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197 Ravenna, 27 maggio 2006
L'Autostrada
del Sole ha 50 anni ...ed è rimasta sempre quella
Cinquant’anni fa, nel maggio del 1956,
frequentavo la terza media inferiore e stavo preparandomi all’esame che
mi avrebbe spalancato la porta del liceo (scientifico). La televisione
da poco stava impidocchiando le nostre case, però in casa mia ancora non
c’era, era roba da signori, e allora si andava a vederla a casa di amici
o dal prete, che un bel giorno lanciò una colletta per acquistare questo
diavolo di televisore che aveva il potere straordinario di radunare le
pecorelle più di quanto non fossero capaci le prediche di mille parroci.
Giornali ne giravano pochi e le notizie si ascoltavano alla radio, che
alla mattina diramava i suoi “Giornali” al popolo insonnolito che si
apprestava ad andare al lavoro.
Per molti anni, mentre facevo colazione, ho ascoltato una voce che
usciva dalla radio e che diceva, dopo il segnale delle otto, “Ore otto:
giornale radio…” e poi via con le notizie. Ma io pensavo che avevo
studiato poco e che se mi avrebbero interrogato in storia o in filosofia
o in italiano avrei ricavato una bella figuraccia e per questo motivo le
notizie del giornale radio passavano subito in sottordine.
Era dunque il maggio del 1956 e precisamente il 19, quando
cinquant’anni fa venne posta la prima pietra di quel serpentone di
autostrada che avrebbe congiunto Milano a Napoli, le nebbie padane con
il sole napoletano. L’Italia era stata fatta da quasi un secolo (nel
1861) ma, come aveva detto il conte Cavour, non bastava fare l’Italia.
Bisognava anche fare gli italiani e soprattutto insegnar loro che stati
e staterelli non esistevano più per lasciare il posto alla grande
famiglia dello stivale. Cavour aveva ragione, accidenti se ne aveva,
perché dopo quasi un secolo erano spariti sì il ducato di Parma e
Piacenza, lo Stato della Chiesa, il regno del Piemonte e il regno delle
due Sicilie ma gli italiani non trovarono di meglio da fare che
dividersi in due blocchi, quelli del nord e quelli del sud. Si diceva
che quelli del nord lavorassero di più e quelli del sud venivano
chiamati con disprezzo “terroni” e la gente del nord dicevano che quelli
del sud dovessero starsene a casa propria. Questa storia, però, doveva
finire e così in quel bel mattino di maggio si mise in posa la prima
pietra di quella autostrada del sole che avrebbe contribuito a unificare
finalmente l’Italia. Fu una scommessa, per la verità, perché all’epoca
non c’era nessuna particolare esigenza di costruire una strada di quel
genere anche perché il parco macchine dell’epoca arrivava sì e no alle
350 mila unità mentre un dato relativo al 2003 parla di oltre 34
milioni! Ma dietro l’angolo il boom scalpitava come un puledro e
qualcuno, evidentemente, deve aver ascoltato il suo nitrito.
Fu il presidente della repubblica Giovanni Gronchi a inserire una
pergamena nel cippo commemorativo dell’evento, una struttura di circa
due metri posta al Km. 6.136 fra la via Emilia e la ferrovia. Benedice
l’opera il cardinale di Milano Giovanni Battista Montini, che non
avrebbe di certo immaginato che di lì a due anni avrebbe percorso
l’Italia proprio secondo l’itinerario indicato dall’autostrada per
recarsi a quel conclave di Roma dal quale sarebbe uscito Papa col nome
di Paolo VI. Quel giorno la banda musicale dei Carabinieri suonò l’inno
di Mameli.
L’inizio dell’autostrada del sole è, per la verità, un tratto “fasullo”
di un centinaio di metri a doppia corsia allestito alla bell’e meglio
per l’occasione nel cantiere di San Donato Milanese. E’ un tracciato di
sabbia che dal cippo commemorativo si dirige verso sud, ha i bordi
bianchi, lo spartitraffico d’erba e alcuni cartelli che indicano le
tappe fondamentali del progetto (Bologna, Firenze, Roma, Napoli). E
quando si comincia a lavorare non si sa bene in quale direzione debba
andare questa strada, si naviga a vista insomma. O, se preferite, si
lavora all’italiana. In effetti le norme costruttive per la nuova
arteria saranno approvate solamente l’anno dopo e pertanto il buonsenso
impone di andare avanti a dispetto delle lungagne della burocrazia. Poi
succede che dopo aver costruito il ponte sul Po (1176 metri) ci si
accorge che non esiste una legge che indichi le norme per il suo
collaudo. Niente paura! All’inconveniente si rimedia in fretta
utilizzando dieci carri armati messi a disposizione dall’esercito. Le
strutture di cemento armato precompresso non scricchiolano sotto al peso
dei cingolati e i lavori riprendono a grande velocità, come richiedono i
tempi.
Intanto politici e industriali salutano con entusiasmo il progetto
e anche la gente comune, che sente di avere di fronte un futuro sulle
quattro ruote (era l’anno della mitica Seicento che era stata messa sul
mercato dalla Fiat l’anno prima), sembra avvertire tutta l’importanza
del momento. L’autostrada, dunque, è simbolo di progresso e le città che
sono lungo il tracciato chiedono svincoli e uscite però chiedono anche
che queste strutture debbano passare nel terreno dei vicini perché
l’anima dell’Italia resta sostanzialmente agricola e la terra è sacra.
Del resto Francesco Aimone Jelmoni, che fu il primo progettista
dell’Autostrada del sole, ricordava che la sua proposta della “doppia
carreggiata” era considerata faraonica e troppo dispendiosa, ma la vera
ragione era che rubava terra all’agricoltura. Gli ingegneri della
Italstrade, però, che poco prima erano stati inviati nel New Jersey e in
Pennsylvania per visionare le autostrade, avevano in mente gli svincoli
a quadrifoglio, le corsie di emergenza, i guardrail e le aree di
servizio e l’autostrada italiana si “americanizzò” abbandonando il
progetto iniziale dell’Anas che prevedeva, pensare un po’, una strada
con una sola corsia e con uno spazio centrale, alternato, per il
sorpasso.
Il serpentone d’asfalto arriva a Napoli nel 1964 e il 4 agosto di
quell’anno due Fiat 500 guidate da due studentesse partono da Milano e
da Napoli e ciascuna reca i saluti dei sindaci delle due città. La
stagione del boom, però, è già al termine e il topless che viene
lanciato a Saint Tropez ha tutta l’aria della profezia. Sembra avvertire
gli italiani che di lì a poco crisi e congiunture ci avrebbero ridotti
tutti in mutande!
Franco Gàbici
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Franco Gàbici
(Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del
Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista
pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani
Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze"
de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante
Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di
cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col
Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di
don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano
("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli
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