bisognò arrivare all’ inizio del ventesimo secolo perché questa teoria venisse universalmente accettata e si trovasse un rimedio: il chinino, che si estrae dalla corteccia della cinchona, una pianta sudamericana le cui proprietà antimalariche erano già note agli Incas.
Torniamo a Verga, che nella sua stupenda novella non parla mai di zanzare ma sembra proprio, come abbiamo già notato, considerare la ma-laria come un’entità soffocante che ti penetra. Del resto come rimedio alla malattia i suoi personaggi non adoperano altro che il solfato e il decotto di eucalipto. Il chinino è ancora lontano.
Attualmente nel nostro paese la malattia è eradicata. Possono ri-portarla in Italia solo persone che l’hanno contratta in varie zone dell’Asia e del Sudamerica ma principalmente in Africa, che detiene il triste primato del 92% di incidenza malarica e del 70% di bambini colpiti sotto i cinque anni. Tuttavia il pericoloso e spesso letale morbo ha una sola caratteristi-ca positiva: non è contagioso. Non passa da uomo a uomo ma si contrae solo col morso della zanzara.
Nel corso dei secoli tante persone famose si sono ammalate e sono morte di malaria. Ne ricorderemo una sola: Carlo V, imperatore del Sacro Romano Impero, quello sul cui dominio, esteso in Europa e America, “non tramontava mai il sole”. Si era già ritirato a vita privata, dividendo i suoi possedimenti fra il figlio Filippo e il fratello Ferdinando, quando il morbo lo colpì nel suo palazzo attiguo al monastero di Yuste, in Estremadura. Morì dopo tre settimane, il 21 settembre 1558. Aveva cinquantotto anni.

4. FINE


MARIA SANTINI è una grande scrittrice e saggista. È autrice di tredici romanzi, di fondamentali saggi storici e biografici: Cliccando qui potete scoprire tutta la sua vasta bibliografia in eBook.



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