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Franco Manni:

GUIDA AI LIBRI ANIMATORI DELLA MIA LETTERA
Ciascuna opera ha due date: la prima è quella della composizione o della prima edizione; la seconda è quella di un'edizione recente accessibile al lettore.
 

1957

MELANIE KLEIN, Invidia e gratitudine
(Martinelli, Firenze, 1969).

È la mente più profonda ed originale della psicanalisi dopo Freud. Nel leggere gli scritti di Klein bisogna avere pazienza: sono ripetitivi, sono scritti «male», legnosamente, senza una chiara architettura argomentativi sono pieni - a livello di contenuto ideologico - di residui dualistici e biologistici provenienti dall’impostazione positivistici freudiana. Però l’intuito psicologico di Klein è incomparabile: lei «vede» cose che nessun altro è riuscito a vedere. A causa delle difficoltà letterarie, comunque, solo in sede di approfondimento successivo ti consiglio la lettura della loro massa (Scritti 1921 - 1958, Boringhieri, Torino, 1978; La psicanalisi dei bambini, Martinelli, Firenze, 1984). Subito, invece, ti consiglio la lettura di questo piccolo opuscolo che, nella mente dell’autrice, vuole essere un concentrato compendio di tutto il suo pensiero. Per me, tre sono i principali contributi caratteristici di Klein. Il primo è che madre/padre, narcisismo/erotismo, pulsione/sublimazione e tutte le altre coppie freudiane sono meno importanti della coppia Oggetto Buono e Oggetto Cattivo: non sono i contenuti empirici (maschile, femminile, sensuale, intellettuale, ecc.) a essere o buoni o cattivi, ma tutti i contenuti possono essere sia buoni sia cattivi, a seconda dei casi esterni e dell’interpretazione interna del soggetto, e, per la salute mentale, è l’esser-buono e l’esser-cattivo dell’oggetto e non il suo contenuto a essere determinante. Il secondo contributo - anche questo in un’implicita consonanza con la tradizione della filosofia morale - è che malattia e salute sono caratteristiche più proprie del soggetto che dell’ambiente: date certe condizioni del soggetto anche l’ambiente più sfavorevole non lo distrugge, date certe altre condizioni del soggetto anche l’ambiente più favorevole non è sufficiente a garantirgli la salute. L’ambiente - che, per Klein, nei primi mesi di vita coincide con la madre - certamente in primo luogo crea le diverse condizioni del soggetto, favorevoli o sfavorevoli, ma è poi il soggetto in quanto soggetto che le rende buone o cattive. Solo il soggetto può decidere di isolarsi dalla realtà rifugiandosi nella malattia o, viceversa, di amare ed entrare in contatto con la realtà. Certamente un ambiente distruttivo porterà il soggetto ad isolarsi e un ambiente accogliente porterà il soggetto ad amare. Eppure la decisione di isolarsi o di amare non è presa dall’ambiente; è nel soggetto e non è nell’oggetto. Un ambiente ostile è male ma non è malattia; un ambiente accogliente è bene ma non è salute. Questa idea è simile a quella di Tommaso d’Aquino quando dice che, certamente, quanto è conosciuto dall’intelletto, quanto è appetito dai sensi, quanto è mosso da Dio, quanto è proposto dal diavolo sono tutte condizioni da cui la volontà dell’uomo non può prescindere e, dunque, ciascuna di queste cose è «causa» della volontà. Eppure né un concetto dell’intelletto, né un moto appetitivo, né un dono d’amore, né una tentazione sono un atto di volontà, e l’atto di volontà, pur condizionato da tutte quelle cose, è però sé stesso, e le trasforma in un’azione determinata, che è decisa dal soggetto per un fine - giusto o sbagliato che sia - proprio e non per un fine altrui. Questa idea ha una conseguenza importante nella psicoterapia: il terapeuta non si concentrerà sulla ricostruzione «esterna» o «oggettiva» dell’ambiente passato e presente in cui ha vissuto e vive il malato, ma su quella dell’interpretazione - soggettiva, interna - che il malato ha dato e dà dei vari ambienti in cui ha vissuto, o avrebbe voluto vivere, in cui vive o vorrebbe vivere. Kantianamente: l’analista non ricostruisce «cose-in-sé», ma ricostruisce «fenomeni», cioè produzioni del soggetto. Un altro importante contributo di Klein è la cosiddetta «posizione depressiva»: per Klein ci sono due dolori fondamentali che rappresentano due fondamentali posizioni relazionali rispetto al mondo e cioè rispetto alle altre persone: il dolore «schizoparanoide» o di persecuzione, che si ha quando si aggredisce per distruggere e si è o ci si sente aggrediti e distrutti, e il dolore «depressivo» o di riparazione, che si ha quando si teme e si soffre a causa delle sofferenze e dei pericoli, veri o presunti, dell’oggetto amato. Il dolore depressivo considera sempre oggetti «interi», cioè persone e non parti del corpo o altre astrazioni; tende a «riparare» cioè a restituire benefici, a proteggere, a nutrire, a conservare, a liberare; è un dolore che intende una responsabilità verso il destino di un altro. Tanto meno un individuo arriva a poter soffrire di questo dolore, tanto più sarà malato: la capacità di godere nel mangiare, di aver desiderio e gusto nel conoscere e nell’imparare, di avere potenza sessuale e gioia di un figlio, di provare gratitudine nelle relazioni interpersonali in genere, sono tutti fenomeni possibili e permessi se e solo se l’individuo ha raggiunto sufficientemente la «posizione depressiva» (si tratta, come vedi, di uno sviluppo della teoria freudiana su «lutto e malinconia»: alla aggressività rancorosa della malinconia corrisponde il dolore schizoparanoide, al lutto quello depressivo. Tanto più un individuo è sano quanto più riesce a provare «lutto» anche quando le persone amate «intenzionalmente» lo tradiscono; tanto più un individuo è malato quanto più prova «malinconia» anche quando le persone amate «involontariamente» muoiono o sono altrimenti allontanate da lui dal corso del destino. Ma si tratta anche di un arricchimento - per quanto senza un legame così diretto - delle tradizionali speculazioni della filosofia morale greco-romana prima e medievale-cristiana poi su alcune virtù fondamentali nei rapporti interpersonali: la pietà verso i genitori e altre persone congiunte da vincoli psicologici, la clemenza verso gli offensori e i peccatori, la carità per tutti i tipi di benefattori verso cui si riesce a sentire, per un motivo o per l’altro, gratitudine). Oltre a questi tre contributi fondamentali, Klein ci ha dato altre idee interessanti. In generale, il riconoscimento del ruolo importante svolto dalla fantasia. Un caso particolare della fantasia è l’idealizzazione, la quale spesso si manifesta come fenomeno negativo (dice Klein: «gli individui che hanno una grande capacità di amare non sentono il bisogno di idealizzare quanto quelli che hanno un’enorme quantità di impulsi distruttivi e di angosce persecutorie. L’idealizzazione sta a indicare che la spinta prevalente proviene dalla persecuzione»), ma ha anche una funzione positiva («Ho potuto constatare che l’idealizzazione deriva dalla sensazione innata che debba esistere un oggetto estremamente buono, il che porta all’intenso desiderio di questo oggetto buono e del desiderio di poterlo amare»). Le altre operazioni fondamentali della fantasia, per Klein, sono: la scissione, l’introiezione, la proiezione. Il mondo «obiettivo» è un’astrazione; quello che interessa la salute e la malattia di un essere umano è il mondo come è vissuto concretamente da lui, cosa del mondo viene frammentato e introiettato come parte di sé, cosa del mondo rappresenta, nella proiezione fuori di sé, parti buone o cattive di sé. Anche questo è eredità di Kant. Questi meccanismi ci fanno capire - sulla scorta de L’Io e l’Es di Freud - che la personalità individuale è frammentata in «parti», e che queste parti perlomeno in quanto l’individuo è malato, sono senza comunicazione tra loro. Un’altra idea tipica di Klein è la «legge del taglione»: tanto uno odia, tanto egli si sente perseguitato; tanto uno desidera e seduce, tanto egli si sente desiderato e sedotto; tanto uno falsifica narcisisticamente la propria immagine, tanto egli si disprezza e si odia perché si sente falso, gonfiato, vuoto; e così via. Tra gli impulsi distruttivi, Klein dà il primato all’invidia: questa è sentita indipendentemente dalla frustrazione: anche il bambino ben nutrito da sua madre può invidiarle il senso nutritore: il bambino può vivere la gratificazione senza provare gratitudine, perché è angosciato dall’idea che la madre possieda un’inesauribile creatività che lui non possiede e che lei amministrerebbe capricciosamente e in realtà terrebbe essenzialmente per sé stessa al fine di appagarsi continuamente. Per quanto Klein utilizzi ancora molti termini e concetti freudiano-biologistici, ella ha già portato avanti la comprensione che salute e malattia della persona non dipendono da «pulsioni» fisiche o da conflitti o abusi di «organi», ma da atti di volontà e dai conflitti o abusi nei rapporti interpersonali. Gli abusi e le distruzioni pulsionali organiche certamente - e drammaticamente - esistono, ma sono effetti e non cause.

1963

SOFIA VANNI-ROVIGHI, Elementi di filosofia (La Scuola Editrice, Brescia, 1976)

I filosofi tardo-medievali dicevano "Aristotele è muto se Tommaso non parla", intendendo con questa frase riconoscere il loro debito di gratitudine verso l'opera di interpretazione, commento e contestualizzazione che l'Aquinate fece del pensiero dello Stagirita.
Applicando tale frase al mio apprendistato filosofico, vorrei dire allora una frase analoga: "Tommaso è silente se la Vanni non spiega". Quest'opera di introduzione generale alla filosofia sistematica, scritta da Sofia Vanni-Rovighi (neotomista italiana del XX secolo) è stata per me infatti il libro fondamentale per avviarmi allo studio delle discipline filosofiche: gnoseologia, logica, metafisica, filosofia naturale, etica, estetica. Tommaso d'Aquino è qui la stella polare, ma Platone, Agostino, Cartesio, Kant, Hume, Hegel, Husserl e tanti altri sono citati e discussi, e - tutti - contestualizzati e criticati con grande chiarezza espositiva e grande rigore logico, riconoscendone gli apporti dati al pensiero, ma avendo sempre in mente che il pensiero (e la sua verità, la sua chiarezza, la sua sistematicità) e non i pensatori sono la cosa più importante.
In mezzo alla selva selvaggia di libri di filosofia o di storia della filosofia che io giovane cercavo di attraversare ora timoroso ora inorridito ora stremato e confuso, questo libro della Vanni è stato una mappa di orientamento decisiva ed affidabile. Intellettualismi narcisistici, latinorum impossibili, sbrodolamenti retorici, collassi logici, erudizioni gratuite, frammentarismi anarchici potrebbero rendere "misologo" ben più di un giovane (o non giovane) neofita negli studi filosofici. La lettura di questi Elementi, invece, può incoraggiarlo a persistere e a sperare che alfine "rivedrà le stelle".
Un esempio particolare dei contenuti: la teoria gnoseologica medievale e tomista del "realismo moderato" viene dalla Vanni interpretata e presentata alla luce degli a priori kantiani, del pragmatismo ottocentesco, dell'empirocriticismo di Mach e dell'epistemologia popperiana, realizzando così in concreto ciò che sempre dovrebbero fare un vero storico della filosofia e un vero filosofo: collegare nella propria mente - con acutezza e originalità - il pensiero dei vari autori, mostrando (sul piano storico) lo sviluppo dall'uno all'altro, e (sul piano teoretico) la reciproca contraddizione e la reciproca integrazione delle idee.

1965

DONALD WINNICOTT, Sviluppo affettivo e ambiente (Armando, Roma, 1970).

Psicanalista inglese influenzato da Melanie Klein, Winnicott non è uno scrittore molto sistematico; a volte il tono scanzonato e le incoerenze possono irritare il lettore. Ma egli amava molto il suo lavoro di terapeuta e i suoi pazienti, era dotato di grande sensibilità psicologica e ci ha lasciato dei contributi originali. Ne ricordo due. Il «falso Sé», cioè il Sé sottomesso e apparentemente sano (agli occhi di una comunità distratta) che nasconde il Sé spontaneo e reale rinchiuso in un mondo segreto e solitario. L’identificazione: una mamma o uno psicanalista sono sufficientemente buoni non in ragione della scientificità delle proprie interpretazioni del bambino o del malato, ma in ragione della propria capacità di identificarsi nel bambino o nel malato, rimanendo però sé stessi, cioè un passo più avanti di lui sulla strada della maturità e della salute.

1960 - 1971

DONALD WINNICOTT, Dal luogo delle origini (Cortina, Milano, 1990).

Interpretazioni, sempre intelligentemente superatrici dei luoghi comuni, di vari fenomeni della psicologia individuale e collettiva: il concetto di salute e il concetto di malattia; tipologia delle psicoterapie; il ruolo sociale della madre; l’apprendimento infantile; la psicologia dell’adolescente; il femminismo; la monarchia; la democrazia.

1970

JACQUES MONOD, Il caso e la necessità (Mondadori, Milano, 1988).

Non ti consiglio, per ora, la lettura della principale fonte originale, e cioè dell’Origine della specie di Charles Darwin, perché questa è appesantita da troppe dimostrazioni particolari. Ti consiglio, invece, questo breve libretto, molto più recente, che cerca di divulgare - con competenza: Monod è premio Nobel per la medicina - le tesi essenziali di quell’opera capitale. L’idea fondamentale di Darwin, in anticipo rispetto a tutti gli altri scienziati e filosofi, è che l’evoluzione della vita avviene non per un «progetto» o «tendenza», ma per il combinarsi di una ferrea casualità e di una ferrea necessità: mutazione puntiforme e selezione naturale. Platone, Hegel e tutti gli altri pensavano che l’«Idea» progressivamente scendesse dal suo iperuranio e creasse la Storia, sospingendola a realizzare i suoi fini. Dopo Darwin, invece, cominciamo a intravedere un’altra realtà, come dice Monod: «Il destino viene scritto nel momento in cui si compie e non prima». E solo nel Novecento Croce e Popper avrebbero difeso, da un punto di vista più generale rispetto a quello darwiniano delle scienze biologiche, l’imprevedibilità e l’assoluta novità del futuro. La teoria dell’evoluzione darwiniana è un pilastro portante di ogni filosofia antidualistica o, come anche si dice, «immanentistica» o «desacralizzata» o «secolarizzata».

1970

HENRI F. ELLENBERGER, La scoperta dell’inconscio (2 voll., Boringhieri, Torino, 1986).

Il filosofo Schopenhauer scrisse che «il magnetismo [ciò che ora chiamiamo, nelle psicoterapie, il “transfert”], dal punto di vista filosofico, è la scoperta più gravida di contenuto che sia mai avvenuta». Questo libro di Ellemberger costituisce un’importante integrazione ai manuali professionali-accademici di storia della filosofia (che ingigantiscono alcune dispute verbalistiche di professori quali Fichte o Schelling o Husserl o Heidegger, e ignorano le ricchezze di pensiero presenti nella storia della scienza, nella teologia, nelle opere dei poeti e dei romanzieri, nella storia delle mentalità. Qui l’autore narra la storia della psicoterapia dagli sciamani preistorici e dai santi cristiani, a Mesmer e ai magnetizzatori, alla natur-philosophie idealistica, a Charcot, Janet, Freud, Adler, Jung e ai postfreudiani. Emerge una linea di sviluppo: la sempre più esplicita coscienza che la forza fondamentale che guarisce le malattie psichiche è il rapporto interpersonale buono (transfert, traslazione), mentre il resto - cioè l’apparato conoscitivo delle interpretazioni singole, della caratteristica psicologica, della metapsicologia - pur se fondamentale, è però secondario e costituisce più che altro il veicolo simbolico, cioè comunicativo, in cui s’incarna, in maniera varia secondo la varietà dei tempi e degli ambienti culturali, ciò che è primario. Non è un libro teoreticamente molto originale, né scritto molto bene; è però pieno di informazioni altrimenti difficilmente collezionabili e di stimoli per il pensiero. Un esempio è il rapporto, documentato, tra la natur-philosophie idealistica e Freud attraverso la mediazione di G.T.Fechner. Questo è un contributo storiografico veramente originale, ed è molto importante perché permette di capire - anche se lo spunto deve essere ancora lungamente sviluppato - come il nucleo realmente filosofico e nuovo del pensiero di Freud sia figlio della storia della filosofia e, dunque, erede dell’ultima importante filosofia a lui precedente, l’idealismo tedesco: «Tutto è Spirito, anche la Natura», cioè: la «natura» umana (sensazioni, sentimenti, pulsioni, istinti, passioni) dipende, nel bene e nel male, dalla «ragione» umana (percezioni, concetti, pensieri, giudizi, ragionamenti, teorie, atti di volontà, progetti), dai vizi e dalle virtù di questa, e non è una realtà separata ed autonoma.

1971

FRED UHLMAN, L’amico ritrovato (Feltrinelli, Milano, 1990).

Breve e commovente romanzo ambientato agli esordi del Terzo Reich; in cui si mostra che, se è valida l’opinione degli antichi (la verità e la virtù permettono l’esistenza dell’amicizia), è valida anche l’opinione dei moderni (l’amicizia permette l’esistenza della verità e della virtù).

1977

STEPHEN JAY GOULD, Ontogeny and Philogeny (Harvard University Press, Cambridge Mass., 1977).

Paleontologo ad Harvard, Gould è secondo me il più importante biologo del XX secolo (migliore di Jacob, di Monod, di Mayr, per non parlare di Lorenz). Ha vissuto poco ma scritto molto e ti consiglio tutti i suoi libri, che sono intelligenti, molto colti e quasi tutti godibili alla lettura. Questo, invece, è un libro tecnico e pesante da leggere. Però stimola molto il pensiero presentando una biologia veramente darwiniana, veramente non lamarkiana, da cui rampollano molte analogie per la psicologia, la sociologia, la morale. Gould discute la cosiddetta «legge biogenetica» o anche detta «legge di Haeckel», che recita: «l’ontogenesi ricapitola la filogenesi» (cioè: lo sviluppo individuale, prima di raggiungere la sua forma matura, passa attraverso tutte le forme mature degli antenati evolutivi). Appoggiandosi al grande embriologo Van Baer, Gould mostra che questa legge non è vera: in realtà ciò che appare nell’embriogenesi sono i caratteri generici, precedenti nel tempo quelli specifici. Siccome i caratteri generici sono comuni con gli antenati evolutivi, ciò dà l’illusione della «ricapitolazione»: ma in realtà le fasi embrionali di un individuo più evoluto somigliano solo alle fasi parimenti embrionali degli individui meno evoluti e non alle fasi adulte di essi. La visione di Haeckel è chiaramente pessimista: in campo morale ciascuno di noi dovrebbe ripetere le scelte dei propri antenati, e il nostro bagaglio storico sarebbe solo un «eterno ritorno» del passato (nihil sub sole novum). Ciò che accade veramente è invece che in ciascuno di noi si ripresentano le possibilità di scelta degli antenati, ma la scelta in sé è nuova, ed è nostra. Inoltre, la legge di Haeckel pretende di universalizzare il modello dell’«accelerazione ed addizione terminale» (l’individuo più evoluto vivrebbe più velocemente le fasi di maturazione degli antenati meno evoluti e poi aggiungerebbe - avendo disponibile un tempo residuo - qualcosa in più, che porta avanti l’evoluzione). La genetica, invece, ha mostrato che l’addizione dei caratteri è improbabile, l’addizione terminale poi è statisticamente quasi impossibile, e quello che accade ordinariamente è invece una sostituzione casuale dei caratteri. E l’osservazione macroevolutiva ha mostrato che il ritardo è un fenomeno tanto diffuso quanto l’accelerazione. Il ritardo dello sviluppo - per cui l’individuo discendente ha come caratteri adulti quelli che per l’antenato erano caratteri giovanili - si chiama «neotenìa». Gould mostra come oggi vi sia quasi unanimità tra i biologi: quella specie animale che è homo sapiens si è evoluta culturalmente grazie al fenomeno biologico della neotenia; e ripete con Bolk: «Cosa è essenziale all’uomo in quanto organismo? Il lento procedere del corso della sua vita».

1980

ALICE MILLER, La persecuzione del bambino (Boringhieri, Torino, 1987).

Tre storie di tre infanzie, narrate con ricchezza documentaria: una tossicodipendente terminale; un maniaco sessuale; Adolf Hitler. È un libro che aiuta a simpatizzare col precetto evangelico «Non giudicare!» ed ad adottare la massima «Tout comprendre est tout pardonner». Miller non pretende di spiegare l’origine del male, ma ci informa su come tre individui «cattivi» avessero qualche ragione per essere tali.

1986

PRIMO LEVI, I sommersi e i salvati (Einaudi, Torino, 1986).

L’autore, ebreo, internato ad Auschwitz, sopravvissuto, dopo la guerra lavorò come chimico, si sposò, scrisse vari libri sulla propria esperienza nei lager, fece un’attiva propaganda educativa nelle scuole per far ricordare cosa fu il nazismo. Questo libro, l’ultimo prima della morte, è un riepilogo dei suoi messaggi. Il nazismo fu essenzialmente menzogna: la menzogna distrugge, infine, anche chi la fabbrica credendo di padroneggiarla: infatti i nazisti e Hitler, dopo averla riversata sul popolo tedesco, ne furono dominati essi stessi e non riuscirono più a discernere da essa i fatti della realtà; e si gettarono a capofitto in una sanguinosa e degradante sconfitta. Il nazismo fu un totalitarismo: con questa parola si indica un potere che cerca di penetrare in tutti gli ambiti della vita senza rispettarne la complessità, il pluralismo, la divisione dei poteri singoli, il cono d’ombra del privato, il mistero dell’ignoto o del non ancora noto. Il lager rappresenta la forma pura del totalitarismo:

«Una qualche forma di retroazione, un correttivo all’arbitrio totale, non è mai mancato neppure nel Terzo Reich, né nell’Unione Sovietica di Stalin; nell’uno e nell’altra hanno fatto da freno, in maggior o minor misura, l’opinione pubblica, la magistratura, la stampa estera, la chiesa, il sentimento di umanità che 10 o 20 anni di tirannide non bastano a sradicare. Solo dentro il lager il controllo dal basso era nullo, ed il potere dei piccoli satrapi era assoluto. Il potere è come la droga: il bisogno dell’uno e dell’altra è ignoto a chi non li ha mai provati, ma dopo l’iniziazione, che può essere fortuita, nasce la dipendenza e la necessità di dosi sempre più alte, nasce anche il rifiuto della realtà e il ritorno ai sogni infantili di onnipotenza».

Questa forma di potere, senza freni, rende necessariamente molto malvagio chi lo usa: l’uomo - e Levi non prova ad indagare i perché, ma è fermissimo a testimoniare il fatto - diversamente da Dio non è capace di gestire per il bene un potere onnipotente. L’autore confuta molti luoghi comuni dell’etica popolare. Non è vero che nella comune disgrazia nasca la solidarietà: Levi parla di una «zona grigia» che si creava nel lager e cioè di una crescente difficoltà a discernere il bene dal male: era facile confondersi perché ovunque il potere onnipotente suscitava il privilegio; e così il proprio compagno, destinato alla comune morte, per ritardarla di un giorno o per sperarla un po’ meno atroce, era disposto a ignorare l’altrui bisogno, a tradire, a infierire anche, in quanto identificato nella ferocia dei potenti carnefici. Non è vero che la vergogna sia l’emozione propria del criminale: erano le vittime a vergognarsi molto più dei carnefici. Come Tommaso d’Aquino, Levi parla di un motivo di questo paradosso: il luogo comune - e noi tutti abbiamo al nostro interno una parte che è schiava dei luoghi comuni - ritiene buoni i materialmente forti e cattivi i materialmente deboli, e dunque narcisisticamente si vergogna di essere tormentato da un ingiusto persecutore, in quanto il subire un tormento è una forma di debolezza materiale-esterna. Il luogo comune contro cui principalmente polemizza Levi è quello delle ideologie di tipo radicaleggiante-utopistico (come per esempio il marxismo) secondo le quali i gruppi sociali più poveri e oppressi saranno loro a trovare la motivazione per combattere l’ingiustizia e a trainare l’intera società verso una migliore vita civile morale. Invece:

«Quanto più dura è l’oppressione, tanto più diffusa tra gli oppressi è la disponibilità a collaborare col potere. In ogni caso, si osserva che alla testa del movimento non figurano mai gli individui più oppressi: di solito, anzi, le rivoluzioni sono guidate da capi audaci e spregiudicati, che si gettano nella mischia per generosità (o magari per ambizione) pur avendo la possibilità di vivere personalmente una vita sicura e tranquilla, magari addirittura privilegiata. L’immagine, tanto spesso replicata nei monumenti, dello schiavo che spezza le sue pesanti catene, è retorica: le sue catene vengono spezzate dai compagni i cui vincoli sono più leggeri e più lenti».

È l’idea che dà il titolo al libro: i testimoni più completi dell’orrore dei lager sarebbero coloro che ne hanno toccato il fondo di violenza e di degradazione, ma costoro non possono testimoniare, perché non ci sono più, sono stati «sommersi». A testimoniare c’è invece chi, come Levi (che era un chimico e fu usato dai nazisti come tecnico di laboratorio), ha potuto godere di qualche privilegio e risulta essere nel numero dei «salvati». Una conseguenza specifica di questa situazione è il dolore: nel lager il dolore era più forte nei primi giorni, poi diminuiva perché l’individuo diventava sempre più malato - più corrotto, più disperato - e dunque sempre meno ospitava dentro di sé quella parte sana e vitale che è la sola a potere provare dolore. Così, anche, il dolore ricominciò lancinante a farsi sentire dai «salvati» quando questi videro entrare i liberatori: infatti allora si riprospettava loro la vita con le sue responsabilità verso sé e verso gli altri. Vita, cioè il bene, ma con la coscienza della distruzione operata: da cui il dolore. Levi cita il poeta Leopardi per confutarlo: non è vero che il piacere sia generato dalla fine di un male («passata è la tempesta»): la fine o l’attenuarsi di un male, pur portando naturalmente motivi di gioia, non può essere senza dolore (lo psicanalista Winnicott era dello stesso parere: secondo lui le persone sane soffrono molto di più delle persone malate - per esempio gli internati in un ospedale psichiatrico - le quali hanno perso molta della loro capacità di sopportare il dolore).

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