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ARTE
- Personaggi da ricordare  
di Mario Pancera
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MASSIMO CAMPIGLI

Il mistero è protagonista nella vita di Massimo Campigli, che infatti per l’anagrafe era Max Ihlenfeld: perfino i suoi più fedeli estimatori lo hanno saputo solo vent’anni dopo la sua morte, avvenuta a Saint Tropez nel 1971. Ma, benché illustre, il pittore è ancora così poco noto, che sebbene oggi si sappia che è nato a Berlino nel 1895, un importante Dizionario della pittura lo dà ancora nato a Firenze nel 1885.
Campigli (traduzione italiana di Ihlenfeld), nato in Germania e morto in Francia, volontario antiaustriaco nella prima guerra mondiale, poi prigioniero e fuggiasco (arrivò fino al Circolo polare artico), è uno dei più importanti pittori italiani del secolo, ma non sapremo mai con certezza per quali itinerari interiori egli è arrivato alla sua arte. Lo possiamo intuire frugando nei documenti. Uomo metodico e preciso (anche nei conti!), amava la solitudine sul lavoro e la compagnia nel divertimento. Nessuno, tuttavia, avrebbe potuto prevedere il cambiamento radicale e il suo rapido successo come artista. La vena lirica pittorica ebbe il sopravvento su tutto il resto.
Il critico André Chastel osserva che la sua pittura è emblematica: ha la potenza del sigillo, un’impronta che marca l’anima. Non si può, dunque, non restarne colpiti. E afferma che in essa i simboli sono trattati con la stessa delicata precauzione con cui si affrontano le “perceptions obscures”. Ecco che riaffiora il mistero che ha contrassegnato la vita terrena dell’artista. Per la sua stessa ambiguità, la sua pittura sollecita in noi moti reconditi, che fanno parte dell'inconscio, e raggiunge il sistema onirico, così da lasciarci con le più strane sensazioni.
Sono ben note le figure femminili stilizzate, che sembrano insieme di triangoli e cerchi, e che sono state la cifra stilistica di Campigli. Vengono confrontate con una fanciulla affrescata nel palazzo di Cnosso, a Creta, 3500 anni fa, ma anche con certe figure immobili e fuori del tempo che troviamo nei grandi del Rinascimento e, per venire più a noi, in “Una domenica pomeriggio alla Grande Jatte”, dipinta da Seurat tra il 1884 e il 1886. Questo quadro colpì Campigli a tal punto che egli lo rifece alla sua maniera nel 1954. Sia in Seurat sia in Campigli l’atmosfera è sospesa, sognante, metafisica: si guardano i quadri e si entra nella poesia.
Per conoscere l’artista e la sua ossessione dell’immagine femminile bisogna però entrare anche nella sua vita familiare. Figlio naturale di due giovani innamorati tedeschi, la madre gli diede il suo cognome e lo portò a Firenze appena nato. Lui, Max, la chiamava "zia". Per la società era il figlio della colpa. La madre sposò poi un ricco inglese ed ebbe due figlie. Quando la famiglia si trasferì a Milano, ai primi del Novecento, il ragazzo pensava alla letteratura più che alla pittura e frequentava i futuristi. Assunto come stenografo al "Corriere della Sera", si italianizzò il nome.
Nel 1919, come corrispondente del "Corriere" andò a Parigi dove fu attirato dai cubisti. Nel 1923, allestì la prima mostra a Roma. Nel 1926 sposò la pittrice romena Magdalena Radulescu e lasciò il giornale, con la cui liquidazione visse un anno dedicandosi solo ai colori. Il primo incontro che l'avrebbe spinto verso il suo famoso stile è probabilmente quello con l'arte egizia a Roma ed etrusca in Toscana.
Stabilitosi a Milano, turbato da traversie economiche e psicologiche, fu invitato a entrare nel movimento artistico "Novecento". Agli inizi degli Anni Trenta, Campigli era già famoso; espose tra i "Sette italiani di Parigi" e fu incluso tra i 22 artisti italiani moderni in una mostra del 1932. Nel 1933, con Sironi e Funi firmò il Manifesto della pittura murale. Nel 1935 si risposò con Giuditta Scalini, una scultrice comasca, che ebbe vita sfortunata; con la seconda guerra mondiale si rifugiò a Venezia. Dopo il conflitto tornò a Parigi, ma ne fuggì presto. Negli ultimi vent'anni, visse tra Roma, Milano, dove aveva vecchi amici, e Saint Tropez dove si era costruita una villa. Morì per un infarto mentre faceva la doccia.
«C'è un'aria di museo che si respira nella mia opera», annotava nelle sue carte. Ma se per qualcuno il museo ha la fissità della morte, per lui fin da bambino rappresentava lo stupore della vita. Questo fa la differenza. Nelle sue donne fissate nell'istante del movimento c'è il bagliore dell'artista che ha tentato di fermare il tempo. Soltanto nel 1989, cercando in vecchi cassetti, il figlio Nicola ha trovato il dattiloscritto con la verità di Campigli-Ihlenfeld e così, almeno una parte, del rebus di Campigli-artista sembra risolto. Già, almeno una parte.


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