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L’aggettivo sciabordito è del vernacolo senese e, secondo me, non trova un esatto equivalente italiano. Non l’ho trovato nel Devoto-Oli e non credo sia nemmeno in altri vocabolari. Forse il suo equivalente inglese è “absent minded”.
Io sono vecchio, allo scoppio della seconda guerra mondiale, nel ’39, avevo sei anni. Quindi alla connata sciaborditaggine si è aggiunto il normale deterioramento dovuto all’età. Perciò quello che dico va preso con le molle. Non ho nessuna intenzione di raccontare la mia vita peraltro piuttosto uniforme e quindi di poco interesse. Ma, scorrendo negli anni e venendo fino ad oggi ed andando anche oltre con l’immaginazione, alcune cose mi hanno colpito; su queste mi sono soffermato ed ho creduto di ragionare. Ed è quanto cercherò di raccontare saltando di palo in frasca e da un tempo all’altro a seconda di come la memoria me lo ripresenta o come qualche richiamo me lo fa tornare in mente.


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Firenze, 24 Febbraio 2013


Quando andavo a caccia...

Visto che ho rinviato almeno fino a martedì prossimo qualsiasi commento di natura politica, oggi, tanto per ingannare un po’ del mio tempo da pensionato, vi racconterò qualcosa di me riprendendo a parlare delle mie principali passioni (la caccia e la fotografia). Proseguendo sull’argomento venatorio già iniziato tempo fa (riflessione 24) esporrò come riuscii ad inimicarmi, solo in senso venatorio ovviamente, quasi tutti gli amici di mio padre, magari anche proprietari di riserve di caccia (che allora esistevano) che erano, o erano reputati, ottimi tiratori. Questi, nel periodo ottobre-novembre quasi di ogni anno, organizzavano nelle loro proprietà vere e proprie battute di caccia, specialmente ai fagiani, il cui bottino, opportunamente ceduto a vari ristoranti, serviva anche ad alleviare le spese di mantenimento delle riserve (guardiacaccia, lanci di selvaggina ecc.).
Io venivo invitato abbastanza spesso perché, come il più giovane dei fucili nonché buon camminatore e discreto tiratore, potevo essere utilizzato sia come fucile insieme ai battitori (per sparare alla selvaggina che non si dirigeva verso le poste dove erano schierati i tiratori) o nelle poste di minore importanza (quelle non riservate agli ottimi tiratori di cui sopra nonché agli amici più anziani di me).
Qui devo fare un passo indietro e descrivere come imparai a sparare con ottimi risultati a prede ritenute dai più come fuori tiro. Il tutto cominciò quando, camminando per le antiche strade della città dove vivevo, vedevo volare i piccioni all’altezza delle grondaie dei palazzi e, paragonandoli a colombacci, consideravo che fossero troppo lontani per essere eventualmente abbattuti a fucilate; un bel giorno però mi venne in mente di valutare l’altezza dei palazzi (solitamente di tre o al massimo quattro piani) e, tenuto conto che l’altezza delle stanze di quegli edifici era generalmente di quattro metri ed aggiungendo a questi un metro ogni piano per pavimenti e soffitti, le grondaie dovevano trovarsi al massimo sui venti metri. Diciamo venticinque per esagerare e quindi una preda a quella distanza era perfettamente a tiro ed il fatto che sparando non venisse colpita era solo frutto di una ingloriosa ‘padella’.
Forte di questa considerazione, ed aiutato da un ottimo fucile dono di mio padre, cominciai ad allenarmi sparando a prede in movimento ritenute irraggiungibili e, dopo qualche tempo, avevo imparato a valutare correttamente gli ‘anticipi’, cioè quanto uno deve sparare davanti ad un bersaglio in movimento per colpirlo. Una delle prime prede di relativa importanza vittima di tale allenamento fu una tordela che riteneva di passarmi impunemente sulla testa a circa quaranta metri di distanza (le tordele sono volatili estremamente sospettosi e, se decidono di passarti sulla testa vuol dire che si sentono perfettamente al sicuro).
Un altra importante conferma della bontà del mio ragionamento la ebbi quando, durante una vacanza di Natale, fui invitato da un mio amico fraterno a trascorrere alcuni giorni ad Assisi, ospite nell’albergo di un suo zio, portandomi fucile e cartucce perché alla sera, prima del tramonto, tordi e fringuelli risalivano dalla valle ed i cacciatori locali si appostavano lungo un viottolo che saliva verso il Subasio per rimediare qualche arrostino.
Così anche il mio amico ed io risalimmo parte del viottolo fino a trovare posto in una lunga sequela di cacciatori a circa trenta metri l’uno dall’altro: era una bellissima giornata con aria di tramontana ed i volatili passavano piuttosto alti tanto che diversi cacciatori delusi cominciavano a rientrare verso il paese; ma alcuni, in silenzio, si soffermarono a guardare l’unica persona che li ‘buttava giù’ abbastanza regolarmente.
E finalmente uno si fece coraggio e mi fece: «Dove le compra le cartucce?» «Me le faccio da solo» risposi.
«Me ne regala due?»
«Volentieri».
Risalì ad una trentina di metri da me e sparò ad un tordo, secondo me neanche tanto alto, ma senza risultato. Per concludere gli unici a mangiare un ottimo arrostino di uccelletti il giorno dopo, e suscitando l’invidia degli altri commensali dell’ottimo ristorante dell’albergo, fummo il mio amico ed io. Ma fu proprio questa mia acquisita abilità ad inimicarmi gli ottimi tiratori menzionati all’inizio. Infatti, proprio per il saper colpire lontano, cominciai, anche involontariamente ma, onestamente, qualche volta no, a fare loro una sequela di ‘cappelli’, cioè ad uccidere prede precedentemente da loro ‘padellate’.
Ora naturalmente queste non sono offese da lavarsi col sangue ma hanno il difetto di sottolineare la fallibiltà di tiratori ritenuti, e soprattutto ritenutisi, pressoché infallibili e, comprensibilmente, generano un leggero risentimento. Devo però anche ammettere di aver avuto spesso anche buone dosi di fortuna come quando mi è capitato, nei boschi folti, di sparare con successo al rumore del volo di fagiani poi regolarmente riportati dal mio abilissimo cane.
A quei tempi ero molto giovane (ancora studente o laureato da poco) ed avevo ancora addosso una buona dose di spirito goliardico; ed è stato forse artefice della mia fortuna di tiratore il ben noto scongiuro degli studenti: “Terque quaterque testiculis tactis, pilo maiore e silva tracto, dito minore in ano ficto, advocato sancto patrono, iactura fugata est” che avevo sempre in mente all’inizio delle mie ‘imprese’ venatorie.
Ed è lo stesso scongiuro che, per il bene dell’Italia, consiglio a quanti domani andranno a votare per il nuovo parlamento.
Ahimé, sono scivolato nuovamente nella politica.

Attilio Taglia










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