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ARTE
- Personaggi da ricordare  
di Mario Pancera
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MARINO MARINI
ETRUSCO BIZZARRO E SENZA AMICI

Bell'uomo, robusto, alto, capelli bianchi, un po' ondulati, volto roseo, un sorriso tra l'ironico e il bonario, discendenza borghese, toscana (e anzi, tutti gli dicono etrusca, perché lui in fondo ci tiene), amante della bicicletta e del calcio (usa la tv solo per vedere le partite), metodico seppur con orari inconsueti, e perennemente in fuga: questo era l'uomo Marino Marini, uno dei più grandi scultori del mondo, sui 70 anni, quando l'ho incontrato la prima volta.
Nato a Pistoia nel 1901, è morto a Viareggio, dopo lunga malattia, nel 1980. Marini è l'autore di celebri nudi femminili, corposi, giganteschi, immensi: tali sembrano, per la loro forza, le Pomone modellate e consegnate alla storia negli anni Trenta e Quaranta, insieme con i celebri Cavalli e Cavalieri, i Guerrieri, i successivi Miracoli e i ritratti, i dipinti, le incisioni. Dopo l'intervista mi disse: «Non pubblichi nulla. Scriva soltanto: "Marini è un uomo bizzarro". E basta. Così non si offende nessuno, ah, ah, lo sanno che sono bizzarro. Se qualcuno chiede di me: perché Marini qui, perché Marini là, come mai non ha voluto eccetera, dica che sono andato in Australia».
Era un po' snob, anche poco cortese, ma tutto sommato sincero. Viveva con la moglie, svizzera, a Milano in un appartamento di semplice eleganza, pochi mobili, pareti chiare; lo studio era nel garage. I suoi itinerari abituali lo portavano in Svizzera, a Forte dei Marmi, dove aveva una villa accanto a quella dello scultore inglese Henry Moore, e a Parigi, dove aveva uno dei suoi stampatori. Affermava: «Amo la gente, mi studio di conoscerla, di capirne i tipi e i caratteri. tuttavia sono un solitario, faccio parte per me stesso. Non ho veri amici e non ne ho mai avuti».
Infatti, non era un uomo facile: «Sono un po' chiuso, sto bene da solo» ma sapeva prendere ogni cosa con spirito. L'Italia ufficiale non gli concesse eccezionali soddisfazioni. A parte i premi, e l'antologica tenutasi a Roma, nel 1966, i riconoscimenti sono stati poco più che superficiali e tardivi. Non c'è critico che non lamenti la mancanza di un monumento firmato da lui nelle piazze d'Italia. Alla Biennale di Venezia 1952, il Comune di Milano acquistò un Cavaliere, ma non lo pagò (sindaco socialista, vicesindaco democristiano), adesso l'opera è in America. Di nome si chiamava Torello, sua moglie Mercedes, però erano per tutti Marino e Marina. Lo descrivevano ricchissimo e avaro. Certamente era sobrio (era figlio e nipote di bancari) e non sprecone.
Dopo aver studiato a Firenze col pittore Domenico Trentacoste, nel 1929 fu chiamato da Arturo Martini a insegnare all'Istituto d'arte di Monza: «A Firenze mi sentivo in trappola, come chiuso in un museo. Davanti a Brunelleschi, Donatello, Michelangelo, intuivo che bisognava scappare. Io, disgraziato, che faccio?, mi dicevo davanti a Palazzo Strozzi». Fra il 1930 e il 1940 viaggiò ovunque. Nel 1938 passò a Brera, ma insegnare era per lui una tortura. Ne scappava il più possibile. Durante la guerra visse in Svizzera, dove conobbe Giacometti e Wotruba, e mise queste esperienze nel suo bagaglio accanto a quelle degli anni parigini con gli incontri di Kandinsky, Tanguy, Picasso, Braque, Campigli, Magnelli, De Chirico e De Pisis: tanti frammenti di vita che gli servivano per completarsi e tentare d'estinguere il suo furore. Così nascevano le Pomone che "si muovono pur stando ferme", le dee italiche con le quali rompeva i canoni della bellezza classica, i Cavalieri sui loro cavalli drammatici nella loro rigidità e a volte con il pene ritto e immenso come quello davanti a Palazzo Venier dei Leoni, la casa della Guggenheim, a Venezia, e tutte le figure falsamente pacioccone che, per il vero, ti lasciano dentro la percezione dell'insicurezza umana. In una parola, ti spingono a correre, a fuggire. Infatti, dopo le grandi immagini tutte rotondità ecco arrivare quelle magre, scavate, esistenziali: i budda e i loro cavalli perdono il senso orientale del fatalismo, dell'ineluttabilità, dell'accettazione, e diventano angoscianti, anzi, angoscia essi stessi.
La minuziosa ricerca psicologica che Marino affronta nei ritratti rifiutava di raffigurare chi non conosceva) si riversa nei Cavalli, nei Miracoli, negli Acrobati. E tutto quello che pareva greco, etrusco, mediterraneo oppure cinese oppure chi sa che altro ancora, s'intuisce che non era né greco, né cinese, né mediterraneo: era di Marino, il fuggiasco, l'uomo che sembra una cosa diversa da quello che è, il fuggitivo, consapevole viaggiatore alla ricerca dell'uomo e di se stesso. Si guardino i ritratti di Chagall, di Strawinsky, di Jean Arp, di Miller, di Moore: sono infatti Chagall, Strawinsky, Miller e Moore. Ma sono soprattutto Marino e poi Marino e ancora Marino.
«Per me, il ritratto è il modo più diretto per entrare nel mondo dell'umanità. Il nostro secolo, ne sono convinto, è rappresentato e descritto storicamente sul volto degli uomini". C'è da mordersi le dita se si pensa che nel 1935 Marino ottenne il Gran premio per la scultura alla Quadriennale di Roma e vendette una sola piccola opera. Nel 1950, espose per la prima volta negli Stati Uniti. E fu il trionfo. Proprio gli americani, ai quali raramente si concede un retroterra culturale degno della vecchia Europa, capirono i valori di Marino cioè di colui che chiuso in Italia, sarebbe finito a fare il custode da museo, quattro chiacchiere al caffè degli artisti, e un po' di rincorse qua e là per mantenere le cosiddette amicizie che contano. Credeva nel futuro, nell'eterno: «Vedremo, vedremo» diceva. Abbiamo tanto tempo davanti a noi.

 


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