La prima donna avvocato del nostro paese
avrebbe dovuto chiamarsi Paola o, in alternativa, Teresa: si tratta delle due
prime donne italiane che, oltre ad essersi laureate in giurisprudenza,
sostennero con successo l’esame di procuratore legale, preparandosi ad
esercitare la professione. Ma dobbiamo dire subito che, per una serie di motivi
incredibili ai nostri occhi, queste due donne, pur preparatissime ed agguerrite,
non poterono metter piede in un tribunale.
Lidia Poët,
una ragazza nativa di Pinerolo, aveva ventisei anni quando nel 1881 prese la laurea in legge: dopo due anni di pratica forense,
superato l’esame di procuratore legale, chiese l’iscrizione all’Albo degli
Avvocati…e la ottenne (1883). Le femministe italiane insieme agli uomini di
mentalità più aperta, già esultavano... Ma la grande maggioranza della
magistratura gridò allo scandalo cosicché si trovò subito un Pubblico Ministero
che impugnò il provvedimento. E il tribunale in tutti i suoi gradi – appello,
cassazione- annullò l’iscrizione della pur bravissima e tenace Lidia.
Le motivazioni fanno cadere le braccia. La prima era di ordine
diciamo così fisiologico: la Poët era giovane e il suo ciclo mestruale mensile le avrebbe impedito di esercitare la professione nei giorni fatidici dato che (udite, udite!) durante il ciclo una donna non ragiona in maniera equilibrata. A questo concetto mezzo superstizioso e mezzo stregonesco si sommava quello giuridico: una donna dell’epoca non era un soggetto di pieno diritto e quindi non poteva assistere legalmente nessuno, meno che mai un uomo. Ed era purtroppo vero: le donne specie se sposate erano persone giuridiche di seconda classe. Vigeva infatti il principio della “autorizzazione maritale“ (stabilito nel 1865) che rendeva le mogli delle eterne bambine, costrette a seguire il marito in tutti i suoi spostamenti e a chiedergli il permesso per qualunque transazione finanziaria, anche relativa a beni propri: si arrivava al punto che anche la separazione legale poteva essere chiesta solo se il marito vi acconsentiva!
Ci riprovò, parecchi anni dopo, Teresa Labriola, figlia del
filosofo Antonio, femminista e suffragista: dopo la laurea in legge aveva
conseguito la libera docenza in filosofia del diritto (1901) e finalmente nel
1912, trentasettenne, potè iscriversi all’Albo degli Avvocati. Stavolta nessuno
osò rispolverare la faccenda del ciclo mestruale ma le cose non le andarono
meglio che alla Poët. Di fatto le fu impedito di esercitare la professione
mediante la seconda parte del cavillo usato contro Lidia: un uomo non poteva
essere difeso da una persona che non aveva pari diritti. Per fortuna nel 1919 lo
stato ancora liberale varò quella che fu la sua legge più avanzata a favore
delle donne, abolendo l’autorizzazione maritale e permettendo loro anche
l’ingresso nei pubblici uffici: e si andò vicinissimi mancandola per poco, alla
concessione del suffragio femminile. Tempo un anno e la battagliera Lidia Poët, ormai sessantacinquenne, si iscriveva finalmente all’Albo, arrivando a costruirsi una carriera che le diede molta soddisfazione. La Labriola no:
l’avvocatura non le interessava più. Era diventata un’apprezzata saggista e
presto ci fu la svolta della sua vita: divenne fascista e si impegnò per quello
che chiamava il femminismo di destra.
Maria Santini Qualche commento? Inseriscilo tu stesso su The Web Park Speaker's Corner Vuoi contattare Maria Santini? Clicca qui
Maria Santini è nata a Torino ma vive a Roma da molti anni. Autrice di numerose pubblicazioni a carattere storico e fantastico, si è occupata di narrativa per la scuola rivisitando, in uno stile avvincente e personalissimo, i luoghi della memoria. L'insaziabile curiosità intellettuale è un dato caratteristico di questa scrittrice che offre al lettore una qualità di scrittura e una capacità narrativa assai rare. Ha pubblicato in volume da <b>Simonelli Editore: Matilde di Canossa, Liszt. In edizione elettronica, SeBook
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