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Ravenna, 21 novembre 2005


Chi si ricorda di Dante Arfelli?
Il suo romanzo "I superflui" fu nel 1949 un best seller: 800mila copie vendute negli Stati Uniti. A dieci anni dalla morte, varrebbe davvero la pena di scoprire o riscoprire questo grande scrittore dimenticato.

  Andando alla ricerca degli anniversari perduti mi cade sotto gli occhi Dante Arfelli, morto a Ravenna il 10 dicembre di dieci anni fa. Dante Arfelli fu, come si dice in gergo, un caso letterario. Nato a Bertinoro nel 1921, un paese nelle colline forlivesi famoso soprattutto per la sua ottima albana, Arfelli si trovò la vocazione dello scrittore e nel 1949 uscì con “I superflui”, edito da Rizzoli, col quale vinse il premio Venezia, antesignano del prestigioso Campiello. Fu un successo strepitoso, negli Usa la traduzione dei “Superflui” raggiunse le 800 mila copie e gli americani diventarono tutti pazzi per Arfelli, il cui romanzo era definito dalla critica ufficiale “il romanzo tipo dei tempi moderni” che “si distacca nel suo significato più profondo dagli altri scritti italiani del dopoguerra”. Poi nel 1951 arrivò il secondo romanzo, “La quinta generazione”, poi ancora qualche racconto e infine il silenzio. Un silenzio causato da una lunghissima malattia, quella malattia che Gadda nella “Cognizione del dolore” descrive come “il male oscuro di cui le istituzioni e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare le cause, i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgoranto scoscendere d’una vita, più greve ogni giorno, immedicato” e della quale fu affetto anche Giuseppe Berto (che inserì questa considerazione gaddiana all’inizio del suo “Male oscuro”) che tuttavia in qualche modo riuscì a sublimare e comunque a non soccombere, come invece fece Arfelli.
   “I superflui” è un tipico romanzo neorealista e per certi aspetti richiama “Il cielo è rosso” di Berto, anche se Berto non ne ha mai voluto sapere di essere catalogato fra i neorealisti (lui diceva che le uniche due opere neorealiste scritte in quel periodo erano la sua “Le opere di Dio” e “I compagni sconosciuti” di Franco Lucentini) ma io non sono un critico e la questione non mi interessa più di tanto e se c’è una cosa che mi ha incuriosito è invece che in entrambi i romanzi, che si svolgono in un clima di assoluta povertà (quello di Berto durante la guerra e quello di Arfelli nell’immediato dopoguerra), hanno fra i protagonisti “una vecchia”, una vecchia senza nome, antipatica e petulante, magari la vecchia lattaia di Joyce che rappresenta l’Irlanda e dunque la vecchia potrebbe rappresentare l’Italia o forse è solamente un’altra delle mie fesserie che fa il paio con quella della volta scorsa (Joyce e il giovane Holden, ricordate?).
   Incontrai personalmente Dante Arfelli in un pomeriggio di autunno di molti anni fa. Ero insieme a Walter Della Monica e lo andammo a trovare nell’albergo per anziani dove era stato sistemato. Alto e leggermente ricurvo, parlava poco e si vedeva che aveva notevoli difficoltà. Walter si adoprò molto per farlo rinascere e riuscì a far ripubblicare da Marsilio un diario, “Ahimé povero me” che raccoglieva alcune considerazioni degli ultimi giorni unitamente a qualche ristampa di vecchi articoli apparsi su quotidiani.
   Negli ultimi giorni Arfelli scriveva con fatica e leggere quelle pagine hanno il sapore dell’autunno. Chi non ha conosciuto la parabola esistenziale di Arfelli certamente non lo capirà e invece dentro a quelle pagine si trovano dolore, sofferenza e magari anche un pallido bagliore di speranza nella vita da parte di un uomo di grandissima sensibilità che ha dovuto soccombere a quel “male oscuro” che invece Berto riuscì a descrivere e, in qualche modo, a debellare (anche se Berto praticamente soffrì per tutta la vita).
   Il mio ginko è tutto giallo e stamane si staglia contro un insperato azzurro come un urlo di vita gridato in faccia alla desolazione dell’inverno. Ieri sera nella cava buia del cielo brillavano Orione e Sirio, messaggeri dell’inverno, e poi ancora lo splendido Marte, spento rubino fra le stelle. E penso a Dante Arfelli, scrittore oggi sconosciuto ma che ai suoi tempi ebbe in sorte l’esistenza di una fulgidissima cometa. Lo vedevo spesso camminare sul viale del lungomare di Marina di Ravenna, incurvato e con un incedere lento e faticoso, con passettini piccolissimi. Una volta alcuni ragazzetti, con tutta l’ingenua vigliaccheria della loro tenera età, lo scimmiottarono ma forse Dante non se ne accorse nemmeno. E io pensavo al successo de “I superflui” e ad una carriera che sarebbe stata luminosissima se non ci fosse stato di mezzo una terribile nevrosi. E Arfelli procedeva lento, a scatti… “clof, clof, cloch/cloffete/cloppete/clocchette/chchchc”, ma che differenza corre fra questi versi di Palazzeschi e il “Papè Satan Papé Satan Aleppe” di un certo Alighieri (sissignori, quello della Divina Commedia) e Arfelli andava e andava, chiuso nel suo mondo, lungo una strada che lo riconduceva ad essere lui stesso un superfluo, come quelli che aveva raccontato nel suo romanzo. Arfelli camminava a fatica e i ragazzini, stanchi dei giochi, parlavano sommessamente e ridevano di lui. Per loro la vecchiaia era una vecchia lontana come la luna. Magari qualcuno di loro, in età adulta, avrebbe letto Arfelli e gli sarebbe venuto in mente quel vecchio che camminava a fatica sul lungomare, là dove oltre il verde cupo dei pini si udiva il respiro aspro del mare. Ad Arfelli piaceva osservare il mare, così come Rimbaud, Stendhal… Gli piaceva soprattutto quando era in burrasca, con la vita che gli alitava sopra come come uno dei gabbiani di Cardarelli…
   Ai piedi del ginko c’è un bel tappeto dorato. Sembrano i raggi del sole caduti a terra per riposarsi dalle roventi fatiche dell’estate. Poi scenderà la notte e torneranno a brillare Orione e Sirio e Marte… Nelle prime ore della notte splenderà anche Venere, “lo bel pianeta che d’amar conforta” e che in queste sere, però, non fa ridere l’oriente, ma l’occidente. Perché Venere è fatto così. Si diverte a sfuggire. Luce bianchissima che risplende nella notte. Come l’astro di Arfelli che oggi pochissimi ricordano. Arfelli che scriveva di mare e di pini: “Io conosco tutte le stagioni della pineta (…) quanti anni ho vissuto a cogliere i primi segni del mutarsi delle stagioni dai tronchi e dalle ombrelle degli alberi. Non so, non ho più provato, ma forsa ora non ne sarei più capace. Il linguaggio del bosco forse ora mi sarebbe diventato incomprensibile. E allora, se fosse così, non rimpiango che questa pineta sia finita. Uccisa dalla guerra, come la mia infanzia, come l’infanzia di tutti noi”. Questo era Arfelli, alto e allampanato, che vedevo camminare lentamente sul lungomare, dove oltre la lunga gobba dei pini respirava il mare.

Franco Gàbici

L’ultima citazione è tratta da “Quando c’era la pineta”, Ravenna, Edizioni del Girasole, 1975
(a cura di Walter Della Monica), pp. 42-43.

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Franco Gàbici (Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze" de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante Alighieri". Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli Editore, 2002; SeBook, 2004), "Buon Compleanno,ONLY YOU!" (Simonelli Editore, SeBook, 2005).

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Franco Gabici

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