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Firenze, 9 Gennaio 2014

Scadente? Promosso.
Preparato? Bocciato.

Un articolo di Gian Antonio Stella (uno dei miei giornalisti prediletti) a pag. 37 del ‘Corriere’ di oggi, 8/1/14, riguardante i concorsi universitari mi ha da un lato trovato abbastanza concorde e da un altro mi ha dato l’impressione di essere stato, forse per la ristrettezza dello spazio a disposizione, abbastanza tirato via. E questo, vista la meritata fama dell’articolista, mi ha sorpreso spingendomi a qualche riflessione in merito.
L’articolo intitolato “Concorsi Universitari Bocciati i migliori” inizia: “Scadente. Quindi promosso. Preparato. Quindi bocciato.”.
Dopo alcune considerazioni circa la misteriosità dei giudizi dei commissari viene preso in considerazione il caso (evidentemente ben noto all’autore sempre ben informato) dei giudizi della commissione di ‘Lingua e letteratura latina’ (ma ritengo che lo stesso valga anche per le commissioni di tutte le altre discipline); e vengono riportati i giudizi di una commissaria relativi a due candidati, Tizio e Caio, di cui il primo, autore di oltre 100 pubblicazioni, libri ecc., viene ritenuto non idoneo mentre il secondo con sole 11 pubblicazioni viene ritenuto idoneo. L’articolo si conclude citando le valutazioni dell’ordinario di Filologia latina dell’Università di Perugia, che apparentemente ha comparato la produzione scientifica dei commissari con quella dei candidati di buon livello bocciati, concludendo amaramente che “i commissari sono peggiori dei candidati”.
Ora, senza tirare in ballo il solito detto per cui ‘tutti gli esami sono un terno al lotto’, vuoi per la variabilità dell’umore dei commissari vuoi per lo stress dei candidati, e senza voler difendere per forza la commissaria (la quale probabilmente prendeva in considerazione se non le parentele la ‘parte’ dei candidati) di cui all’articolo, si potrebbe per esempio far notare che, con tutta probabilità, 11 pubblicazioni di un Einstein possono benissimo ‘bruciare’ centinaia di pubblicazioni di un altro fisico anche di livello; inoltre, siccome specialmente nel campo scientifico assai spesso le pubblicazioni sono a più nomi (talvolta anche diecine) il loro numero non è poi così rilevante per un singolo candidato.
A mio modo di vedere è quindi assai discutibile il criterio di basare tutti i concorsi per professori (cioè insegnanti) principalmente sul numero e/o l’importanza delle pubblicazioni senza dare invece alcuna importanza all’abilità didattica dei candidati, ed è sempre stato così senza che qualcuno abbia mai pensato che il principale compito di un insegnante è quello di far ‘crescere’ gli allievi e, anche se deve fare della ricerca nel suo campo per tenersi aggiornato, non tanto quello di essere un bravo ricercatore.
C’è anche un’altra considerazione da fare: molto spesso chi si dedica con passione esclusivamente alla ricerca è portato a considerare ‘sprecato’ il tempo necessario alla preparazione ed all’aggiornamento delle lezioni, delle esercitazioni connesse ai corsi, agli esami ecc. e quindi tende istintivamente a limitarlo a favore di quello da dedicare alle ‘pubblicazioni’ e di conseguenza può risultare meno efficiente dal punto di vista strettamente didattico; ovviamente l’inverso vale per chi invece si dedica con maggiore serietà a quello che dovrebbe essere il proprio compito, cioè ‘tirare su’ gli allievi, a scapito del ‘numero’ delle pubblicazioni.
Inoltre c’è da dire che il riuscire bravi insegnanti (a qualsiasi livello a partire dalle scuole materne) è anche una questione strettamente personale del docente legata non tanto ad un’elevata competenza quanto all’abilità di mettersi in comunicazione con gli allievi riuscendo a farsi ‘ascoltare’, e questa dote purtroppo non è tanto comune.
Nel mio percorso di studi credo di essere stato particolarmente fortunato riguardo agli insegnanti nei quali mi sono imbattuto a partire dall’anziana maestra che, nel giro di meno di un anno quando ne avevo cinque, con un numero limitato di ore di lezione nel periodo primaverile-estivo mi mise in condizione di affrontare con successo da privatista l’esame di ammissione alla terza elementare; e devo dire che le poche delusioni, come insegnanti, le ho incontrate salendo nelle scuole secondarie superiori e poi all’università: ho avuto come docenti universitari alcuni grandissimi ricercatori capi di scuole prestigiose che facevano lezioni incomprensibili, ed altri, magari dotati di grande parlantina e quindi buoni comunicatori (come Berlusconi e Renzi), che facevano lezioni piacevolissime ma spesso di scarso contenuto, altri ancora assolutamente incapaci di ‘sbriciolare’ per noi allievi le loro profonde conoscenze. E quindi fin dalla fine del percorso universitario ho cominciato a pensare che forse, prima di affidare una classe o un corso ad una persona bisognerebbe accertarne le qualità didattiche la cui valutazione, però, se forse è ancora abbastanza possibile con accertamenti sulla ‘resa’ nelle scuole secondarie, diventa assai più aleatoria all’università specialmente se non si tiene conto nei concorsi del passato didattico che, a quel livello, hanno quasi tutti i candidati. Ma forse, prima di confermare un docente, potrebbe essere anche utile, specialmente a partire dalle ultime classi delle scuole secondarie superiori, trovare il modo di ascoltare la ‘voce’ degli studenti e soprattutto tenerne debito conto. E soprattutto all’università (come ritengo dovrebbe accadere anche nella magistratura) bisognerebbe separare le carriere dei ricercatori e dei docenti legandone i progressi anche economici alla ‘resa’ e non all’anzianità (al solito l’odiata meritocrazia). Solo che questa proposta ha un certo difetto perché la ricerca, andando, se di un certo livello, a scavare nell’ignoto, risulta forse più appassionante e soprattutto, anche se poi necessita per svilupparsi della collaborazione di più persone, foriera di maggiori soddisfazioni a livello strettamente personale perché le buone idee iniziali sono sempre frutto di un solo cervello; e questo potrebbe, specialmente nei più giovani, far mettere in secondo piano le soddisfazioni pur grandi che può dare un insegnamento fatto con passione.
Ma soprattutto, per il bene del paese, chiunque in questo momento di cambiamenti si appresti a dirigerlo ricordi che l’avvenire di una nazione è principalmente nelle mani della sua scuola e quindi veda, contrariamente a quanto fatto da diverso tempo fin qui, di finanziarla e di dare ai docenti (ed ai ricercatori) stipendi confrontabili con quelli delle altre nazioni europee e degni di chi, magari anche a costo di qualche scrificio personale, si dedica con passione e competenza al proprio impegnativo lavoro.
Ce n’è estremo bisogno.

Attilio Taglia


L’aggettivo sciabordito è del vernacolo senese e, secondo me, non trova un esatto equivalente italiano. Non l’ho trovato nel Devoto-Oli e non credo sia nemmeno in altri vocabolari. Forse il suo equivalente inglese è “absent minded”.
Io sono vecchio, allo scoppio della seconda guerra mondiale, nel ’39, avevo sei anni. Quindi alla connata sciaborditaggine si è aggiunto il normale deterioramento dovuto all’età. Perciò quello che dico va preso con le molle. Non ho nessuna intenzione di raccontare la mia vita peraltro piuttosto uniforme e quindi di poco interesse. Ma, scorrendo negli anni e venendo fino ad oggi ed andando anche oltre con l’immaginazione, alcune cose mi hanno colpito; su queste mi sono soffermato ed ho creduto di ragionare. Ed è quanto cercherò di raccontare saltando di palo in frasca e da un tempo all’altro a seconda di come la memoria me lo ripresenta o come qualche richiamo me lo fa tornare in mente.









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