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ARTE
- Personaggi da ricordare  
di Mario Pancera
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GIUSEPPE MIGNECO:
ARTE E DEPRESSIONE

Ho sempre incontrato Giuseppe Migneco con il berretto in testa e un maglione alla dolce vita, bianco o decisamente nero. A volte, in anni molto grigi, si divertiva a fare il dandy e si presentava al milanese bar Giamaica, luogo di concentrazione di pittori, scrittori e giornalisti, con maglioni gialli e scarpe rosse. Un giorno arrivò, lui semicalvo, con un parrucchino e, di fronte ai visi incerti, ruppe l'imbarazzo e disse: "Sì, ho il parrucchino", se lo tolse e se lo rimise.
I suoi quadri, dai colori drammatici, solari o terrosi, quadri di contadini, di pescatori, di donne e di ragazzi del Sud, di spannocchiatrici o raccoglitori di olive, sono dipinti con pennellate dure al punto da sembrare incisi sulla tela, con un vigore che appare in lui nonostante la piccola statura e il carattere fondamentalmente timido. Era un uomo vitalissimo, ma di esigenze modeste. Da giovane, per vivere, faceva il comico e il ballerino nel varietà (era amico di Fellini) e divideva un panino con la ragazza che poi sarebbe diventata sua moglie. Andavano a mangiarlo ai giardini pubblici, su una panchina vicina allo zoo. Quando vendeva un quadro comprava subito carne e vino: "La fame", diceva, "è una pietra di paragone: chi la sopporta è perché ha qualche cosa da dire, chi non la sopporta deve cambiare mestiere". A Milano, i siciliani erano numerosi, c'era il poeta Quasimodo, che poi avrebbe ottenuto il Nobel, suo cognato lo scrittore Elio Vittorini, c'erano gli scultori Messina e Cappello, arrivò anche Guttuso (col quale Migneco, però, non andava d'accordo: due caratteri assai diversi).
Nato in Sicilia nel 1903, arrivò a Milano nel 1931 per studiare medicina, invece si diede alla pittura. A causa di un documento macchiato, risultò sempre nato nel 1908 (anche sulle enciclopedie): solo quando è morto, nel 1997, si scoprì che si nascondeva l'età. Partecipò al movimento di "Corrente", con Treccani, Guttuso, Sassu, Birolli e altri. Benché laico, si confrontò su temi religiosi. Nel 1958, alla Biennale di Venezia, il patriarca Roncalli, poi papa Giovanni XXIII, vide una sua "Crocifissione" e si fermò a parlare con lui tanto che il suo seguito si stancò e li lasciò soli. Era già uomo maturo e pittore famoso quando dettò questa epigrafe: "Qui riposa un tizio che per troppo tempo interrogò se stesso, tanto che non gliene restò abbastanza per rispondersi".
Forse per cercare di rispondersi negli anni Settanta, in seguito a un intervento chirurgico, Migneco cambiò d'umore, abbandonò lo studio, smise perfino di uscire. Temeva d'essere vicino alla fine. La sua risposta fu una lenta, inesorabile chiusura. Si ritirò in se stesso. Fu a lungo incapace di dipingere. Pensava di dipingere il già dipinto. Più tardi mi spiegò: "Mi pareva di copiare me stesso". Quando riemerse, nel 1982, il suo realismo, fatto di segni e di colori forti e vivi, apparve aspro e in viola. Tutto stava tra il viola, il nero e il verdastro, con figure contorte e rattrappite, senza ombre o con ombre impossibili, come un sogno malvagio, una serie di incubi e ossessioni. La paura scaturiva dai suoi quadri. Fuori della galleria era maggio, dentro sembrava gennaio. Veniva voglia di scappare. Gli stessi titoli, "Ultimo saluto", "Grande tunnel", "La stanza vuota", "Gli ospiti non arrivano più", non incoraggiavano certo i collezionisti, con dispiacere del mercante Alfredo Paglione e del critico Vittorio Fagone che lo aveva presentato. Angosciato scappai anch'io. Sbagliavo, perché Migneco aveva voluto dire proprio quello che ci inquietava: ci parlava dell'inverno dell'uomo. C'era da meditare, era la condizione di molti. Non ebbe paura, invece, un ladro che si impadronì di un piccolo drammatico autoritratto. Mai più visto. Un estimatore senza problemi psicologici.


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Giacomo Manzł, Agenore Fabbri, Luciano Minguzzi, Carmelo Cappello, Pericle Fazzini, Emilio Greco
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