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194 Ravenna, 23 aprile 2006
In
Memoria del Telegramma
Apro “Agorà”, l’inserto settimanale di “Avvenire”, di domenica 17 aprile e
proprio sotto il mio pezzo che parla della questione del “decimo
pianeta” (detto anche “mister X”) trovo un articolo-elzeviro del mio
amico Pino Longo, più noto negli ambienti accademici come Giuseppe
O. Longo, che parla della morte del telegramma. Per la verità pensavo che
il telegramma fosse già morto da un bel pezzo, ma evidentemente la fine
di questo mezzo di comunicazione, considerato oggi antidiluviano, ha una
data ben precisa. Ci informa Longo, infatti, che “il 27 gennaio scorso,
dopo 155 anni di attività, la compagnia americana Western Union ha
cessato il servizio telegrafico” chiudendo così “un’era nella storia
delle comunicazioni senza commemorazioni e senza grandi rimpianti”.
Abituati a vivere continuamente in un’epoca in cui i fatti sono
annunciati ancor prima che questi accadano per davvero (sembra una
assurdità, ma c’è da scommetterci l’osso del collo che prima o poi
succederà anche questo!), il romantico telegramma - che pure aveva una
sua parabola esistenziale – è un oggetto che non ha più ragione di
esistere. Oggi, per la verità, il telegramma è ancora usato, ma nessuno
si reca più all’ufficio postale, limitandosi a dettare il testo per
telefono. E conseguentemente non esistono più, almeno credo, i
“fattorini” con la loro divisa grigia, le mostrine “P.T.” che brillavano
sul giubbotto come stelle d’argento e la loro inseparabile motoretta.
Tempi andati. Ricordo che il telegramma era una rondinella che portava
male e quando il fattorino suonava il campanello urlando “Telegramma!”,
quelli di casa avevano un tonfo al cuore. Quasi sempre si trattava
dell’annuncio della morte di qualche parente lontano o del preannuncio
di una disgrazia imminente. “Bambina malata gravemente. Vieni subito”: è
il telegramma che si legge in “Piccolo mondo antico” di Antonio
Fogazzaro a testimonianza che nell’Ottocento il telegramma era un mezzo
di uso comune. Anche Giovanni Verga ricorda spesso telegrammi nelle sue
opere. Oggi noi abbiamo il telefono e gli “sms” che ti raggiungono
dovunque e in tempo realissimo. Chi partiva per il servizio militare
doveva annunciare il suo arrivo in caserma col telegramma: “Bacio
bandiera e saluto il capitano” che a volte, nella concitata emozione,
diventava: “Saluto bandiera e bacio il capitano!”. Esisteva anche una
letteratura da telegramma, fatta di abbreviazioni per risparmiare sulla
lunghezza del testo. La congiunzione “e” veniva scritta “et” e i verbi
erano quasi tutti al participio passato. Si parlava in modo criptico e
il messaggio era ridotto all’essenziale. Quasi una anticipazione della
stringata letteratura veicolata dagli “sms”.
E pensare che a quei tempi il telegramma era considerato il mezzo più
rapido per raggiungere le persone! Gli altri mezzi erano più lenti e
tranquilli e rispecchiavano un modo di vivere che ancora non conosceva
la nevrosi e la tirannia del tempo. Ricordo anche che si viveva di dolci
attese. Pensiamo, ad esempio, alle romantiche cineprese “superotto”. Si
partiva per la vacanza e si “riprendevano” i momenti più significativi.
Poi, una volta tornati a casa, si spediva la bobina a Milano (a noi
della periferia toccava pure questo supplizio) e si aspettava almeno una
settimana prima di poter vedere il frutto della nostra fatica. C’era
frenesia in questa attesa, davvero. Oggi non esistono più il senso e il
bello dell’attesa. L’attesa. All’”attesa” ha dedicato una poesia Jorge
Luis Borges, dove si leggono questi versi: “En mi pecho, el reloj de
sangre mide/El temeroso tiempo de la espera” (L’orologio di sangue nel
mio petto/Batte il pauroso tempo dell’attesa). Mi rendo conto di come
sia spropositato paragonare l’attesa di Borges all’attesa dei filmetti
superotto, ma a volte la memoria dà il via a strani percorsi che
conducono lontano, a dimostrazione della complessità del nostro
esistere. Borges! Siamo lontani dal plenilunio di Pasqua e l’orizzonte
sembra avere affettato la luna lasciandone in cielo solamente una metà.
La luna! Sentite cosa scrive Borges:
C’è tanta solitudine in quell’oro.
La luna delle notti non è la luna
che il primo Adamo vide. I lunghi secoli
dell’umano vegliare l’han colmata
d’antico pianto. Guardala. E’ il tuo specchio.
Richiama vagamente Leopardi, che osservava la Luna dal colle
dell’Infinito e la vedeva tutta tremolante per le lacrime che gli
bagnavano il ciglio. Sono stato da poco proprio sul monte Tabor da dove
vedi correre le macchine, e dove i “silenzi” sono interrotti dal vociare
delle scolaresche che non fan certo “lieto romore” ma un insopportabile
chiacchiericcio. Poi, finalmente, le scolaresche se ne sono andate e sul
colle dell’Infinito lo stormir del vento ha portato lontano le loro voci
lasciando fra le foglie dell’ermo colle un odore di nutella.
Franco Gàbici
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La musica di Brivido blu è di Giuseppe Spotti, detto
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Buon Compleanno,ONLY YOU!
Franco Gàbici
(Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del
Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista
pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani
Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze"
de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante
Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di
cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col
Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di
don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano
("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli
Editore, 2002; SeBook, 2004), "Buon
Compleanno,ONLY YOU!" (Simonelli Editore, SeBook, 2005).
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