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ARTE
- Personaggi da ricordare  
di Mario Pancera
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FAUSTO PIRANDELLO:
TRA UN NOBEL E LA DEPRESSIONE

Fausto Pirandello (1899- 1975) fu uomo e artista di angoscia e di drammi, spirito in ricerca di speranze fu spesso preda di delusioni, inquieto e depresso cercò nella vita grandi aperture e dovette accontentarsi di piccoli spiragli. Per il centenario della nascita, si prevede una vasta antologica a Roma e si pensa a un francobollo commemorativo. Settant'anni fa, Luigi, suo padre (che nel 1934 avrebbe ottenuto il Nobel per la letteratura) gli scrisse: «Mio caro Fausto, perché quando ti metti a dipingere, guardi con gli occhi degli altri, tu che hai occhi così buoni per guardare in te?».
Fausto aveva 29 anni e, dopo aver partecipato diciottenne alla prima guerra mondiale, si era dedicato alla pittura. Ma la famiglia Pirandello era difficile: fattori economici, asperità psicologiche, follia materna, travolgente temperamento paterno si riversavano sui tre figli. Quando Fausto ebbe a sua volta un figlio, ma si azzardò a chiamarlo Pierluigi ricevette una lavata di capo: il nome di quel nipotino non garbava al nonno. Ora, quel nipotino, settantenne, è avvocato, vive a Roma e cura la memoria del padre.
Luigi Pirandello ebbe grandi riconoscimenti in vita, Fausto fu invece travolto dalla sorte. Il cognome pesò molto sul pittore che ha altalenato tra Armando Spadini e il cubismo, tra la Scuola romana e la metafisica trovando alla fine, tra depressioni e entusiasmi, una sua cifra inconfondibile che ci ha dato quadri di nudi, di interni e di nature morte di una straordinaria e, soprattutto, originale carica interiore.
«Mio nonno non amava il Novecento», dice l'avvocato Pirandello, «e a mio padre suggeriva addirittura di liberarsi da ogni preoccupazione di modernità e di smettere di dipingere come tutti gli altri. Diceva: ho visto alla Biennale di Venezia i Novecentisti: orrori e insulsissima accademia; e, per di più, tutti uguali, scarabocchiatori e stupidi. Parlava addirittura di spaventevole aberrazione. Si capisce come questo potesse influire su un giovane ancora pieno di sogni e di speranze. In compenso gli suggeriva di fare come Spadini, che un giorno se ne fregò di tutti e si abbandonò alla gioia di dipingere come voleva quel che voleva».
Il drammaturgo non poteva soffrire i critici. Al figlio pittore scriveva: «Se la tua sincerità è pensare in un tuo modo particolare, ebbene dipingi i tuoi pensieri, sarai sincero e ti esprimerai: esprimerai qualche cosa. La sorveglianza critica uccide l'arte. La critica d'arte moderna è micidiale. L'avete tutti nel sangue, bisogna liberarsene...»
Nel 1927, Fausto andò a vivere a Parigi e vi rimase tre anni, per sfuggire ai condizionamenti psicologici. Suo fratello Stefano, cambiò il cognome in Landi per potersi sentire libero come scrittore e quando ebbe il primo figlio voleva chiamarlo Luigi in onore del nonno. Questi disse che di Luigi Pirandello ne bastava uno solo. Lo chiamarono Andrea.
Alla Biennale di Venezia del 1956, Fausto Pirandello fu invitato con una sala personale; un'altra fu affidata ad Afro. L'invito, la serietà, il rigore della carriera e l'età lasciavano pensare che avrebbe ottenuto il gran premio. Ma era il momento dell'astrattismo e anche gli amici gli voltarono le spalle: premiarono Afro. Mesi dopo il pittore pubblicò sulla Fiera Letteraria un articolo sulla superiorità del figurativo nei confronti dell'astratto. Il critico Lionello Venturi (che aveva sostenuto Afro), arrabbiatissimo, lo mandò a chiamare. «Mio padre», ricorda il figlio, «stava molto male, e andai io, allora giovanissimo procuratore legale, a fare da mediatore. Ma la frittata era fatta. Mia madre disse che papà era stato pazzo a mettersi contro un uomo potente come Venturi. Ma lui mi ricordò che il nonno, un giorno gli aveva raccomandato, secondo l'insegnamento contenuto in un racconto di Von Chamisso, di non perdere mai la propria ombra. Cioè di mantenere sempre intatta la sua dignità di uomo e di artista. E così aveva fatto».


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