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L’aggettivo sciabordito è del vernacolo senese e, secondo me, non trova un esatto equivalente italiano. Non l’ho trovato nel Devoto-Oli e non credo sia nemmeno in altri vocabolari. Forse il suo equivalente inglese è “absent minded”.
Io sono vecchio, allo scoppio della seconda guerra mondiale, nel ’39, avevo sei anni. Quindi alla connata sciaborditaggine si è aggiunto il normale deterioramento dovuto all’età. Perciò quello che dico va preso con le molle. Non ho nessuna intenzione di raccontare la mia vita peraltro piuttosto uniforme e quindi di poco interesse. Ma, scorrendo negli anni e venendo fino ad oggi ed andando anche oltre con l’immaginazione, alcune cose mi hanno colpito; su queste mi sono soffermato ed ho creduto di ragionare. Ed è quanto cercherò di raccontare saltando di palo in frasca e da un tempo all’altro a seconda di come la memoria me lo ripresenta o come qualche richiamo me lo fa tornare in mente.


n. 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - 9 - 10 - 11 - 12 - 13 - 14 - 15 - 16 - 17 - 18 - 19 - 20 - 21 - 22 - 23 - 24 - Firenze, 2 Luglio 2012

A tempi della caccia
e del mio Setter Gordon...

  Io sono stato piuttosto fortunato: ho avuto ottimi maestri, sia nella scuola che per quello che riguarda i miei hobbies. In realtà non dovrei parlare di passatempi, anche se preferiti, ma di vere passioni.
Sto parlando della caccia, di cui ho già dato degli accenni in note precedenti.
Devo dire come prima cosa che sono nato in mezzo ai fucili ed alle cartucce, infatti sia mio padre che i suoi tre fratelli erano appassionati cacciatori ed ottimi tiratori (e, per giunta, mia madre era una eccezionale cucinatrice di cacciagione oltre che di tutto il resto) cosicchè uno dei miei zii, ritenuto a ragione il miglior tiratore del gruppo, quando avevo quattro anni, mi mise in mano la sua doppietta, forse con una cartuccia “ addomesticata” per evitare un forte rinculo, e mi fece sparare la mia prima vera fucilata ad un giornale aperto.
Un altro zio, il più giovane, “ragazzo del ‘99” e poi grande invalido di guerra, mi aveva invece insegnato, una diecina d’anni più tardi, a tirare al volo facendomi uccidere un povero tordo che seguitava a girarci intorno mentre lui mi diceva come dovevo fare.
Un vecchio cacciatore che era con noi, considerando il tempo che il povero animale mi aveva concesso concluse: “Malidetto dalla su’ mamma”.
Del terzo zio ho un ricordo molto vago, mi sembra di averlo visto solo una volta quando morì mio nonno nel ’37 o nel ’38; anche lui era talmente appassionato che, avendo lasciato l’occhio destro al fronte, aveva trovato il modo di farsi deviare il fucile in modo da mirare con l’occhio sinistro; era militare di carriera e morì piuttosto giovane in Africa durante la missione guidata dal Duca d’Aosta.
Mio padre, infine, oltre ad insegnarmi tutto quello che era necessario per la preparazione delle cartucce, mi aveva perfettamente istruito su quanto potevo aspettarmi circa il volo ed i comportamenti dei vari animali. Insomma, alla fine di questo ciclo teorico-pratico di circa una ventina d’anni, potevo cominciare a ritenermi un discreto cacciatore che sparava abbastanza dritto.
Quella per la caccia è stata una passione che mi ha dato moltissimo: oltre al fatto venatorio in sé e per sé; mi ha fatto conoscere ed amare senza riserve la campagna con i suoi due principali esseri viventi: i campi ed i boschi, i primi più soggetti a variazioni per le colture, i secondi più statici ma solo apparentemente immoti. Questi ultimi, a mio modo di vedere, andrebbero, oltre che iperprotetti, addirittura venerati come forse il più grande dono che la natura ci abbia fatto.
Ma, tornando alla mia istruzione, devo ammettere di aver avuto un grande aiuto anche dal mio cane: lui faceva istintivamente il suo dovere ed io l’osservavo, direi quasi che lo studiavo e così era andata a finire che ci intendevamo perfettamente: sapevo che animale aveva davanti da come si muoveva e da come agitava la coda prima di fermarsi statuario in attesa del mio comando di far partire la possibile preda perchè ero pronto.
Era un Setter Gordon che un amico di mio padre ci aveva regalato sia perchè troppo rapido per la caccia alla beccaccia sua preda prediletta, ma soprattutto perché sembrava affetto da un’otite inguaribile che gli impediva di scuotere la testa. Con santa pazienza due volte al giorno gli facevo appoggiare la testa sulle mie ginocchia e gli ripulivo le orecchie dal pus a forza di cotone ed acqua ossigenata aspergendole poi di polvere di streptosil-penicillina.
Lui guaiva ma stava fermo e mi lasciava fare.
Quasi incredibilmente, nel giro di un mesetto, le orecchie erano tornate normali e credo che questo sia stato il cemento della nostra amicizia durata fino alla sua morte avvenuta mentre io ero all’università.
Quando, tornando a casa un sabato notte, non sentii che mi salutava battendo la coda nella sua cuccia di legno mi resi improvvisamente conto di quanto fosse stato importante per me e di quanto mi volesse bene, infatti a me perdonava le immancabili “padelle”, da bravo inglese, faceva finta di niente e seguitava il suo lavoro, ma agli altri no: mi si metteva dietro al passo per riprendere dopo qualche tempo a cacciare ma solamente davanti a me.
Forse un giorno scriverò un racconto con le gesta del mio cane.
Già, perché il mio zio più giovane, quello del tordo, mi aveva anche “istigato a delinquere” in un altro senso: sapendo che avevo fantasia e scrivevo abbastanza bene mi indusse a preparare qualche racconto di caccia da sottoporre al periodico venatorio per il quale anche lui scriveva. Io ci provai e, con mia sorpresa, tre o quattro dei miei scritti furono pubblicati.
Ho una fotocopia solo dell’ultimo che mio cugino mi inviò insieme a quelle degli scritti di suo padre, ma ricordo che uno dei miei racconti riguardava la vita di una starna (allora c’erano) la cui anima, quando venne uccisa, salì nel paradiso dei cacciatori dove seguitò a fare il suo mestiere di starna facendo impazzire le anime dei cani e fingendo di cadere colpita dalle finte fucilate delle anime dei cacciatori.
Questa attività di “scrittore” mi tornò poi utilissima in prima liceo scientifico, infatti quando il temutissimo e severissimo professore d’italiano, per tastare il polso alla classe, dette all’inizio dell’anno un tema di fantasia, io, informato dalla mia sorella maggiore (anche lei cacciatrice come pure l’altra sorella) che lo aveva avuto al classico che il professore era cacciatore, buttai giù un raccontino venatorio che mi fece campare di rendita per tutto l’anno.
Può darsi che mi rimetta anche a scrivere racconti, in questo caso ne vedrete comparire qualcuno qui.

Attilio Taglia










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