Autointervista scorretta
Luca Dresda allo specchio.
Debutti nel panorama della narrativa italiana con un libro sugli eterni
trentenni.
«Dateci del lei», il titolo, Cadmo la casa editrice. Di libri del
genere ne sono stati scritti a camionate, cos’è che distingue questo romanzo
dagli altri?
In realtà anche se sottolineo concetti conosciuti, la generazione
parcheggiata, la difficoltà di ricevere un testimone dalle precedenti
generazioni estremamente longeve, un sistema italiano fermo e seduto sulle lobby
e sulle corporazioni, in realtà dicevo, questo è libro di un individuo, del suo
percorso attraverso la sua crisi di maschio, di ‘eterno emergente’, di persona
con delle qualità mai veramente messe alla prova per mancanza di spazi ma anche
di una progettazione seria. E’ un libro che dà battaglia.
Parli di trentenni da quasi quarantenne. Rifiuto della crescita?
Al contrario. Una consapevolezza di confini generazionali ormai
sfumati, per cui ci si può trovare a valicarne i limiti senza percepire il
mutamento. Ci si ritrova a mezza età, almeno per i canoni di un tempo, e si vive
ancora con gli schemi della tarda adolescenza. Comunque, trentenne è ormai una
categoria quasi metafisica, astratta, include tutti quelli che ancora non sono
riusciti a entrare nel mondo. Escluderei solo chi ne sta fuori per scelta.
Keat è il protagonista. Sei tu?
Come diceva un grande vecchio, quando si creare un’opera di tipo
artistico non si può prescindere da se stessi. Ma Keat sono io più nel
linguaggio, nelle emozioni, come tipo di sguardo che lancia verso il mondo, che
per quello che fa. Il suo è una sorta di monologo a episodi, che racconta il
momento in cui i suoi schemi non funzionano più e non ha ancora capito come fare
per uscire dall’empasse. Ecco da dove nasce l’idea di un sindacato. Che non è
l’idea di una nuova corporazione, anzi, ma di uno strumento per liberare il
parcheggio. In pratica un contenitore che vuole svuotarne un altro e così
perdere i suoi soci. Scopo del sindacato dei trentenni è non vedere più
trentenni in giro, almeno quelli identificati come generazione X.
Tu parli del sindacato, dei trentenni, della società, ma il libro
sembra più parlare di rapporti umani, di tradimenti, di genitori assenti e/o
inadeguati...
E’ vero, questo libro lo chiamo spesso lo svelamento crudo di un
maschio italiano nato alla fine degli anni ’60. Mancano negli scaffali delle
librerie visioni del mondo al maschile che non siano quel machismo del noir, o
quel buonismo un po’ succube della rivoluzione femminile, oppure
razionalizzazioni della perdita di ogni riferimento stabile. Qui ho fatto dei
pensieri veri, dei suoi desideri e aspirazioni, il linguaggio narrativo. Ho
puntato sullo svelamento.
Non pensi che in fondo tutto questo caos emotivo, questa rabbia verso
il mondo, siano un altro modo di mascherarsi? In che modo Keat si metterebbe a
nudo?
Semplicemente tirando fuori le sue sovrastrutture, i suoi pregiudizi
anche un po’ elitari o al limite del razzismo, senza chiedersi da dove
provengano. Un modo per me di oggettivarli e forse cominciare il processo di
liberazione.
Veniamo al linguaggio. La tua scrittura è un po’ all’americana,
all’anglosassone, ricorda Ellis a volte, o Coupland o Nick Hornby… Dobbiamo
rassegnarci a questo trend?
Io penso che bisogna andare a guardare ai contenuti, al messaggio.
Uno scrittore per me deve avere qualcosa da comunicare. Anche solo personale,
anche solo una parvenza di pensiero, altrimenti siamo nell’ambito della
costruzione ad hoc di un best-seller. Non mi interessa. Il linguaggio dev’essere
figlio dell’idea, deve servire allo scopo del romanzo che si sta raccontando. E’
vero la soluzione stilistica per ogni storia non è una e una soltanto, e qui
arriva la scelta. L’importante è che ci sia un momento di studio o un momento di
riflessione, che nel mio caso arriva sempre dopo. A seconda di quello che sto
scrivendo cambia inevitabilmente anche il mio stile. In questo romanzo ho fatto
un esperimento. Nel capitolo sul padre di Keat, quando sono sulla spiaggia,
soli, e passeggiano quasi per la prima volta l’uno di fronte all’altro da
adulti, da pari, lì ho cercato di fare un twist e aprire uno spazio di racconto
diverso, rallentando il ritmo e aprendo alla suggestione dei luoghi e della
situazione. Spero di esserci riuscito, perché è uno dei capitoli a cui sono
maggiormente affezionato.
Il prossimo libro è una storia sui quarantenni? Dateci del lei 2?
Non ne dovrei parlare per scaramanzia. Ma parlerà di tutt’altro. Non
sarà un romanzo generazionale. I protagonisti sono tre ragazzi tra i diciassette
e i diciannove anni, ma l’età non conta, è un pretesto per raccontare altro.
Un’ultima domanda. Pensi di avere un futuro come scrittore?
Certo. Io mi considero uno scrittore da sempre. E’ quello che ho
sempre voluto fare. E continuerò a farlo. Se intendevi domandarmi se avrò
successo... beh, sai benissimo che il successo non dipende solo ed
esclusivamente dalla bravura, altrimenti perché Camilleri ci è arrivato così
tardi? Se in Italia si investisse di più nella cultura e se ci fossero meno
lobby, avremmo molti più artisti emergenti ogni anno, molto più movimento e la
qualità generale si alzerebbe notevolmente. Sarebbe bello un mondo in cui la
competizione avvenisse soltanto, o quasi, a un livello di meritocrazia, no?
Bene, grazie a tutti e buona lettura di DATECI DEL LEI (Cadmo),
mio primo romanzo.
autointervista di Luca Dresda
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