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06/12/2006
"Lettera ad un Amico della Terra di Mezzo" di Franco Manni
Guida personale di Etica Filosofica sulle tracce di Aristotele, Freud e Croce passando per J.R.R.Tolkien. Con una nota introdutiva di Norberto Bobbio. Leggi le prime pagine.





Premessa


Caro amico, iniziando questa mia lettera, che sarà lunga ed articolata in molti contenuti, sento il bisogno di qualche preambolo, per giustificare il fatto stesso di scriverti una lettera. Innanzitutto perché chiamo il nostro paese «Terra di Mezzo»? A proposito di questo nome ci sono varie interpretazioni. Mi interessa rigettare due delle più diffuse.
Qualcuno - e sono sia i romantici «utopistici» sia i romantici «nostalgici» - dice che la terra è di «mezzo» perché situata in posizione intermedia tra un male fatto tutto di male ed un bene fatto tutto di bene. Per gli utopisti il male è il passato - barbaro e oscurantista - e il bene è il futuro, razionale e felice. Per i nostalgici il bene è il passato - nobile, sano ed eroico - e il male è il futuro, artificioso, codardo ed arido. Ma, per entrambi i gruppi, esisterebbero alcune condizioni concrete, cioè momenti storici o organizzazioni sociali o caratteri umani, tutte buone ed altre tutte cattive. E la nostra condizione presente ed imperfetta (o «alienata», come dicono), anelerebbe sempre a una qualche organizzazione; ma poi, sia a causa di una sua intrinseca volgarità sia a causa di sforzi distruttivi di una qualche consorteria di maligni, rimarrebbe sempre nella sua disorganizzazione o «alienazione».
Anche secondo me la nostra Terra è «di mezzo», ma spiegherei diversamente tale sua proprietà. Aristotele insegnò che la virtù è un qualcosa «di mezzo» tra due vizi, tra un eccesso e un difetto (per esempio: il coraggio tra temerarietà e viltà, la generosità tra prodigalità ed avarizia).
Questo «mezzo» non va inteso in senso materiale, cioè astratto: è lo stesso Aristotele a dirci che non è come il 6 rispetto al 2 e al 10, ma è come una dieta alimentare: per un atleta il giusto mezzo tra eccesso e difetto sarà certamente diverso che per colui che non fa niente tutto il giorno. Il giusto mezzo si riferisce al soggetto, dunque. D'altra parte, anche se il soggetto può sbagliare, o con l'eccesso o con il difetto, esiste comunque un giusto mezzo, indipendentemente dalle scelte «soggettive» di fatto, dunque esiste «oggettivamente».
Forse anche l'immagine di Aristotele è solo una metafora inadeguata (non ci convince l'astrazione quantitativa insista nell'Idea di eccesso e difetto). Ma, di fatto, questa nostra terra, in cui spendiamo (o ci guadagniamo) l'unica nostra vita, è da noi amata. Perché? Amiamo forse il male e il dolore che sono in essa? No di certo. L'amiamo nonostante il male e il dolore. Forse perché intuiamo che il bene non è un «dato» interamente esterno, che prescinda dalla nostra esperienza del dolore e dalla nostra lotta contro il male. Non esisterebbe il giusto mezzo se non esistessero gli estremi.
Mi rivolgo a te: so che condividi molti dei miei problemi, e che puoi dunque darmi un contributo interessante discutendo le mie tesi e portando le tue esperienze ad integrare le mie. Inoltre suppongo che tu possa essere stato deluso da chi ti ha parlato del «giusto mezzo», ma lo ha fatto in maniera astratta ed intellettualistica. E io desidero e credo di poterne parlare in maniera concreta e chiara.
L'argomento di questa lettera è l'«etica», che definisco «teoria del comportamento umano buono». Su questa definizione, due considerazioni. La prima è che l'etica che ti propongo è «normativa»: non si accontenta di raccontare alcuni comportamenti dell'uomo, o in generale o in riferimento ai nostri temi; ma vuole indicare il comportamento umano «buono». Dunque è portatrice di un punto di vista appoggiato sull'esperienza, su ragionamenti e punti di vista di altri autori, ma, anche, qualcosa di mio (naturalmente non è detto che ciò che è mio sia esclusivamente mio e non anche tuo).
La seconda considerazione è che alla parola «buono» corrispondono diversi significati: utile, sano, felice, efficace, nobile, generoso, intelligente, bello, realistico, e così via. Il mio intento è di conservare, nel mio concetto di «buono», questa molteplicità di significati, che considero una ricchezza. Non cercherò dunque di selezionare e di opporre questo a quel significato, ma bensì di mostrare le connessioni tra tutti e di confutare le teorie che propendono unilateralmente o per questo o per quello.
Le forme di argomentazione che uso sono tre: ragionamenti, esempi culturali, esempi attuali. Io vorrei che tu verificassi la coerenza logica dei ragionamenti, controllassi l'esattezza interpretativa degli esempi culturali, confrontassi con la tua esperienza diretta gli esempi attuali. Vorrei, insomma, che tu meditassi con attenzione - o per accertarli o per modificarli o per respingerli - i contenuti che ti propongo. Un aiuto per tale meditazione potrebbe essere la lettura di buoni libri, che hanno nutrito queste stesse pagine, e di cui, alla fine della lettera, ti darò le note essenziali.
Ho ordinato la mia esposizione in uno schema di cinque parti. Nella prima parlo delle virtù «attive», delle modalità, cioè, con cui la persona si apre fiduciosa alla vita, consapevolmente ma con immediatezza, cercando in essa la realtà buona.
Nella seconda parte parlo del male, e cioè dell'impossibilità di essere felici solo con la fiduciosità e l'immediatezza: infatti esiste, come realtà sia esterna che interna, un insieme di ostacoli alla vita.
Nella terza parte parlo delle virtù «contemplative». Queste, come già dissero Aristotele e Tommaso d'Aquino e come ha detto Freud, sono superiori a quelle «attive»; fantasia, riflessione, introspezione, infatti, permettono di riconoscere e di accettare che nella realtà sia esterna sia interna c'è il male, vedendo, però, che esso è proprio male e cioè qualcosa da evitare. L'immediatezza dunque è necessaria, ma non è sufficiente.
Ma neanche le virtù contemplative sono sufficienti. Ecco, allora, che la quarta parte tratta del rapporto interpersonale buono. Per Aristotele, l'amicizia è il principale dei beni di fortuna «connessi alla virtù» ma che non sono virtù e sono bensì necessari alla felicità. Per Tommaso d'Aquino, fede, speranza e carità sono qualcosa di analogo: sono un rapporto tra la persona umana e la persona divina, rapporto che, in quanto tale, non dipende solo dall'una, ma anche - e soprattutto - dall'iniziativa dell'altra. Per Freud il «transfert», e cioè il rapporto buono con un buon oggetto d'amore, è la causa sufficiente dell'introspezione, e l'introspezione a sua volta è la causa sufficiente dell'azione buona.
La quinta parte traccia la concezione della realtà («cosa è il bene?») che motiva e giustifica l'etica precedente («come si arriva al bene?»): definire, cioè, il fine dell'etica, che è la felicità.
Quale può essere l'efficacia di questo mio scritto? È un tradizionale problema dell'etica domandarsi se i discorsi sul bene aiutino chi li ascolta a diventare buono. Secondo me, sì. Ma voglio sottolineare che si tratta solo di un aiuto, e di aiuto limitato.
Il discorso etico aiuta ad avere la speranza, e questo è il prezioso inizio di ogni progresso morale. Infatti, se la teoria ti convince e ti appare vera, essa ti rende noto che il bene c'è, esiste; il disperato, invece, ignora o dubita della stessa esistenza del bene.
Inoltre il discorso etico indica, per quanto soprattutto in maniera indiretta, quali sono le vie giuste e praticabili per raggiungere il bene: infatti confuta le teorie erronee e chiarifica le teorie confuse, che sono indicazioni di vie sbagliate e non praticabili.
Per usare un'immagine: il soggetto morale è come un viandante perduto nel deserto e la scienza morale è come il cartello segnaletico di una locanda. Il cartello dà speranza al viandante, perché gli dice che da qualche parte esiste un posto fornito di acqua, cibo e protezione («il bene esiste»). Il cartello, inoltre, indica in quale parte si trova la locanda, quale percorso bisogna fare, quali risorse bisogna usare durante il cammino («questa è la via per il bene ed essa è praticabile in questi modi»).
Ma il cartello segnaletico non è, in sé stesso, quel desiderio di vita che il viandante può sentire come non sentire; e non è la forza fisica, non è una cavalcatura, non è una riserva d'acqua, tutte cose che il viandante può avere come non avere; né è un compagno che con la sua presenza incoraggi e sostenga in varie forme il viandante, compagno che può esserci come non esserci.
Questa è l'efficacia della teoria morale. E puoi vedere che essa, se non fa tutto, fa bensì qualcosa.
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Fonte: Simonelli Editore

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