QUESTO NOSTRO CINEMA ITALIANO:
Malato Vero o Immaginario?

La parola ai protagonisti


Inchiesta-Dibattito di Luca Dresda
Quarta Puntata - Terza Puntata- Seconda Puntata - Prima Puntata

Come sta il Cinema Italiano?
Da questo semplice interrogativo a cui è però complesso rispondere ha preso l'avvio una nostra inchiesta. Una inchiesta in cui non siamo noi a parlare ma soprattutto i protagonisti sulla base delle provocazioni che sono le nostre (e anche le vostre se ce le invierete per e-mail) domande. La parola dunque, settimana dopo settimana, ad attori, registi, sceneggiatori ma anche a quei tecnici che, pur essendo meno noti, costituiscono l'asse portante di ogni film. Unico obiettivo è quello di capire, di andare a fondo di una questione apparentemente e annosamente irrisolvibile. Ci riusciremo? Sarebbe un ottimo risultato. Ma forse sarebbe già molto importante innescare un dibattito serio, sincero, senza peli sulla lingua. Noi sognamo un Cinema, come la Cultura in genere, senza condizionamenti di parte, come noi non siamo di nessuna parte: né di centro, né di destra, né di sinistra. Noi siamo soltanto per il Cinema.

Dopo aver ascoltato Mita Medici, attrice e regista; Roberto Meddi, regista; Gioia Magrini, sceneggiatore; Michele Palatela, Agente; la parola va a...

SANDRA MILO

Incontro con Sandra Milo, una testimone della "dolce vita", della stagione dei grandi cineasti che hanno fatto epoca e tuttora studiano in tutto il mondo.
Come è cominciata la sua storia di attrice: è stato un caso o una vocazione?

«In qualche modo ce l'avevo dentro, è una scelta che è avvenuta spontaneamente. Sì, un attore ha dentro qualcosa che poi un regista o un produttore notano. C'è chi si mette sotto, lavora, studia, frequenta gli ambienti giusti e spende la sua vita per raggiungere i suoi obiettivi con metodo e chi, come me, non ha dovuto lottare molto. È venuto tutto con una certa naturalezza. Uno dei primi film che ricordo con simpatia è "Le Belle Famiglie" di Ugo Gregoretti, con Adolfo Celi e Annie Girardot, del 1955. Un film già all'epoca controcorrente che racconta ad episodi delle storie di non normalità...»

Poi ci sono stati molti altri film. Non tutti conoscono la ricchezza del tuo repertorio. Per esempio, hai lavorato molto in Francia: Becker, Autant-Lara, Sautet, Boyer, De Broca, Cayatte. Era un periodo ricchissimo per il cinema europeo.

«In Francia ho lavorato molto nella seconda metà degli anni '50. È stata una stagione molto bella, piena d'incontri affascinanti. I Francesi hanno sempre avuto il cinema nel sangue. Sono magnetici, profondi, pieni d'idee, sono coraggiosi, ecco».

Qual è il film a cui sei legata particolarmente a parte quelli di Fellini?

«Non credere, ci sono alcuni film che ho fatto che mi hanno dato altrettanto che quelli di Fellini, solo che non hanno avuto il giusto riscontro di pubblico. Uno su tutti, "Vanina Vanini" di Roberto Rossellini. Andò a Venezia e fu un grande flop. Fu inaspettato, perché era un bel prodotto... era la storia di una principessa romana che si innamora di un carbonaro e che fugge con lui in Romagna. Solo, che la sua gelosia la spinge a denunciare tutti i suoi compagni per averlo tutto per sé. Il suo amante però viene preso dal terrore di essere individuato come la spia e si consegna ai Gendarmi. È una storia d'amore sì, ma forte, con molti elementi sociali. Rossellini e tutti noi ci credevamo molto. Fu una delusione enorme. In quel momento ho deciso di non fare più cinema. Volevo smettere...»

Racconta come Fellini ti ha convinto a lavorare per lui.

«Federico mi conosceva già e mi cercò per fare "8 e mezzo". Io non volevo, la delusione era ancora troppo grande. Lui insisteva, insisteva, allora mi chiusi in casa. Una mattina mi sveglio perché sentivo dei rumori strani e mi accoglie Federico stesso con la troupe! Erano entrati di forza e mi avevano allestito il set per il provino in salotto».

Veniamo al presente. Come giudichi il cinema di oggi?

«È completamente diverso da allora. A quei tempi noi italiani eravamo d'esempio per tutto il mondo, ancora oggi quei film si studiano nelle accademie di cinema. Oggi la televisione ha un po' banalizzato tutto. Anche gli attori ne risentono. Non c'è più divismo, non c'è più sogno. Noi eravamo un esempio, incarnavamo quello che tutti avrebbero voluto essere. Ci adoravano, c'era qualcosa di irreale e magico in quel mondo. Oggi è tanto se il pubblico si ricorda il nome dell'attore...».

È soltanto una questione di influenza televisiva?

«Soprattutto, sì. La televisione ha fatto entrare tutti questi "personaggi della porta accanto", ha reso tutto meno interessante. Il cinema è un luogo dove sognare, ma oggi tutto è diventato così banale...».

A parte questo velo di nostalgia, cosa pensi dei giovani cineasti, delle prove di Muccino, di Giordana, e company?

«È un bel segno, io sono contenta per loro. Questo dimostra che in Italia c'è ancora una buona professionalità. Anche se mi sono allontanata da molto dal cinema io tifo sempre per i nostri artisti».

E del premio come migliori attori ai due protagonisti di "Luce dei miei occhi" alla Mostra del Cinema di Venezia che ne dici?

«È sempre un piacere quando vengono premiati degli italiani, ne abbiamo bisogno. Però penso che non serva a molto. Questi premi spesso sono solo facciata, non cambiano la sostanza dei problemi. Auguro a questi ragazzi una carriera bellissima, anche se davanti non si trovano certo Rossellini o Fellini o Antonioni o Pasolini!».

Non credi che bisognerebbe fare qualcosa per incentivare un'industria che troppo spesso vive di acuti momentanei e che risulta poco organica?

«Io non mi intendo molto di fattori produttivi. Credo che bisognerebbe anche tornare a scrivere storie con personaggi più intriganti, più stimolanti, sia per noi attori che per il pubblico. Questo insistere in un minimalismo troppo quotidiano riporta sullo schermo una realtà quotidiana pesante e poco interessante. Oggi si scrive pensando alla vicina di casa o al proprio negoziante e si dà poco spazio alla creatività, ai sogni».

È una critica nei confronti degli sceneggiatori?

«Non dico questo, solo che tutto l'ambiente vive di un'atmosfera un po' sminuita. Noi vivevamo insieme, dalla mattina alla sera, era un mondo a parte, pieno di eccessi è vero, ma faceva parte del gioco. Si viveva sopra le righe e s'incarnavano i sogni della gente. Le storie nascevano in un clima favorevole, pieno di spunti, di confronti. E il mistero che si manteneva verso l'esterno rendeva tutto di per se stesso magico».

Torniamo ad oggi. Ricevi proposte, c'è qualche storia che ti ha colpito più di altre?

«Sì, c'è. È un progetto di due giovani emergenti, molto bravi alla loro prima esperienza. Ho voluto accettare perché mi ha colpito il mio personaggio, pieno di spunti, di sfumature. Ma non posso dire nulla. Dico solo che uscirà nelle sale e che farò di tutto perché abbia la giusta visibilità».

Cosa non facile visto il non buon rapporto dei distributori con il cinema di casa nostra.

«Farò tutto quello che posso».

C'è altro in cantiere?

«Sì. Ho un progetto teatrale con Patrick Rossi Gastaldi. La riduzione teatrale del mio libro "Caro Federico". Anche questo è un progetto a cui tengo molto perché è la prima volta che mi sperimento con il teatro. Siamo ancora in fase di scrittura, ma Patrick è molto bravo e quello che stiamo partorendo mi piace molto».

Grazie per essere stata con noi.

Credo che con questa intervista Sandra Milo ci abbia fornito un punto di vista diverso, sicuramente sincero, di un'artista che ha reaggiunto l'apice del successo nel cinema di ieri e che vede nel cinema attuale una tendenza alla banalizzazione dei contenuti "alti" che erano rappresentati negli anni '50-'60. Ed è difficile pensare ad un ritorno a quei temi, in un mondo culturale profondamente cambiato e per certi versi meno ingenuo e più cinico.

L'appuntamento con i lettori, che non sono pochi, è alla prossima puntata della nostra inchiesta sul cinema italiano.

Luca Dresda
(4.CONTINUA)

 


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