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Ravenna, 23 aprile 2006


  In Memoria del Telegramma

   Apro “Agorà”, l’inserto settimanale di “Avvenire”, di domenica 17 aprile e proprio sotto il mio pezzo che parla della questione del “decimo pianeta” (detto anche “mister X”) trovo un articolo-elzeviro del mio amico Pino Longo, più noto negli ambienti accademici come Giuseppe O. Longo, che parla della morte del telegramma. Per la verità pensavo che il telegramma fosse già morto da un bel pezzo, ma evidentemente la fine di questo mezzo di comunicazione, considerato oggi antidiluviano, ha una data ben precisa. Ci informa Longo, infatti, che “il 27 gennaio scorso, dopo 155 anni di attività, la compagnia americana Western Union ha cessato il servizio telegrafico” chiudendo così  “un’era nella storia delle comunicazioni senza commemorazioni e senza grandi rimpianti”. Abituati a vivere continuamente in un’epoca in cui i fatti sono annunciati ancor prima che questi accadano per davvero (sembra una assurdità, ma c’è da scommetterci l’osso del collo che prima o poi succederà anche questo!), il romantico telegramma - che pure aveva una sua parabola esistenziale – è un oggetto che non ha più ragione di esistere.
   Oggi, per la verità, il telegramma è ancora usato, ma nessuno si reca più all’ufficio postale, limitandosi a dettare il testo per telefono. E conseguentemente non esistono più, almeno credo, i “fattorini” con la loro divisa grigia, le mostrine “P.T.” che brillavano sul giubbotto come stelle d’argento e la loro inseparabile motoretta. Tempi andati.
   Ricordo che il telegramma era una rondinella che portava male e quando il fattorino suonava il campanello urlando “Telegramma!”, quelli di casa avevano un tonfo al cuore. Quasi sempre si trattava dell’annuncio della morte di qualche parente lontano o del preannuncio di una disgrazia imminente. “Bambina malata gravemente. Vieni subito”: è il telegramma che si legge in “Piccolo mondo antico” di Antonio Fogazzaro a testimonianza che nell’Ottocento il telegramma era un mezzo di uso comune. Anche Giovanni Verga ricorda spesso telegrammi nelle sue opere. Oggi noi abbiamo il telefono e gli “sms” che ti raggiungono dovunque e in tempo realissimo. Chi partiva per il servizio militare doveva annunciare il suo arrivo in caserma col telegramma: “Bacio bandiera e saluto il capitano” che a volte, nella concitata emozione, diventava: “Saluto bandiera e bacio il capitano!”. Esisteva anche una letteratura da telegramma, fatta di abbreviazioni per risparmiare sulla lunghezza del testo. La congiunzione “e” veniva scritta “et” e i verbi erano quasi tutti al participio passato. Si parlava in modo criptico e il messaggio era ridotto all’essenziale. Quasi una anticipazione della stringata letteratura veicolata dagli “sms”.
   E pensare che a quei tempi il telegramma era considerato il mezzo più rapido per raggiungere le persone! Gli altri mezzi erano più lenti e tranquilli e rispecchiavano un modo di vivere che ancora non conosceva la nevrosi e la tirannia del tempo. Ricordo anche che si viveva di dolci attese. Pensiamo, ad esempio, alle romantiche cineprese “superotto”. Si partiva per la vacanza e si “riprendevano” i momenti più significativi. Poi, una volta tornati a casa, si spediva la bobina a Milano (a noi della periferia toccava pure questo supplizio) e si aspettava almeno una settimana prima di poter vedere il frutto della nostra fatica. C’era frenesia in questa attesa, davvero.
   Oggi non esistono più il senso e il bello dell’attesa. L’attesa. All’”attesa” ha dedicato una poesia Jorge Luis Borges, dove si leggono questi versi: “En mi pecho, el reloj de sangre mide/El temeroso tiempo de la espera” (L’orologio di sangue nel mio petto/Batte il pauroso tempo dell’attesa). Mi rendo conto di come sia spropositato paragonare l’attesa di Borges all’attesa dei filmetti superotto, ma a volte la memoria dà il via a strani percorsi che conducono lontano, a dimostrazione della complessità del nostro esistere. Borges! Siamo lontani dal plenilunio di Pasqua e l’orizzonte sembra avere affettato la luna lasciandone in cielo solamente una metà. La luna! Sentite cosa scrive Borges:
   C’è tanta solitudine in quell’oro.
   La luna delle notti non è la luna
   che il primo Adamo vide. I lunghi secoli
   dell’umano vegliare l’han colmata
   d’antico pianto. Guardala. E’ il tuo specchio.

   Richiama vagamente Leopardi, che osservava la Luna dal colle dell’Infinito e la vedeva tutta tremolante per le lacrime che gli bagnavano il ciglio. Sono stato da poco proprio sul monte Tabor da dove vedi correre le macchine, e dove i “silenzi” sono interrotti dal vociare delle scolaresche che non fan certo “lieto romore” ma un insopportabile chiacchiericcio. Poi, finalmente, le scolaresche se ne sono andate e sul colle dell’Infinito lo stormir del vento ha portato lontano le loro voci lasciando fra le foglie dell’ermo colle un odore di nutella.

Franco Gàbici
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La musica di Brivido blu è di Giuseppe Spotti, detto Pinom, mentre i versi
sono di Alberto Testa.
Le citazioni di Joyce sono tratte ovviamente dal primo episodio dell’Ulysses.

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Gadda - Il dolore della cognizione  di Franco Gàbici
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Franco Gàbici (Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze" de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante Alighieri". Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli Editore, 2002; SeBook, 2004), "Buon Compleanno,ONLY YOU!" (Simonelli Editore, SeBook, 2005).

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Franco Gabici

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