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ARTE
- Personaggi da ricordare  
di Mario Pancera
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DOMENICO CANTATORE
E LE TARME DI HAYEZ

Alla fine di maggio, a Parigi dove andava sempre in vacanza con la moglie,è morto Domenico Cantatore: aveva 92 anni, e nessuno si aspettava che se ne andasse così, d'improvviso. Aveva alcuni bypass nel cuore, ma era sempre vispo.
L'avevo intervistato l'ultima volta per i suoi novant'anni, nella casa milanese dove abitava da tempo immemorabile e ancora mi aveva parlato della sua infanzia a Ruvo di Puglia, dov'era nato (ottavo e ultimo figlio di una famiglia povera) nel 1908. Aveva ottima memoria; di tanto in tanto tornava in studio a dipingere, ascoltando musica classica. Da ragazzo aveva fatto il "pittore di stanze", cioè l'imbianchino, e ne aveva tratto sapidi ricordi: scriveva bene. Autodidatta, a Milano per fare il pittore, si era occupato anche di critica d'arte.
Ma Parigi era nei suoi sogni: vi giunse la prima volta a 25 anni e vi fece la fame. Lo scrittore Carlo Levi gli aveva consigliato un alberghetto a buon prezzo, ma era pieno di cimici e il giovanotto finì in un ospizio per chi non aveva niente da spendere. Una sera fu invitato a cena da Filippo de Pisis, che era matto e preparava gli spaghetti nel bidet: Cantatore, affamato, disse che non aveva fame.Cercava di imparare il francese, ma quando incontrò Matisse a una mostra non seppe dirgli altro che "Pardon", l'unica parola che, col suo accento, gli veniva bene. Matisse è stato uno dei suoi maestri ideali. Direi che ha messo perfino i colori di Matisse in molti quadri d'ambiente meridionale.
La sua cupa vecchia tavolozza, legata a temi di terra e di campagna, a folclore e dolore, a contadini e a donne in nero, si smaterializzò diventando più aperta e radiosa sotto l'influenza di Matisse.
A Milano, nei primi mesi disegnò abiti per una sartoria. Il giro delle sue conoscenze si allargò rapidamente, ma, benché sembri strano, a suo modo fu sempre un solitario. Pur avendo trascorso due anni nella bohème artistica internazionale di Parigi e vivendo poi nella città del Futurismo, di Novecento e di altri rivolgimenti artistici e politici da Corrente al Neorealismo, non si è mai legato a movimenti o gruppi ideologici. E' sempre stato figurativo: Masaccio, Rembrandt, Goya erano tra i suoi pittori prediletti.
Fu professore all'Accademia di Brera, nominatovi al tempo del fascismo per chiara fama.«E pensare» diceva, «che non ho mai avuto nemmeno la tessera del fascio». Insegnava nello studio che prima di lui era stato di Aldo Carpi (il quale, invece, essendo ebreo, finì in un lager tedesco) e, prima ancora, di Francesco Hayez. Dietro una porta sigillata, c'era uno stanzino con la vestaglia, la papalina e il bastone del pittore morto nel 1882. Erano lì da un secolo: «Qui il tempo non passa né per l'arte né per la burocrazia. Se le tarme sopravvivono all'odore delle vernici, chissà quante ce ne sono».
Ai suoi allievi diceva di approfondire quello che è o può essere il mestiere di pittore: «Fare il pittore è anzitutto un mestiere. Van Gogh a volte si è limitato a dipingere girasoli, eppure ne ha fatto capolavori. L'importante è essere preparati e agguerriti se si vuole essere in grado di esprimere ciò che si vede e si sente». A 80 anni mi disse: «Sono come Chagall, un ragazzo di una certa età». Portava un bypass arterio-femorale, guidava l'automobile per le frenetiche vie di Milano e lavorava ancora a quadri di grandi dimensioni nel suo studio nel cosiddetto quartiere cinese. Tra i suoi amici più intimi ricordo Salvatore Quasimodo, Alfonso Gatto, Leonardo Sinisgalli, Raffaele Carrieri, cioè quattro poeti, dei quali uno, Quasimodo, nel 1959 sarebbe diventato premio Nobel. Il gruppetto, e che gruppetto!, si ritrovava al Caffè Savini, dove si incontravano anche vari personaggi e collezionisti, da Eugenio Luraghi ad Alberto Mondadori. Poiché Gatto era quasi in miseria inventarono un premio di poesia «e lo demmo a lui, che non aveva nemmeno una casa e doveva mantenere la moglie e una bambina». Il poeta spese tutta la somma nell'affitto di un appartamento di lusso senza pensare al resto: «Quando ci invitò a festeggiare restammo esterrefatti: era deserto, c'erano solo due brande e una lampadina che illuminava una sala vuota.» In cucina solo le uova per una frittata. Altri tempi.

 


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