Per non dimenticare le altre nostre Lingue
 Non parliamo soltanto italiano...  
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ESCLUSIVA Una "storica" intervista-lezione con il professor Tristano Bolelli, celebre glottologo e linguista, per anni docente all'Università di Pisa e autore di numerose pubblicazioni oltre che curatore (insieme con la moglie Adriana Zeppini) del popolare «Dizionario dei dialetti d'Italia», in quattro volumetti, creato nel 1983 appositamente per la Domenica del Corriere.

ANDIAMO A SCUOLA DI DIALETTO
Questa conversazione fra Luciano Simonelli e Tristano Bolelli si è svolta a Pisa nell'ottobre del 1983

Lezione n.4

Proseguendo a parlare dei dialetti dell'Italia settentrionale, le loro caratteristiche si fermano a quello che ha finora detto?

«No. Un altro elemento tipico è che le consonanti doppie diventano semplici. E questo accade proprio per tutti questi dialetti. Nel veneto, è noto, invece di "matto" si dice "mato". Ma la realtà non muta neppure nei dialetti in cui come si è detto non c'è la vocale finale. In quelli si dirà "mat". Inoltre, per tornare ai "segni" dell'origine gallica dei dialetti settentrionali c'è qualcuno che sostiene che la "u" lombarda sarebbe appunto una "u" gallica. Ma su questo punto non tutti gli studiosi sono d'accordo. E un discorso controverso come quello che viene fatto a proposito dell'origine della "c" intervocalica aspirata nel toscano che, come ho detto, costituisce un caso a parte nei dialetti dell'ltalia centro-meridionale...».

E qual è la teoria sulla "c" aspirata dei toscani?

«Un grande studioso come Merlo sosteneva che questo era un segno di lingua etrusca. Secondo il famoso dialettologo (ma un altro importante specialista, il Rohlfs, non è d'accordo con lui) se i toscani dicono "la 'asa" invece di "la casa", "ami'o" invece di "amico" la ragione va ricercata negli Etruschi che con le conquiste romane avrebbero imparato il latino mantenendo però le loro aspirate nel "c", nel "ch" intervocalico e anche nella "t" che in una parte della Toscana viene pronunciata come fosse un "th"... Ma, riprendendo il discorso sui dialetti dell'Italia settentrionale, va aggiunto, prima di concluderlo, che essi sono molto più vari di quelli centro-meridionali,nonostante che l'area di diffusione dei primi sia più ristretta di quella dei secondi...»

Le ragioni di questa particolarità quali sono?

«Dipende tutto dalla maggiore varietà della storia dell'ltalia settentrionale. Pensi un po' che cosa può aver voluto dire il fatto che città come Torino, Milano, Bergamo, Venezia, Padova e tante altre abbiano avuto vicende politiche e sociali completamente autonome. E queste autonomie, i territori che passavano dagli uni agli altri con le molte guerre che ci sono state, hanno prodotto un'evoluzione diversa di quei dialetti. Ma al di là di tali osservazioni di carattere generale, è impossibile scendere a spiegazioni più particolareggiate. Infatti non sempre possiamo intravedere le ragioni precise di un'evoluzione linguistica. Per esempio, è certo che il francese sia linguisticamente più evoluto dell'italiano. Perché? La risposta sono soltanto alcune supposizioni. Come il fatto che la Francia ha certamente avuto un'evoluzione più rapida dell'ltalia sul piano civile o che quando una lingua diventa più generale è soggetta a maggiori cambiamenti. Insomma, le cosiddette "lingue imperiali" sono quelle che hanno registrato una maggiore evoluzione».

Oggi quale chiamerebbe "lingua imperiale" per eccellenza?

«L'inglese, naturalmente. E ormai non si riconosce più rispetto alla lingua usata da Shakespeare... Vede, l'italiano è rimasto invece una lingua letteraria perché veniva imparato sui libri. Non era adoperato da tutta la popolazione. Non bisogna dimenticare che nel 1860/1870 gli italiani erano per l'ottanta per cento analfabeti. Quindi, quel venti per cento che sapeva leggere e scrivere produceva, sì, cose interessanti ma non c'era diffusione della cultura. Ecco perché da noi si è verificata una persistenza dei dialetti».

Ma torniamo a parlare del toscano a cui accennava prima per la "c" aspirata. Qual è la sua caratteristica generale?

«Si può dire che mantiene molti legami con il latino. Se, per esempio, prendiamo la parola "sanctus " questa in toscano di venta "santo", c'è praticamente una conservazione. L'"nct" latino è "nt" e non diventa "nd", "sando", come invece accade in certi dialetti meridionali. Sì, il toscano è linguisticamente molto conservatore, per lo meno quanto il sardo. E la ragione di questo sta sempre nel fatto che anche una buona parte della Toscana è rimasta, per un certo periodo, abbastanza isolata dal resto del mondo. Infatti, a causa degli Appennini, era fuori dalle vie di comunicazione dal nord verso il sud e viceversa. Basti pensare all'itinerario che seguivano coloro i quali tornavano dai pellegrinaggi al santuario di Santiago di Compostela, nell'odierna Spagna. Per andare verso sud giungevano nella Lucchesia, andavano dove ora si trova Altopascio ed evitavano la zona costiera dirigendosi probabilmente verso Siena. Insomma, seguivano una linea che lasciava da parte Firenze. Quindi sia questa città sia parte della Toscana sono rimaste per parecchio tempo isolate. Almeno fino al Duecento-Trecento quando i mercanti hanno aperto nuove vie di comunicazione. E' stata appunto la lunga mancanza di contatti con l'esterno che ha reso più determinante l'influenza del latino sulla sua lingua».

Lei, professore, ha già avuto occasione di dire che anche la Toscana, pur essendo la regione in cui è nata la lingua italiana, ha i suoi dlaletti. Mi può fare degli esempi?

«Il caso di Pisa è tipico. Prima che Firenze la conquistasse, qui si parlava un dialetto che era simile a quello di Lucca che ancora oggi è diverso dal fiorentino. Il lucchese, vede, aveva dei tratti più settentrionali, conseguenza del fatto a cui ho appena accennato, che da là passava la via che dal nord portava verso Roma. Ed è tipico sentire ancora oggi dire nel contado lucchese "bellessa" invece di "bellezza", "pias sa " invece di "piazza"... Qui a Pisa abbiamo un'iscrizione del Quattrocento in cui si legge: "In questa piassa..". E quando Dante scrive "sola gran fersa"" per "sferza " adopera un elemento pisano-lucchese e non fiorentino. Quest'ultimo non avrebbe mai adoperato una esse per una zeta. Però nel nostro "Dizionario " quando troviamo delle parole toscane dialettali sono di solito della periferia. Provengono dalla Lucchesia, dalla Garfagnana, dalla zona che va verso Massa e Carrara, quella dell'lsola d'Elba, del Grossetano, la larga periferia senese ma non sono mai parole del centro della Toscana. Quella parte è rimasta linguisticamente compatta. Infine, va detto che esistono differenze anche fra Firenze e Siena come conseguenza di una storia abbastanza autono ma dell'una rispetto all'altra. Un esempio. A Siena si adopera spesso la forma "ar" invece di "er". Infatti il Museo dell'Opera del Duomo dove nella città del Palio è conservata la famosa Maestà di Duccio di Buoninsegna, viene indicato nelle iscrizioni come "Museo dell'Opara del Duomo". E così nei testi senesi si legge ren darò invece che renderrò».

Dopo il toscano ci sono i dialetti centro-meridionali. Ebbene, questi ultimi come si distinguono dagli altri, da quelli settentrionali?

«Sono molto più facili da individuare. Una loro caratteristica fondamentale è che il gruppo "nd " diventa "nn", cioè "quando " si tra sforma in "quanno". E questo esiste in tutti i dialetti centro-meri dionali all'infuori di qualche piccola "isola" in cui si parlava greco. Allora, che cosa è successo? Laddove c'è una "nt" quella si tra sforma in "nd" mentre quando c'è "nd "si ha "nn". E' un fatto interessantissimo perché "nd" che diventa "nn "lo si trova anche nelle iscri zioni osco-umbre preromane. E quindi la prova di una continuità storica dall'osco-umbro ai dialetti attuali. Cioè quelle popolazioni hanno imparato il latino ma vi hanno introdotto quell'"nn" della loro radice linguistica preceden te...Bisogna poi ricordare che vi sono delle zone in cui esistono le consonanti invertite».

Di che cosa si tratta?

«Sono quelle che, per esempio, si trovano nel siciliano "beddu" e "bedda " al posto di "bello " e "bella". E la cosa curiosa è che queste consonanti si incontrano anche in Sardegna, in Corsica e in alcuni paesi delle Alpi Apuane in cui capita di sentir dire "padda" invece di "palla", "paddone" invece di "pallone"».

Perché accade tutto questo?

«E' stato attribuito a un sostrato di popolazioni molto remote, precedenti ai romani che nella loro lingua avrebbero avuto queste consonanti».

Si trattava forse di popolazioni ancora piùantiche degli etruschi?

«Molto probabilmente sì... Ma questa non è l'unica curiosità che si scopre, da un punto di vi sta linguistico, nell'ltalia centro meridionale...».

Quali sono le altre?

«Esistono per esempio località in provincia di Foggia, come Faeto e Celle San Vito, in cui dal Trecento si è diffuso il franco provenzale e a Guardia Piemontese, in provincia di Cosenza, lo stesso è accaduto a partire dal Cinquecento. Esistono poi colonie gallo-italiche in Sicilia di provenienza naturalmente settentrionale. E questo in località come San Fratello, Novara, da non confondere con l'omonima città del Piemonte, Sperlinga, Nicosia, Aidone, Piazza Armerina, Randazzo. Si tratta di un ulteriore esempio di quanto sia estremamente interessante la storia linguistica della Sicilia. E proprio su questa regione esiste un acceso dibattito fra gli studiosi...».

Su cosa verte la contesa?

«La questione è se la Sicilia è stata romanizzata due volte: prima con i romani e poi con i normanni. E' una contesa naturalmente linguistica fra chi insomma sostiene che il siciliano è la continuazione del latino e altri che considerano questa lingua come frutto di una seconda romanizzazione, fatta dal Settentrione in epoca più recente, dai norrnanni appunto».

E lei, professor Bolelli, da che parte sta?

«Io penso che il siciliano sia una continuazione del latino. Se poi ci sono stati degli apporti successivi dei normanni lo posso accettare ma quello che non con divido è che ci possa essere stata fra gli uni e gli altri una interruzione di carattere linguistico. Il mutamento del siciliano per me è insomma avvenuto per cause storiche, non credo proprio che a un certo punto i siciliani abbiano abbandonato il latino per il greco e poi siano tornati di nuovo al latino».

Però in Sicilia c'erano delle colonie greche...

«Certo ci sono state città che parlavano greco. Basta pensare a Siracusa e ad Agrigento... Però a un certo punto il greco è pian piano scomparso, ha ceduto il passo al latino. Infatti non è un caso che oggi come oggi "colonie" greche in Sicilia non ci siano più, rimane soltanto qualcuna albanese. Ma anche a proposito degli insediamenti greci in Italia esiste un grosso dibattito fra gli studiosi. Si discute cioè se questi risalgano all'ottavo secolo avanti Cristo oppure si tratti invece di colonizzazioni posteriori, avvenute nell'età cristiana, e più precisamente nel sesto, settimo secolo dopo Cristo».

E gli insediamenti albanesi a quando risalgono?

«Beh, quelli ci riconducono ai tempi in cui l'Albania è stata conquistata dai turchi nel secolo XV. E stato appunto allora che molti albanesi si sono rifugiati in Italia... Per completare poi il nostro discorso sui dialetti italiani resta infine da dire qualcosa a proposito del ladino. Questa èuna varietà di lingua romanza la cui sezione orientale è formata dal friulano e la sezione centrale da valli dolomitiche come quelle di Fassa, Gardena, Badia, Marebbe e, ancora, Livinallongo, Ampezzo e il Comelico. Il ladino è anche diffuso in Svizzera nel Cantone dei Grigioni. E una delle sue carat teristiche, giusto per fare un esempio, è il plurale che si forma ponendo una "s" alla fine delle parole. Cioè fiori in ladino si dice "flors"».

In conclusione, professor Bolelli, fra i grandi gruppi di dialetti, quelli dell'ltalia settentrionale e quelli centro-meridionali, esiste a suo avviso qualche elemento in comune?

«Direi proprio di no. Ogni dialetto ha le sue caratteristiche. Insomma, i vari dialetti non costituiscono un'unica linea retta ma sono come tanti segmenti, ciascuno dei quali succede all'altro. Faccio un esempio. Quando in Emilia diciamo che la "a" accentata diventa "e " per cui si dice "peder " invece di "pader", "meder" invece di "mader ", questa è una costante che seguiamo fin dove arriva, poi, a un certo punto, vediamo che non c'è più, entriamo in un' altra zona con altre caratteristiche. Ecco è finito un segmento dialettale e ne comincia un altro».

[4.FINE]


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