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LA ORRENDA MORTE DI PIER PAOLO PASOLINI, il 3 novembre 1975, una morte intorno alla quale, dopo trenta anni, non si è fatta ancora la più completa chiarezza resta una tragedia che non lascia alcuno scampo alla rassegnazione. Ricordo l'uomo, lo scrittore, il poeta, il regista attraverso quanto scrissi allora, 30 anni fa, per la "Domenica del Corriere" in una pagina che ancora non ho inserito nel mio personale Diario del Novecento che vado raccogliendo in eBook su eBooksItalia.com.

   Domenica uggiosa e triste. Domenica di nubi compatte e di pioggia battente. Domenica di morte perché là, a Ostia, è stato scoperto un gomitolo di uomo con la testa fracassata, il corpo martoriato: un cadavere. Un cadavere che soltanto Ninetto Davoli ha saputo riconoscere per Pier Paolo Pasolini.
   Quando c'è qualcuno che uccide un poeta muore irrimediabilmente anche qualcosa di noi stessi. E cresce la vergogna di continuare ad accettare, a vivere passivamente in una società in cui il delitto viene sopportato, digerito, considerato quasi come un diversivo "giallo" della routine quotidiana.
   Mancavano appena due settimane al suo appuntamento con la morte quando chi scrive ha incontrato Pier Paolo Pasolini per l'ultima volta. Era a Francoforte, nella hall di un albergo, il Frankfurter Hof. La giornata era simile a quella in cui è stato scoperto il suo corpo martoriato: di nubi compatte, di pioggia uggiosa e insistente.
   A Francoforte Pasolini era venuto in occasione della Fiera Internazionale del Libro per presentare, insieme con Giulio Einaudi, una nuova collana di volumi. Una trasferta che non sembrava aver apprezzato molto. « E' la prima volta che vengo in questa città », ripeteva. « Ma non mi piace. »
   Pasolini non gradiva l'aria manageriale di Francoforte, la scarsa dimensione umana che emanava da quei grattacieli, da quei palazzi tutti vetro e cemento. E in quella atmosfera il suo corpo gracile, il suo volto scavato, asciutto, i piccoli occhi nascosti dalle lenti lo facevano apparire ancora più indifeso. Ma Pasolini era stato allora molto paziente con tutti. Aveva risposto con garbo, quasi con rassegnazione, alle domande talvolta presuntuose di molti giornalisti. Si era poi animato, era tornato se stesso quando, durante la cena che aveva seguito la conferenza-stampa, aveva cominciato a discorrere di calcio con un collega. Anche se si trovava in una città che detestava, il football, lo sport che lui amava, che praticava di tanto in tanto, lo aveva riportato alla realtà, a quella realtà che era sempre stata alla base di ogni sua opera sia letteraria sia cinematografica. E quella discussione si era protratta fino a tardi, a quando, nel freddo pungente della notte di Francoforte, aveva fatto come tutti la fila per prendere quel taxi che lo avrebbe riportato al suo albergo.
   L'indomani sarebbe «fuggito » verso Roma.
   Pier Paolo Pasolini aveva cinquantatrè anni. Era nato a Bologna ma era vissuto in varie città italiane seguendo gli spostamenti di suo padre, ufficiale dell'esercito. E fu a Casarsa, nel Friuli, dove era sfollato durante la guerra, che si rivelò poeta nel 1942, a venti anni. «Poesie a Casarsa» è appunto il titolo della sua prima raccolta di versi a cui seguiranno «I diari di Pier Paolo Pasolini», «I pianti» e tanti altri volumi fino a giungere ai più recenti, «Poesia in forma di rosa», «Trasumanar e organizzar», «La religione del mio tempo». Ma la raccolta poetica più significativa di Pier Paolo Pasolini resta «Le ceneri di Gramsci». In quei versi veniva tratto per la prima volta spunto, ispirazione, materia fin dalla cronaca dando vita ad una poesia civile, di ispirazione socialmarxista che sconvolgeva, travolgeva ogni canone del realismo di stampo borghese.
   Laureatesi in lettere e trasferitesi a Roma, Pasolini iniziò a studiare, analizzare la realtà del sottoproletariato. Cercò di documentare quel mondo violento delle borgate della capitale, quel mondo che aveva una sua autonoma cultura che, sosteneva, veniva irrimediabilmente distrutta. Nacque così il suo primo romanzo, «Ragazzi di vita», nel '55, e quattro anni dopo «Una vita violenta», due opere che faranno epoca, che per il modo con cui erano scritte, per lo stile narrativo che rivelavano creeranno infinite polemiche e discussioni nel mondo letterario italiano che spesso mal sopporta la nascita di uno scrittore veramente originale.
   La stessa realtà testimoniata in quei primi romanzi Pasolini la trasferì sullo schermo. Infatti, accostatesi all'ambiente del cinema fino dal suo arrivo a Roma, lo scrittore, dopo aver avuto qualche esperienza come soggettista, sceneggiatore, e anche attore, decise di esordire nella regia. «Accattone», «Mamma Roma» furono appunto i film in cui trasferì i temi dei suoi primi due romanzi.
   Il cinema prese gran parte della sua vita di autore e firmò film come «II Vangelo secondo Matteo», «Uccellacci e uccellini», «Teorema», «Porcile», «Edipo Re», «Medea», «I racconti di Canterbury», «Il Decamerone», «II fiore delle mille e una notte», fino all'ultimo, appena finito di girare ma non ancora apparso sugli schermi, «Salò e le 120 giornate di Sodoma».
   Anche se, ora che è morto, tutto il mondo letterario e artistico italiano farà a gara ad intessere le lodi del poeta, scrittore, regista, non erano in molti ad amare Pier Paolo Pasolini. Era un uomo scomodo, che creava problemi a tanti suoi colleghi che amano restare nel loro piccolo olimpo fatto di un romanzo nuovo all'anno, di agiatezza e di scarsi contatti con la realtà italiana.
   Pier Paolo Pasolini era invece un vero intellettuale, un uomo che credeva fosse dovere per uno scrittore vivere la realtà di tutti i giorni, analizzarla, giudicarla. E sempre, in questi anni, Pier Paolo Pasolini, dalle colonne del «Corriere della Sera», ha detto chiaramente quello che pensava. I suoi interventi sono stati al centro di molte polemiche e discussioni che hanno contribuito a smuovere, a vivacizzare, lo stagnante ambiente culturale italiano.
C'è stato un momento, in occasione delle elezioni del quindici giugno di quest'anno, in cui sembrava che l'esempio del costante impegno civile di Pasolini fosse stato raccolto da tanti altri intellettuali. Ma si è trattato soltanto di una illusione che è durata lo spazio di un mattino. Un segno dell'opportunismo che inquina tanti nostri scrittori. E Pier Paolo Pasolini è rimasto, come sempre, il solo a intervenire, a polemizzare, «a combattere centro i mulini a vento», come ha detto malignamente qualcuno.
   Proprio alcune settimane fa Pier Paolo Pasolini aveva pubblicato sul «Corriere della Sera» un altro dei suoi polemici interventi. Aveva commentato, giudicato il delitto e le violenze compiute da un gruppo di pariolini su due povere ragazze. Soltanto poche settimane fa... ed ora ecco che anche lui è rimasto vittima di un'atroce violenza. Di quella stessa violenza che da sempre aveva odiato, combattuto, condannato. Così, oggi, mentre la poesia italiana vive attimi di esultanza, di gioia, per il premio Nobel assegnato a Eugenio Montale, un altro poeta è stato barbaramente assassinato.

   Questo quanto scrissi trenta anni fa. E alla tristezza per la scomparsa di Pier Paolo Pasolini si unisce oggi l'amarezza di vedere  l'inesistenza di una autentica società culturale italiana capace di esprimere, al di là delle bandiere politiche, "l'anima" di un Paese. E invece, chi ne fa parte è sempre, esclusivamente, proteso verso l'opportunismo politico e partitico, preoccupato, giorno dopo giorno, di salire sul carro giusto, di  intrecciare i suoi piccoli e, consentitemi, squallidi giochi di poltrone, poltroncine e  carriere. Conversiamone su The Web Park Speaker's Corner  (30 ottobre 2005)

(Continua)
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Luciano Simonelli

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