Questo vento d’agosto reca i sapori dell’autunno e in questo tempo che “incede con lentezza indicibile” giunge la notizia della morte di Neil Armstrong, l’uomo della Luna che in quell’ormai lontano 21 luglio del 1969 mise piede sul nostro satellite di fronte a una platea planetaria. L’orma del suo scarpone è ancora là, ingessata in quell’atmosfera che non c’è e che conserva ancora immagini ma soprattutto emozioni.
Fu un’emozione grande, davvero. Un uomo, immerso in spazi e silenzi più che mai “interminati” e “sovrumani”, saltellava sulla bianca superficie della Luna e dimostrava al mondo intero che le colonne d’Ercole non avevano solide radici ma potevano essere trasportate in qualsiasi punto dalle capacità dell’uomo. Perfino sulla Luna, eterno oggetto di desideri e luogo sul quale si incrociano da sempre i dolci sospiri degli innamorati e delle anime romantiche.
Neil Armstrong è morto e la prima banale considerazione, quasi d’obbligo, è una riflessione sulla caducità dell’uomo. Sì, d’accordo, la scienza e il progresso gli hanno fatto compiere passi da gigante ma resta pur sempre la sua fragilità e in fondo quella polvere bianca che stava calpestando sembrava quasi un richiamo al “memento” biblico “pulvis es et in pulverem reverteris”.
Ma nessuno allora pensava al monito biblico e quella polvere sollevata dal suo scarpone gli conferiva l’aura e la statura di un eroe greco.
Pensando ad Armstrong e alla sua straordinaria passeggiata lunare non posso non fare il paragone con Yuri Gagarin, che fu il primo uomo a volare nello spazio.
Correva l’anno 1961 e il mese era aprile, “il più crudele dei mesi” come lo definì Eliot nella sua “Terra desolata” e di ritorno dal suo volo ebbe a dichiarare che lassù non aveva visto né Dio né gli angeli. Probabilmente quella frase da consegnare all’umanità al suo rientro a terra non fu farina del suo sacco anche perché, a quanto pare, Gagarin era cristiano ortodosso ma quella dichiarazione fece scalpore e a molti non piacque perché sfacciatamente politica. Meglio di lui fece sicuramente Armstrong, che in spaziovisione disse che quello sulla Luna era un piccolo passo per un uomo ma un grande passo per l’umanità.
La Luna, per l’astronauta Armstrong, fu la sua “alfa” e la sua “omega”. L’uomo che avrebbe scritto il suo nome nel grande libro della storia non avrebbe partecipato a nessun’altra missione spaziale né volle mai monetizzare quello straordinario capitale della sua impresa dalla quale avrebbe potuto sicuramente ricavare dollari e onori.
La Luna gli dette tutto e per questo non chiese altro. Fu anche l’unico dei “lunari” a non soffrire di quel mal di luna che invece afflisse i suoi compagni di ventura, che si dettero all’alcol o finirono in ospedali psichiatrici. Lui visse la sua vita schivo, ritirato e con dentro al cuore l’immensa poesia della Luna. E mentre raccontavo questo suo atteggiamento, Romina (che ha frequentato il Liceo classico) molto saggiamente ha ricordato a me (che invece ho frequentato il Liceo scientifico) che Armstrong in realtà si comportò come il famoso Cincinnato che, compiuti i propri doveri, rifiutò gli onori e ritornò al lavoro dei suoi campi.
Ma pensando alla morte di Armstrong mi viene in mente un suo particolarissimo record. L’astronauta, infatti, confessò di aver fatto pipì proprio lassù e quell’atto fisiologico mi richiama oggi l’”Inno alla vita” tratto dal “Pugacev” di Sergej Esenin e in particolare quei versi in cui il poeta parla disperatamente della morte: “Ascoltami, io voglio sputare sul firmamento se domani non sarò più in vita”.
Lui, Neil Armstrong, di professione astronauta, non sputò sul firmamento ma fece un’altra cosa. Chissà se avrà pensato a quel suo gesto mentre lasciava per sempre le contrade di questo mondo.
Franco Gàbici
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(Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è stato dal 1985 al 2008 direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino - La Nazione - Il Giorno - Avvenire. E' direttore responsabile della rivista Gnomonica e redattore di Nuova Civiltà delle Macchine. Presidente del comitato ravennate della "Dante Alighieri" è autore di numerosi saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli Editore, 2002; SeBook, 2004), "Buon Compleanno,ONLY YOU!" (Simonelli Editore, SeBook, 2005), Una Canzone al Giorno" (Simonelli Editore, 2007).