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Fa piacere quando gli autentici talenti che hai saputo scoprire e hai aiutato a cominciare a farsi conoscere "fanno carriera". E soprattutto fa ancora più piacere quando non dimenticano che tu hai dato loro una piccola mano (perché lo meritavano, naturalmente). E' il caso di Luca Dresda (nella foto qui a destra) che i più vecchi lettori de L'Istrice ricorderanno come un critico cinematografico (L'Occhio Indiscreto - Poltronissima di Prima Visione) molto attento e bravo che per alcuni anni ci ha guidato verso i buoni film. Dresda si è "materializzato" nel mio Stand durante l'ultima Fiera Internazionale del Libro di Torino con in mano il suo primo romanzo "Dateci del lei" (Cadmo) e una bella dedica: "In segno di riconoscenza per uno dei miei più grandi sostenitori. Un abbraccio e buona lettura". L'ho letto questo romanzo, mi è piaciuto e ho chiesto a Luca di autointervistarsi. Eccola e... buona lettura! - Luciano Simonelli


Autointervista scorretta
Luca Dresda allo specchio.


Debutti nel panorama della narrativa italiana con un libro sugli eterni trentenni. «Dateci del lei», il titolo, Cadmo la casa editrice. Di libri del genere ne sono stati scritti a camionate, cos’è che distingue questo romanzo dagli altri?

In realtà anche se sottolineo concetti conosciuti, la generazione parcheggiata, la difficoltà di ricevere un testimone dalle precedenti generazioni estremamente longeve, un sistema italiano fermo e seduto sulle lobby e sulle corporazioni, in realtà dicevo, questo è libro di un individuo, del suo percorso attraverso la sua crisi di maschio, di ‘eterno emergente’, di persona con delle qualità mai veramente messe alla prova per mancanza di spazi ma anche di una progettazione seria. E’ un libro che dà battaglia.


Parli di trentenni da quasi quarantenne. Rifiuto della crescita?

Al contrario. Una consapevolezza di confini generazionali ormai sfumati, per cui ci si può trovare a valicarne i limiti senza percepire il mutamento. Ci si ritrova a mezza età, almeno per i canoni di un tempo, e si vive ancora con gli schemi della tarda adolescenza. Comunque, trentenne è ormai una categoria quasi metafisica, astratta, include tutti quelli che ancora non sono riusciti a entrare nel mondo. Escluderei solo chi ne sta fuori per scelta.

Keat è il protagonista. Sei tu?

Come diceva un grande vecchio, quando si creare un’opera di tipo artistico non si può prescindere da se stessi. Ma Keat sono io più nel linguaggio, nelle emozioni, come tipo di sguardo che lancia verso il mondo, che per quello che fa. Il suo è una sorta di monologo a episodi, che racconta il momento in cui i suoi schemi non funzionano più e non ha ancora capito come fare per uscire dall’empasse. Ecco da dove nasce l’idea di un sindacato. Che non è l’idea di una nuova corporazione, anzi, ma di uno strumento per liberare il parcheggio. In pratica un contenitore che vuole svuotarne un altro e così perdere i suoi soci. Scopo del sindacato dei trentenni è non vedere più trentenni in giro, almeno quelli identificati come generazione X.

Tu parli del sindacato, dei trentenni, della società, ma il libro sembra più parlare di rapporti umani, di tradimenti, di genitori assenti e/o inadeguati...

E’ vero, questo libro lo chiamo spesso lo svelamento crudo di un maschio italiano nato alla fine degli anni ’60. Mancano negli scaffali delle librerie visioni del mondo al maschile che non siano quel machismo del noir, o quel buonismo un po’ succube della rivoluzione femminile, oppure razionalizzazioni della perdita di ogni riferimento stabile. Qui ho fatto dei pensieri veri, dei suoi desideri e aspirazioni, il linguaggio narrativo. Ho puntato sullo svelamento.

Non pensi che in fondo tutto questo caos emotivo, questa rabbia verso il mondo, siano un altro modo di mascherarsi? In che modo Keat si metterebbe a nudo?

Semplicemente tirando fuori le sue sovrastrutture, i suoi pregiudizi anche un po’ elitari o al limite del razzismo, senza chiedersi da dove provengano. Un modo per me di oggettivarli e forse cominciare il processo di liberazione.

Veniamo al linguaggio. La tua scrittura è un po’ all’americana, all’anglosassone, ricorda Ellis a volte, o Coupland o Nick Hornby… Dobbiamo rassegnarci a questo trend?

Io penso che bisogna andare a guardare ai contenuti, al messaggio. Uno scrittore per me deve avere qualcosa da comunicare. Anche solo personale, anche solo una parvenza di pensiero, altrimenti siamo nell’ambito della costruzione ad hoc di un best-seller. Non mi interessa. Il linguaggio dev’essere figlio dell’idea, deve servire allo scopo del romanzo che si sta raccontando. E’ vero la soluzione stilistica per ogni storia non è una e una soltanto, e qui arriva la scelta. L’importante è che ci sia un momento di studio o un momento di riflessione, che nel mio caso arriva sempre dopo. A seconda di quello che sto scrivendo cambia inevitabilmente anche il mio stile. In questo romanzo ho fatto un esperimento. Nel capitolo sul padre di Keat, quando sono sulla spiaggia, soli, e passeggiano quasi per la prima volta l’uno di fronte all’altro da adulti, da pari, lì ho cercato di fare un twist e aprire uno spazio di racconto diverso, rallentando il ritmo e aprendo alla suggestione dei luoghi e della situazione. Spero di esserci riuscito, perché è uno dei capitoli a cui sono maggiormente affezionato.

Il prossimo libro è una storia sui quarantenni? Dateci del lei 2?

Non ne dovrei parlare per scaramanzia. Ma parlerà di tutt’altro. Non sarà un romanzo generazionale. I protagonisti sono tre ragazzi tra i diciassette e i diciannove anni, ma l’età non conta, è un pretesto per raccontare altro.

Un’ultima domanda. Pensi di avere un futuro come scrittore?

Certo. Io mi considero uno scrittore da sempre. E’ quello che ho sempre voluto fare. E continuerò a farlo. Se intendevi domandarmi se avrò successo... beh, sai benissimo che il successo non dipende solo ed esclusivamente dalla bravura, altrimenti perché Camilleri ci è arrivato così tardi? Se in Italia si investisse di più nella cultura e se ci fossero meno lobby, avremmo molti più artisti emergenti ogni anno, molto più movimento e la qualità generale si alzerebbe notevolmente. Sarebbe bello un mondo in cui la competizione avvenisse soltanto, o quasi, a un livello di meritocrazia, no?

Bene, grazie a tutti e buona lettura di DATECI DEL LEI (Cadmo), mio primo romanzo.

autointervista di Luca Dresda

 


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Luca Dresda, è nato a Roma nel 1966 dove vive facendo l'attore. Dopo una laurea in psicologia e un diploma alla Scuola internazionale dell'attore di Fersen, la sua carriera si è svolta tra doppiaggio, pubblicità e fiction. Da anni collabora a programmi televisivi di successo. Dateci del lei è il suo esordio narrativo.

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