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Franco Manni:

GUIDA AI LIBRI ANIMATORI DELLA MIA LETTERA
Ciascun'opera ha due date: la prima è quella della composizione o della prima edizione; la seconda è quella di un'edizione recente accessibile al lettore.

1985

NORBERTO BOBBIO, Liberalismo e democrazia (Simonelli, Milano, 2006)
Quasi tutti, quando - poniamo alla televisione - sentono pronunciare da qualche politico o qualche giornalista le parole "liberale", "democratico", "liberaldemocratico", non riescono a distinguerne i significati e magari neanche ci provano. E così li confondono.
Questo volume di Norberto Bobbio vuole essere un antidoto contro tale confusione, perchè esso differenzia con grande chiarezza i vecchi, venerabili e ancora attuali concetti di Liberalismo e Democrazia.
Essendo il liberalismo e la democrazia due risposte a due problematiche politiche di genere essenzialmente diverso, lungo la storia si comportano come variabili indipendenti : sono esistiti ed esistono Stati n´ liberali né democratici, liberali ma non democratici, sia liberali sia democratici. Più inquietante - anche perché più direttamente confligge col Luogo Comune che confonde liberalismo e democrazia - è il fatto che sono esistiti ed esistono Stati democratici ma non liberali. Questo ultimo fenomeno era stato previsto dal pensatore liberale Alexis de Tocqueville già nel 1840 e lo aveva chiamato "tirannia della maggioranza".
 

1986

PRIMO LEVI, I sommersi e i salvati (Einaudi, Torino, 1986).

L’autore, ebreo, internato ad Auschwitz, sopravvissuto, dopo la guerra lavorò come chimico, si sposò, scrisse vari libri sulla propria esperienza nei lager, fece un’attiva propaganda educativa nelle scuole per far ricordare cosa fu il nazismo. Questo libro, l’ultimo prima della morte, è un riepilogo dei suoi messaggi. Il nazismo fu essenzialmente menzogna: la menzogna distrugge, infine, anche chi la fabbrica credendo di padroneggiarla: infatti i nazisti e Hitler, dopo averla riversata sul popolo tedesco, ne furono dominati essi stessi e non riuscirono più a discernere da essa i fatti della realtà; e si gettarono a capofitto in una sanguinosa e degradante sconfitta. Il nazismo fu un totalitarismo: con questa parola si indica un potere che cerca di penetrare in tutti gli ambiti della vita senza rispettarne la complessità, il pluralismo, la divisione dei poteri singoli, il cono d’ombra del privato, il mistero dell’ignoto o del non ancora noto. Il lager rappresenta la forma pura del totalitarismo:

«Una qualche forma di retroazione, un correttivo all’arbitrio totale, non è mai mancato neppure nel Terzo Reich, né nell’Unione Sovietica di Stalin; nell’uno e nell’altra hanno fatto da freno, in maggior o minor misura, l’opinione pubblica, la magistratura, la stampa estera, la chiesa, il sentimento di umanità che 10 o 20 anni di tirannide non bastano a sradicare. Solo dentro il lager il controllo dal basso era nullo, ed il potere dei piccoli satrapi era assoluto. Il potere è come la droga: il bisogno dell’uno e dell’altra è ignoto a chi non li ha mai provati, ma dopo l’iniziazione, che può essere fortuita, nasce la dipendenza e la necessità di dosi sempre più alte, nasce anche il rifiuto della realtà e il ritorno ai sogni infantili di onnipotenza».

Questa forma di potere, senza freni, rende necessariamente molto malvagio chi lo usa: l’uomo - e Levi non prova ad indagare i perché, ma è fermissimo a testimoniare il fatto - diversamente da Dio non è capace di gestire per il bene un potere onnipotente. L’autore confuta molti luoghi comuni dell’etica popolare. Non è vero che nella comune disgrazia nasca la solidarietà: Levi parla di una «zona grigia» che si creava nel lager e cioè di una crescente difficoltà a discernere il bene dal male: era facile confondersi perché ovunque il potere onnipotente suscitava il privilegio; e così il proprio compagno, destinato alla comune morte, per ritardarla di un giorno o per sperarla un po’ meno atroce, era disposto a ignorare l’altrui bisogno, a tradire, a infierire anche, in quanto identificato nella ferocia dei potenti carnefici. Non è vero che la vergogna sia l’emozione propria del criminale: erano le vittime a vergognarsi molto più dei carnefici. Come Tommaso d’Aquino, Levi parla di un motivo di questo paradosso: il luogo comune - e noi tutti abbiamo al nostro interno una parte che è schiava dei luoghi comuni - ritiene buoni i materialmente forti e cattivi i materialmente deboli, e dunque narcisisticamente si vergogna di essere tormentato da un ingiusto persecutore, in quanto il subire un tormento è una forma di debolezza materiale-esterna. Il luogo comune contro cui principalmente polemizza Levi è quello delle ideologie di tipo radicaleggiante-utopistico (come per esempio il marxismo) secondo le quali i gruppi sociali più poveri e oppressi saranno loro a trovare la motivazione per combattere l’ingiustizia e a trainare l’intera società verso una migliore vita civile morale. Invece:

«Quanto più dura è l’oppressione, tanto più diffusa tra gli oppressi è la disponibilità a collaborare col potere. In ogni caso, si osserva che alla testa del movimento non figurano mai gli individui più oppressi: di solito, anzi, le rivoluzioni sono guidate da capi audaci e spregiudicati, che si gettano nella mischia per generosità (o magari per ambizione) pur avendo la possibilità di vivere personalmente una vita sicura e tranquilla, magari addirittura privilegiata. L’immagine, tanto spesso replicata nei monumenti, dello schiavo che spezza le sue pesanti catene, è retorica: le sue catene vengono spezzate dai compagni i cui vincoli sono più leggeri e più lenti».

È l’idea che dà il titolo al libro: i testimoni più completi dell’orrore dei lager sarebbero coloro che ne hanno toccato il fondo di violenza e di degradazione, ma costoro non possono testimoniare, perché non ci sono più, sono stati «sommersi». A testimoniare c’è invece chi, come Levi (che era un chimico e fu usato dai nazisti come tecnico di laboratorio), ha potuto godere di qualche privilegio e risulta essere nel numero dei «salvati». Una conseguenza specifica di questa situazione è il dolore: nel lager il dolore era più forte nei primi giorni, poi diminuiva perché l’individuo diventava sempre più malato - più corrotto, più disperato - e dunque sempre meno ospitava dentro di sé quella parte sana e vitale che è la sola a potere provare dolore. Così, anche, il dolore ricominciò lancinante a farsi sentire dai «salvati» quando questi videro entrare i liberatori: infatti allora si riprospettava loro la vita con le sue responsabilità verso sé e verso gli altri. Vita, cioè il bene, ma con la coscienza della distruzione operata: da cui il dolore. Levi cita il poeta Leopardi per confutarlo: non è vero che il piacere sia generato dalla fine di un male («passata è la tempesta»): la fine o l’attenuarsi di un male, pur portando naturalmente motivi di gioia, non può essere senza dolore (lo psicanalista Winnicott era dello stesso parere: secondo lui le persone sane soffrono molto di più delle persone malate - per esempio gli internati in un ospedale psichiatrico - le quali hanno perso molta della loro capacità di sopportare il dolore).

1989

SIMON SCHAMA, Cittadini. Cronaca della Rivoluzione Francese (Mondadori, Milano, 1999)
A duecento anni dalla Révolution, questo libro sembra esser l'inveramento del progetto incompiuto di Manzoni : raccontare la rivoluzione francese evitando sia le secche dei Reazionari (e oggi dei neoreazionari e revisionisti che vorrebbero presentare la Révolution e addirittura l'Illuminismo come "i presupposti del totalitarismo comunista e ateo"), sia le paludi dei Giacobini (e fino a ieri dei marxisti).
Con tutta la vasta erudizione documentaria e tutta la variegata strumentazione di scienze umane proprie di uno storico liberale di Harvard dei nostri giorni, Schama si disincaglia dal riduttivismo economicistico degli storici marxisti e ripristina - contro i machiavellismi sia comunisti sia reazionari - un punto di vista etico. Egli scrive :
"Il libro tenta di affrontare da vicino il doloroso problema della violenza rivoluzionaria. Gli storici, temendo di dar adito a sensazionalismi o di venir presi per biechi controrivoluzionari, si sono dimostrati restii ad affrontare questo problema ; io l'ho posto al centro della mia argomentazione proprio perché non credo che si trattò di un infelice sottoprodotto della politica, o di uno sgradevole mezzo grazie al quale furono conseguiti fini più virtuosi o furono sventate mire abiette.
Tocqueville intuì gli effetti destabilizzanti della modernizzazione prima della Rivoluzione. Seguendo questa intuizione è possibile oggi riconoscere nel regno di Luigi XVI una cultura e una società afflitte più dall'inclinazione al cambiamento che alla resistenza ad esso. Per converso ritengo che la violenza rivoluzionaria fu originata in misura maggiore dall'avversione alla modernizzazione che dall'insofferenza per la velocità del suo corso."

Approfonditi e appassionanti sono i ritratti di singole personalità come Re Luigi, Maria Antonietta, Hérault, Linguet, David, Malesherbes, Talleyrand, Robespierre, Danton, Marat, Desmoulins e tanti altri.
Schama, secondo me, è tra i migliori storici di oggi; per le tematiche "anglofile" che percorrono questa mia lettera potresti far riferimento a un altro suo libro : A History of Britain.

1992

SEBASTIANO VASSALLI, Marco e Mattio (Einaudi, Torino, 1992)
Vassalli è un autore che - sulla scia manzoniana - scrive romanzi storici : La Chimera tratta l'Inquisizione del XVI secolo, Marco e Mattio la vita contadina e l'avventura napoleonica alla fine del XVIII; Il Cigno la collusione tra mafia e politici corrotti nel XIX secolo crispino ; Cuore di pietra il fascismo del XX secolo; Archeologia del presente il movimento sessantottino e i decenni successivi fino ad oggi.
Tra questi romanzi prediligo Marco e Mattio, in cui uno dei due protagonisti (don Marco) è un personaggio mitico e non realistico: con vari nomi e vari volti e ruoli è l'Ebreo Errante (forse, l'incarnazione del Diavolo), mito europeo plurinazionale e plurisecolare che proprio con l'Età Napoleonica si esaurisce. L'altro (Mattio Lovàt) è invece un personaggio realistico e in parte anche reale (Vassalli usa documenti storici del Morocomio di San Servolo): un carbonaio e poi ciabattino in un villaggio di montagna dove nella povertà trascorse le dolorose vicende della sua vita, ma fu anche marginalmente coinvolto da quelle della Storia con la maiuscola, e poi sviluppò via via una malattia mentale che - tra le altre cose - lo convinse di esser una sorta di messia e tentò, da solo, di crocefiggersi e anche ci riuscì, ma sopravvisse e finì internato come matto a Venezia. È il racconto della vita unica ed irripetibile di un Individuo povero e debole e come sopraffatto dalle enormi Forze delle Mentalità, delle Ideologie, dei Pregiudizi, delle Ignoranze, degli Interessi, presenti sia nel mondo a lui esterno sia nel suo mondo interiore. Era un "sommerso" dalla Storia e candidato ad essere - come centinaia di milioni di altri Individui - un sommerso ignoto, se non fosse stato per il referto clinico di uno psichiatra del Morocomio veneziano che ci ha lasciato notizie di lui.
Di Napoleone è giusto chiederci, con Manzoni : "Fu vera gloria?". Di Mattio Lovàt verrebbe da chiedersi: "Che significato ha avuto per il mondo la vita di questo umile?". Scrive Vassalli:
"Mattio credeva di dovere salvare il mondo e morì per salvarlo: lo salvò? Chissà. Il senso pratico - il èbuon senso', a cui la maggior parte delle persone crede di ispirare le proprie azioni - ci induce a sorridere di une simile ipotesi; ma nel mondo governato dal buon senso, per nostra fortuna, di tanto in tanto affiorano degli uomini che ci passano vicino e che poi scompaiono portandosi appresso universi di domande, a cui sarebbe troppo facile, o troppo stupido, rispondere...Uomini che ci salvano : ma sì! Anche se il nostro mondo non meritava il sacrificio di Mattio Lovàt, lui non aveva altri mondi per cui sacrificarsi: e ci ha salvati, o, quanto meno, ha creduto di salvarci...
La passione di Mattio fu molto lunga, le circostanze della sua morte possono apparire banali: non altrettanto può dirsi degli effetti, che furono grandiosi. A partire dall'8 aprile 1806 incominciò il declino di quel Bonaparte in cui Mattio, e moltissimi altri come lui, avevano visto l'incarnazione stessa delle forze del male. Le cose del mondo, rimescolate a lungo e con molto vigore tra di loro, si fermarono a poco a poco e si riassestarono, non più secondo l'ordine antico ma secondo un ordine nuovo, che si sarebbe venuto disvelando nei decenni e nei secoli successivi. Tutto accadde apparentemente da sè....
Insomma e per farla breve, da quel lontano giorno d'aprile del 1806 tutto nel mondo incominciò a volgere al meglio, cioè al presente: a questo nostro presente pieno di cibo, di soldi, di automobili e d'ogni atro genere d'abbondanza, che non sarebbe com'è, o, forse, non esisterebbe nemmeno, se Mattio Lovàt non avesse patito, e non fosse morto, per liberarci dal passato. Addio, Mattio!".

L'autore, cioè, in maniera poetica vuole suggerire che, al di là delle apparenze, la Storia è fatta non solo dai Napoleoni, ma da tutti, e che ciascuna individualità è preziosa e insostituibile per lo strutturarsi dinamico (storico) del nostro unico Mondo. Non abbiamo una mente capace di vedere in concreto come questo avvenga, se una tale mente esistesse potrebbe esser solo quella divina. Ma anche se non "vediamo" (non "conosciamo", direbbe Kant) come è fatta in concreto questa rete di rapporti reciproci e necessari tra tutti gli enti, però "crediamo" ("pensiamo", direbbe Kant) che essa esista.

1996

LUCIO RUSSO, La rivoluzione dimenticata (Feltrinelli, Milano 2001)

I Greci nel III secolo avanti C. (la cosiddetta età ellenistica) avevano sviluppato le varie scienze matematiche e naturali a un livello che fu prima perduto poi recuperato pienamente solo con la fine del XVII secolo dopo C. L'autore, che oltre a esser e un fisico e un matematico è anche un filologo classico, con abbondanza di esempi mostra questo fatto storico sconosciuto quasi a tutti.
La causa della dimenticanza della scienza ellenistica fu la conquista romana, nel II secolo a. C. : la civiltà di Roma era assai diversa da quella ellenistica e non interessata alle scienze. Plinio il Vecchio (I secolo d. C.) fu considerato il maggiore scienziato di Roma, ed era incapace di comprendere i trattati scientifici ellenistici. Scrive Russo:
"La difficoltà che si prova nel tentare di inquadrare storicamente fatti e personaggi del III secolo a. C. è strettamente connessa alla nostra profonda ignoranza di questo periodo, che è stato quasi cancellato dalla storia.
In primo luogo, infatti, non coi è rimasto alcun resoconto storico continuato tra il 301 a. C. e i 221 a. C.. Non solo non abbiamo le opere storiche ellenistiche, ma anche dell'opera del romano Tito Livio ci manca la seconda parte, che riguardava il periodo dal 292 al 219 a. C. Forse non è un caso. La tradizione ci ha conservato la storia della Grecia classica e quella dell'ascesa di Roma. La storia del secolo della rivoluzione scientifica è stata dimenticata con il ritorno della civiltà a uno stadio prescientifico.
Quasi tutti gli scritti dell'epoca ellenistica si sono perduti. La civiltà che tra le tante conquiste intellettuali ci ha lasciato anche l'idea stessa delle biblioteche e della gelosa conservazione del pensiero del passato è stata cancellata con le sue opere. Le poche opere scientifiche rimaste ci sono state trasmesse da Bizantini e Arabi. L'Europa non aveva conservato nulla..
La gravità della distruzione della distruzione delle opere ellenistiche è stata spesso sottovalutata, in base all'ottimistica teoria che quelle sopravvissute fossero le opere migliori. Purtroppo questa visione ottimistica è priva di fondamento. Infatti le opere migliori non possono salvarsi grazie a un meccanismo automatico di selezione naturale in presenza di una generale regressione del livello di civiltà. Il fatto che la stessa tradizione che ci ha conservato integralmente i 37 libri della Naturalis Historia di Plinio avesse trascurato di tramandarci le poche fondamentali pagine del trattato di Archimede Sul Metodo è da solo una prova che questo si proprio il nostro caso. La selezione dei posteri ha privilegiato le compilazioni o comunque le opere scritte in un linguaggio ancora comprensibile nella tarda Antichità e nel Medio Evo."

Non fu dunque il cosiddetto "oscurantismo della chiesa cristiana" la causa (contro il diffuso luogo comune) , ma l'imperialismo di una civiltà culturalmente arretrata quale quella di Roma. Scrive un recensore del libro di Russo :
"Il lentissimo recupero della scienza Greca cominciò nel tardo Medio Evo e continuò per tutto il Rinascimento fino al XVII secolo (incluso). Molte delle invenzioni "originali" di questo periodo (l'idraulica, la costruzione dei fari, l'ottica...) non sono altro che l'effetto di una nuova capacità di comprendere i testi greci. Lo stesso Galileo, spesso presentato come colui che rompe con la tradizione aristotelica, riprende temi e argomenti ellenistici. La sua formulazione del principio d'inerzia ricalca quella di Erone, vecchia di quasi duemila anni: "Dimostreremo che i pesi che hanno una tale posizione [cioè su un piano orizzontale privo di attrito] possono essere mossi da una forza minore di qualsiasi forza data."
All'epoca i protagonisti della rivoluzione scientifica Rinascimentale avevano ben presente questo loro debito di gratitudine verso la scienza greca. Nel XVIII secolo invece, "la scienza europea, convinta di poter finalmente camminare con le proprie gambe, visse, attraverso l'ideologia illuministica, un violento fenomeno di rigetto dall'antica cultura da cui era nata e di rimozione del suo ricordo. Fu allora che ci si convinse che la pneumatica fosse nata con Torricelli, seppellendo le opere pneumatiche di Erone e di Filone di Bisanzio nell'oblio in cui sono sostanzialmente rimaste fino ad ora; l'idea eliocentrica, che da sempre era stata legata al nome del suo ideatore, Aristarco, divenne l'idea ècopernicana' e Aristarco fu relegato nel ruolo di prematuro èprecursore'. Tutti i ritrovati tecnologici ellenistici furono considerati dei èprecursori' delle loro imitazioni moderne. La storia millenaria di riflessioni sulla gravitazione fu cancellata anch'essa dalla conoscenza collettiva, che accettò che si fosse trattato di un parto improvviso del genio di Newton"."

Per gli scopi della mia lettera il libro di Russo ci suggerisce alcune cose: come l'idea di un progresso lineare sia semplicistica ; quanto possa essere distruttiva la brama del potere ; quale possa essere - in certe circostanze - l'impotenza a ricordare nella mente umana ; come il narcisismo (in questo caso quello della cultura europea dal Settecento in poi) possa deformare la conoscenza dei fatti storici.
 

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