QUESTO NOSTRO CINEMA ITALIANO:
Malato Vero o Immaginario?

La parola ai protagonisti


Inchiesta-Dibattito di Luca Dresda
Seconda Puntata - Prima Puntata

Come sta il Cinema Italiano?
Da questo semplice interrogativo a cui è però complesso rispondere ha preso l'avvio una nostra inchiesta. Una inchiesta in cui non siamo noi a parlare ma soprattutto i protagonisti sulla base delle provocazioni che sono le nostre (e anche le vostre se ce le invierete per e-mail) domande. La parola dunque, settimana dopo settimana, ad attori, registi, sceneggiatori ma anche a quei tecnici che, pur essendo meno noti, costituiscono l'asse portante di ogni film. Unico obiettivo è quello di capire, di andare a fondo di una questione apparentemente e annosamente irrisolvibile. Ci riusciremo? Sarebbe un ottimo risultato. Ma forse sarebbe già molto importante innescare un dibattito serio, sincero, senza peli sulla lingua. Noi sognamo un Cinema, come la Cultura in genere, senza condizionamenti di parte, come noi non siamo di nessuna parte: né di centro, né di destra, né di sinistra. Noi siamo soltanto per il Cinema.

Dopo aver ascoltato nella scorsa puntata l'attrice e regista Mita Medici ora la parola passa a:

Roberto Meddi, regista
Gioia Magrini, sceneggiatore

Da che cosa deriva questa "crisi" del Cinema di cui si parla da quando sono nato [1966]?

Roberto:
«Le motivazioni dello stato del Cinema Italiano sono, ovviamente, più di una. Siamo una società complessa (capitalismo avanzato!) quindi l'ordine dei problemi inevitabilmente si intreccia.
Partiamo pure dal fatto che il Cinema Italiano, e non solo, diciamo tutto quel cinema che non ha forza di penetrazione economica, è stato sempre, più o meno, in crisi. Io ho cominciato a lavorare nel cinema nel 1974, quando quest'ultimo era ancora presente, ma cominciava a mostrare i primi segni di decadimento, forse anche per la montante presenza televisiva (e la soppressione delle seconde e terze visioni).
Quel che stiamo vivendo oggi è il classico "punto morto superiore", in quanto tutto quello che non è stato fatto, o peggio, è stato fatto male, emerge con maggiore drammaticità. Mi viene da elencare il solito prontuario (inflazione dell'etere, morte dei produttori che realmente producono assumendo persolmente i rischi del fare veramente un film, crisi dell'esercizio cresciuto elefantiacamente e sopratutto disordinatamente, politica dell'importazione del prodotto non europeo non sufficientemente salvaguardata da un discreto diritto di reciprocità verso i mercati che producono ed esportano di più, assoluta inadeguatezza delle scuole di cinema e delle scuole ordinarie - perché non cominciare proprio da li a imparare a "leggere" un film? - , tendenza di noi tutti a considerare l'erba del vicino sempre un po' più verde e conseguente frustrazione di chi, sempre noi, si prende la briga di raccontare...e ovviamente altro ancora).
Come vedi, solo con questa prima domanda potremmo tenere un forum di discussione per qualche settimana».

Gioia:
«Io credo che il problema stia anche nella politica culturale propria di un Paese. Il Cinema in Italia non è un industria come negli Stati Uniti e quindi un mercato in cui vale la pena investire anche da parte dei privati, né, come esempio in Francia, un'espressione artistica e culturale nazionale che viene considerata da proteggere e valorizzare perché rappresenta un biglietto da visita del Paese nel resto del mondo. Da noi, purtroppo, la cultura e l'arte (a parte il patrimonio archeologico, anch'esso per anni abbandonato a se stesso e solo ultimamente considerato una risorsa) sono un optional per pochi eletti, e quindi gli investimenti in questo settore sono considerati in partenza a fondo perduto, perché si sa che gli incassi saranno bassi e quindi non vale la pena rischiare più di tanto. Gli autori Italiani (a parte poche eccezioni) sono quindi costretti a scrivere film da girare in due camere e cucina, che si possono realizzare con pochi soldi, e questo costituisce un limite anche per le storie».»

Di chi è la responsabilità, o comunque chi può fare qualcosa di determinante per risovere la situazione?

Roberto:
«I nomi veri e propri sarebbe interessante desumerli da un'accurata quanto implacabile inchiesta sulla storia politica, culturale, legislativa di chi ha detenuto, nei fatti, il Potere in questi ultimi trent'anni. Forse Petri o Pasolini, o il Francesco Rosi degli anni migliori riuscirebbero a darci, magari attraverso un film-inchiesta, una risposta ficcante. In fondo è sempre partendo dai nostri mali che il cinema italiano è riuscito a darci opere di grande livello. Inoltre, dovremmo stanare la nostra non perfetta buona fede, le nostre tendenze autoassolutorie, la nostra capacità, invero molto italiana, di perdere facilmente memoria del mondo in cui viviamo e in cui cerchiamo, violentemente, di affermarci. E poi la nostra vanità e incapacità di ascoltare e imparare da chi ci è vicino e magari soltanto come discepolo... Di una cosa sono piuttosto certo: non sarà certo il Potere, neanche quello da noi scelto dopo tante incertezze, che potrà risolvere questa "crisi". Solo la sincerità e l'ineluttabilità di una verifica, il più possibilmente CERTA, ci potrebbe portare a un "tabula rasa" da cui ricominciare».


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Voi avete un vostro film Ponte Milvio che sta uscendo nelle sale: com'è stato il rapporto con il Produttore? Vi ha ascoltato, ha partecipato, oppure ha gestito le pratiche burocratiche per il Fondo di Garanzia. Insomma è un burocrate o un appassionato di cinema?

Roberto:
«Sorvolerei amabilmente, da sempre siamo troppo esperti nell'arte del Lamento, ognuno di noi si prenda le sue responsabilità. Si fanno delle scelte, non possiamo pensare che poi non nascano delle conseguenze da tali scelte. Certamente in una eventuale prossima prova saremo tutti più attenti. L'esperienza dovrebbe servire a questo. Consiglierei, se non l'hai già fatto, di leggere l'articolo di Michele Serra su Repubblica(7/10/00). La vicenda Martone è maestra di vita anche per noi».

Il vostro film è costato 1 Miliardo. In Italia è un budget medio, è basso ma è nella media. Pensate che sia davvero possibile che un cinema così povero possa risorgere?

Roberto:
«No, tanto è vero che da poco i finanziamenti per le opere prime e seconde sono stati portati a due miliardi e mezzo, cifra che al netto di tutto corrisponderebbe a circa due miliardi. Per chi si intende di costi cinematografici, si può cominciare a lavorare con una certa tranquillità, prescindendo da voracità e incompetenze varie. Naturalmente la natura intrinseca del film è determinante. Noi nel nostro caso siamo stati poco fortunati perché il primo produttore che fece richiesta di finanziamento usò il fondo di garanzia che prevedeva anche finanziamenti più bassi. Il fondo fu accordato e noi abbiamo dovuto per forza utilizzarlo con quella dotazione, pena la perdita stessa del finanziamento. Erano passati circa cinque anni dalla richiesta, l'operazione rischiava di invecchiare senza rimedio. Abbiamo rischiato nell'accettare, i nostri compensi, per la mole di lavoro svolto, sono rimasti al di sotto di qualsiasi aspettativa, ma abbiamo accettato riservandoci una quota su eventuali vendite e incassi. Anche questo può essere un modo di mettersi veramente in gioco, evitando troppe garanzie personali con soldi pubblici. Insomma, vuoi fare un film? A te l'onere e l'onore... e al produttore, che in questo caso è più che altro un sensale... la percentuale».

Non sarebbe meglio rivoluzionare tutta la questione dei finanziamenti? Avete un'idea da suggerire?

Roberto:
«Credo stiano già facendo qualcosa riguardo il modo di far partecipare i produttori alle storie selezionate. Essi dovrebbero essere letteralmente costretti a partecipare attivamente alla realizzazione di un film, assumendo un ruolo maggiormente dialettico con chi se ne assume le responsabilità artistiche. Si deve dare al produttore una maggiore flessibilità in ambito amministrativo-fiscale (ad esempio maggior sburocratizzazione degli iter ministeriali e coinvolgimento più sentito degli Istituti bancari coinvolti i cui quadri sappiano che si stanno occupando di Cinema e non di mutui per case o automobili, disincentivazione fiscale senza mollare i controlli per chi ha magari voglia di fare il furbo con i soldi pubblici). Penso che su questo argomento qualche produttore illuminato potrebbe proporre ulteriori punti di discussione. E poi più chiare condizioni nell'ambito distributivo (i produttori debbono veramente possedere un contratto di distribuzione nel momento in cui gli si concede un finanziamento per il film e non contratti fantasma, senza i quali purtroppo a tutt'oggi, non si può accedere al finanziamento). Forse aumenterà la conflittualità tra regista e produttore, ma non è proprio in dette condizioni che il nostro cinema ha dato il meglio di sé? Meglio delle belle, sane litigate piuttosto che frustranti rapporti di falso interesse reciproco. Questi non servono che a peggiorare il gradiente energetico del film, a parte tutto l'unico vero oggetto del contendere. Naturalmente, tutto questo avrà poco senso fintantoché non si risolverà l'assetto dell'esercizio del nostro cinema. A che serve infatti fare un film, per di più finanziato dai soldi dello Stato, quindi di tutti, se non si può fare, di quest'opera, una sana, implacabile verifica? Meglio certo riservare tali somme alle vittime degli innumerevoli disastri di questo digraziato eppure fortunato Paese. Se ci deve, come ci deve essere Cultura di cui lo Stato si fa Garante, occorre che tutta la catena degli interventi sia presente ed efficace. Per cui, un sistema di SALE gestito professionalmente sotto l'egida dello Stato, per lo Stato. Altro che privatizzare, se dobbiamo mantenere soltanto carrozzoni assistenzialisti che non assicurano l'ultimo anello fondamentale, la VERIFICA, meglio abolire del tutto il finanziamento e tutto ciò che ne deriva, comprese le stesse strutture produttive e di formazione (Cinecittà, CSC, ecc)».

La gente non va nelle sale a vedere film italiani. Colpa solo dei distributori?

Roberto:
«Ascolterei altri punti di vista».
Gioia:
«Sicuramente no, ma è invevitabile che il distributore, come l'esercente, essendo dei commercianti, devono giustamente pensare al proprio guadagno, quindi perché dovrebbero fare uscire nelle sale un film Italiano che, non avendo alle spalle la potenza commerciale dei film americani, ha bisogno di tempo per farsi conoscere e gli tiene bloccata la sala senza incassare? Dal loro punto di vista questo ragionamento è più che giusto, ma allora che senso ha produrre dei film con finanziamenti statali se poi non c'è modo di distribuirli?»

Luca Dresda
(2.CONTINUA)

 


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