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ARTE
- Personaggi da ricordare  
di Mario Pancera
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LUIGI VERONESI
E L'ASTRATTISMO
GEOMETRICO

Luigi Veronesi, uno dei pochi astrattisti geometrici italiani, è morto in febbraio all'età di 90 anni. In Germania si era appena conclusa una sua antologica con 230 dipinti, incisioni, marionette, film astratti, solarizzazioni, scenografie. Nelle sue ricerche è stato un grande, eppure fino ai sessant'anni aveva avuto difficoltà economiche: «Negli anni Trenta e Quaranta non vendevo neanche un disegnino». Gli anni Trenta erano nel segno di Novecento, i Quaranta quelli dello scontro tra realismo socialista e arte informale. Lui era tagliato fuori. Era rigorosissimo, di un ordine matematico. I suoi maestri erano Tatlin e El Lisitzkij, la sua religione il costruttivismo, il Bauhaus la sua chiesa. L'arte figurativa, diceva, obbliga chi guarda a vedere come vuole il pittore, l'arte astratta geometrica lo lascia invece libero di spaziare con i sentimenti e la fantasia: un gruppo di quadrati, ellissi, cerchi, triangoli, segmenti colorati è un paesaggio, un ritratto, una natura morta, rappresenta il lavoro o il riposo, un nudo o una fanciulla che legge una lettera d'amore. Divideva l'astrattismo in due filoni: l'uno molto libero, "espressionista", che non discuteva; l'altro a base geometrica di assoluto rigore e precisione, e questa era per lui l'arte più alta.
Diceva: «Mondrian e Burri hanno aperto capitoli meravigliosi, ma tutto è finito, non hanno creato continuità. L'arte informale che, nonostante il nome usa forme sventuratamente senza regole, va verso l'anarchia intellettuale». Credeva nella poesia dei numeri e della ragione: «Il Partenone è costruito su regole auree, la musica di Bach è tutta un numero, nella metrica greca ci sono le stesse regole del Partenone. I quadri di Piero della Francesca si basano su regole auree».
Aveva insegnato a Brera, all'Istituto d'arte di Venezia, in un'accademia privata, lavorato per i teatri di marionette e per la Scala (ma qui le sue scenografie erano troppo costose: «Non mi hanno più chiamato»). Ai suoi quadri dava sigle e numeri. I suoi colori seguivano le leggi della musica cercando di visualizzare i suoni sulla scia di Goethe e di Chevreul. Non sapeva suonare, ma la sua tavolozza era un pentagramma. Come Kandinsky, cercava lo spirituale nell'arte. Ha fatto anche film astratti intervenendo sulla pellicola fotogramma per fotogramma, ha sperimentato la solarizzazione, ha ideato pupazzi e costumi. Le sue ricerche fotografiche e i suoi scritti teorici sono da storia dell'arte. In una sola occasione, su invito, è tornato figurativo, per ritrarre Gina Lollobrigida.
«Parlava solo il marito» ricordava, «lei era bellissima, ma solo dalla testa al petto». Della propria vita diceva: «E' stata un insieme di fatiche, come di un operaio in fonderia. Ma se rinascessi tornerei a vivere come ho vissuto».
Piccolo e vispo, attentissimo e sognante, quando spiegava sembra imponenente. Prendeva la vita con intelligente filosofia. Non era mai malato, poi a 87 anni due infarti. Da giovane, per vivere disegnava manifesti, copertine, pubblicità. Sotto il fascismo fece per anni la spola tra l'Italia e Parigi: disegnava tessuti. Fernand Léger gli diede un angolo del suo studio per dormire e dipingere. «In una settimana di disegni per stoffe, mi guadagnavo da vivere per due mesi. Saltavo un pasto e rimanevo un giorno di più».
In casa, Veronesi aveva opere di Vantongerloo, Braque, Charchoune, Kokoschka: una galleria dell'esilio e della fame. Erano gli amici con i quali si incontrava nella ricca casa dei Delaunay oppure al bar a guardare le ragazze e a parlare di pittura. Nel 1938 tenne la sua prima mostra parigina. Il 24 aprile 1945, andò in bicicletta da Milano a Varese per sposare la sua fidanzata, Ginetta. Portava in canna la cognata. Pedalò dieci ore zigzagando tra gli ultimi bombardamenti e le sparatorie tra tedeschi e partigiani. Si sposò il 28 aprile, in chiesa, e i suoi testimoni all'altare erano due comunisti. Quello della religione, se non proprio della fede, era uno degli intrecci della sua vita.
Nel corso degli anni gli ho domandato più volte se credeva in Dio. Col tempo, infatti, molti (e non soltanto artisti) danno risposte diverse. Il declinare delle forze induce a qualche modifica. Mi ha sempre risposto: no. L'ultima volta, pochi mesi prima di morire, ha aggiunto: «Non posso dire che Dio non c'è, come faccio a dirlo? Però sono ateo».
Era rigido come la sua decisione di restare fedele all'astrattismo geometrico: da quando aveva deciso di non credere, non ha pił smesso.


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