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Franco Manni:

GUIDA AI LIBRI ANIMATORI DELLA MIA LETTERA
Ciascuna opera ha due date: la prima è quella della composizione o della prima edizione; la seconda è quella di un'edizione recente accessibile al lettore.

1925

MAHATMA GANDHI, Un’autobiografia: la storia dei miei esperimenti con la verità
(trad. it. La mia vita per la libertà, Newton Compton, Roma, 1988).

Per documentare come la forza possa essere non-violenta, ed essere intransigente, pronta, ferma, audace, questo è il libro migliore. Gandhi è stato il leader politico che diede impulso e conseguì l’indipendenza politica dell’India dal più grande impero coloniale del mondo, quello britannico. Anche oggi, come ai tempi di Pericle o di Nerone o di Dante o di Machiavelli c’è chi sostiene la falsa e superficiale tesi secondo la quale i crudeli, i violenti, gli avidi sarebbero i migliori leader politici, secondo la quale l’aggressione distruttiva sarebbe l’unica forma di forza e di coraggio, mentre bontà, mitezza, giustizia, pace sarebbero cose fiacche, deboli, stupide. E anche oggi questa tesi viene sostenuta non solo dai guerrieri e dai mercanti d’armi e dai politici corrotti dalle lobby dei guerrieri e dei mercanti, ma anche - e questa è la cosa più dolorosa - dai cosiddetti intellettuali che credono di aver scoperto una preziosa, spregiudicata, originalissima e nuova e profonda verità dicendo che «il fine giustifica i mezzi», che «non si governa coi paternoster», che «quando ce vo’, ce vo’», e che si estasiano di fronte al «decisionismo», a Von Clausewitz, a Carl Schmitt, a Nietzche, al nazista Heidegger e al fiancheggiatore nazista Jünger, eccetera. La vita di Gandhi però - che è storia e non romanzo o dottrina teorica; che appartiene al nostro secolo e non a un favoloso passato - mostra coi fatti che tale tesi è falsa. Mostra, anche, con l’autorità della storia, la verità della filosofia. La forza è sinonimo di pazienza e non di impulsività. Il coraggio riguarda essenzialmente la disponibilità a morire per un ideale di verità, mentre chi distrugge la vita degli altri è spesso, almeno in parte, un vile. La verità è una forza magari inizialmente sommessa e invisibile, ma ultimamente invincibile, perché è costante, mai non tace, attrae continuamente qualcosa che sta all’interno del cuore di tutti gli uomini. La verità, però, è forza necessaria ma non sufficiente per vincere il male e muovere verso il bene la storia: ci vuole anche l’amore, perché solo con l’amore si riesce ad avere la capacità di fare giusti compromessi, di attendere, di ascoltare, di sperare nel futuro, di riconoscere anche i minimi segni di bene in mezzo alle reazioni più ostili e indifferenti degli altri. Gandhi, questo pacifista, non era un apatico o atarattico saggio stoico o un querulo e vuoto asceta moralista, né un inconcludente e bambinesco «mistico»: per lui la pace, la non violenza era testimonianza diretta di coinvolgimento razionale ed emotivo, e non di ascetico e «saggio» straniamento. Per lui era lotta eroica contro un nemico pericoloso, e non olimpico distacco. Due virtù risplendevano tipicamente in Gandhi: l’insofferenza profonda e spontanea, irrefrenabile, per ogni forma di ingiustizia, nelle grandi come nelle piccole cose. E poi una crescente compassione universale per le sofferenze umane. Egli inventò il «Satyagraha», che in italiano, ancor meglio che con «resistenza passiva», si traduce con «fermezza nella verità». Come Seneca e come Benjamin Franklin considerava la vita, oltre che come una missione, anche come un continuo interessante «esperimento»: sperimentava continuamente nuove cose per trovare le cose migliori: vari tipi di lavoro artigianale manuale; forme di meditazione e di preghiera; digiuno dimostrativo; forme di resistenza passiva; medicina naturale e psicosomatica; nuovi rapporti con le donne; nuovi rapporti con figli naturali e figli adottivi; nuove forme di castità; nuove forme di povertà; fino ad arrivare a dettagli minori e forse stravaganti come il vegetarianismo (anche Seneca e B. Franklin furono vegetariani). Non pensò mai di propagandare una presunta sapienza «mistica» dell’Oriente aristocraticamente ed astrattamente segregata da quella dell’Occidente: sempre insistette, anzi, nel dire che egli era riuscito ad essere quello che fu grazie all’educazione che aveva avuto nel sistema culturale inglese, grazie al liberalismo e al garantismo giuridico occidentale in genere e britannico in specie; riuscì anzi a scoprire le cose buone della tradizione orientale - che altrimenti sarebbero state in lui morte e addirittura disturbanti - grazie alla filosofia e alla religione occidentali. In questa autobiografia Gandhi racconta anche come riuscì lentamente ma realmente e decisamente a guarire dal disastro morale della sua infanzia e della sua adolescenza: e ci riuscì grazie all’amicizia delle persone buone, grazie ad alcune esperienze di dolore che riuscì a interiorizzare e trasformare, grazie al quotidiano sforzo di meditazione ed introspezione, grazie al lavoro, grazie al coinvolgimento in una lotta eroica per il bene comune suo e della sua gente.

1931

BENEDETTO CROCE, Le due scienze mondane: l’estetica e l’economia
(in Ultimi saggi, Laterza, Bari, 1955).

In questo breve scritto, trattando di due categorie del suo sistema filosofico, Croce ci dà un’efficace critica di alcune tipiche opposizioni dualistiche: Natura/Spirito; Sensazione/Pensiero; Utile/Buono; Oggetto/Soggetto.

1932

SANDOR FERENCZI, Diario Clinico (Cortina, Milano, 1988).

Questo discepolo e collaboratore di Freud ci ha lasciato un diario delle sue ultime psicanalisi. Notevole è l’urgenza che egli sente di approfondire, assieme alla comprensione del paziente, la comprensione di sé. Notevole è la delicata e commossa sensibilità per il dolore e le speranze dei pazienti. Molto notevole è questo concetto: al di là di ogni narcisismo di ruolo, il percorso di guarigione avviene attraverso un paritario patto di alleanza tra guaritore e malato, in cui la libertà è massima, in cui la lotta e il coinvolgimento emotivo sono comuni. La cura non è solamente una «prestazione tecnica» da un soggetto A a un soggetto B, ma è anche la reale condivisione di un periodo della propria vita tra due persone che percorrono due paralleli, per quanto magari molto differenti, processi di maturazione.

1933

HAN KELSEN, L’amor platonico (Il Mulino, Bologna, 1985).

Kelsen è considerato il più importante studioso di teoria giuridica del Novecento. Essendo stato favorevolmente impressionato dalla psicanalisi, scrisse un libro di filosofia - questo - per le edizioni di Freud. In questo libro Kelsen analizza il dualismo metafisico, logico ed etico di Platone: in metafisica il dualismo porta a un escatologismo ingenuo, alla negazione della storia e a un sostanziale pessimismo; in logica il dualismo porta a un «panlogismo», cioè a un esasperante intellettualismo che, incapace di comprendere la realtà attraverso le sue astrattissime categorie, sfocia necessariamente, per una sorta di «nostalgia della realtà», nella mistica. In etica il dualismo tra spirito e natura porta a una condotta di vita distruttiva sia nell’ambito privato sia nell’ambito pubblico. Nell’ambito privato l’idealizzare l’oggetto d’amore e il disprezzarne la concretezza (e cioè sia la multivocità ed imprevedibilità dei suoi beni, sia la presenza in esso anche dell’imperfezione, del dolore, della cattiveria, della grettezza, della stupidità, della debolezza) induce a desiderare oggetti d’amore non-umani, perfettamente forti, belli, giovani e incantati dal piacere continuo, però irraggiungibili dall’affetto umano (da quella «jilia» di Aristotele che Tommaso d’Aquino traduce con «caritas») e raggiungibile solo dall’«erwz» e cioè da proiezioni eccitate e unilateralmente sensuali. L’iperspiritualismo teorico si converte dunque, come è caratteristico del dualismo, in ipermaterialismo pratico. Nell’ambito pubblico il dualismo che separa il bene assoluto dal male assoluto porta a una concezione della società che, da una parte, è antidemocratica e divide i cittadini tra i pochissimi «perfetti» che comandano e i molti «imperfetti» che obbediscono, e, dall’altra, è una concezione totalitaria la quale, negando la complessità della storia (Platone, un po’ come Pol Pot in Cambogia, voleva mandare via dalla sua repubblica ideale tutti gli adulti formatisi in periodo precedente, per poter plasmare ex novo i fanciulli), vuole imporre a tutti gli infinitamente diversi ambiti della vita la stessa astratta e semplicistica idea di «Bene».

1934

KARL POPPER, La logica della scoperta scientifica (Einaudi, Torino, 1970).

Popper è considerato il più importante filosofo della scienza del Novecento. Di questo libro, che è il suo fondamentale, ti consiglio la lettura della Prefazione della prima edizione inglese e dei primi cinque capitoli (anche del resto se hai una forma mentis di tipo matematico, perché qui spesso è usata la logica simbolica). L’idea centrale è che una qualsiasi verità è tale non perché può essere «verificata», cioè osservata in tutti i casi reali, che sono infiniti e che richiedono dunque un impossibile processo di osservazione infinita, ma perché può essere «falsificata», cioè è aperta alla confutazione da parte di quei singoli casi o di quel singolo caso in cui essa non può essere osservata. Il progresso della conoscenza non avviene dunque per un accumulo di osservazioni ma per una successiva sostituzione di teorie: se una teoria è vera proprio in quanto può essere falsificata da un’osservazione individuale, e dunque bisogna elaborare una teoria più complessa che comprenda in sé sia la precedente teoria sia la nuova osservazione. Diversamente dagli empiristi e dai positivisti per Popper la conoscenza parte dalla teoria e non dall’osservazione empirica: egli cita il poeta romantico Novalis: «le teorie sono reti, solo chi le butta pesca». Come arrivare ad elaborare una nuova teoria? Con due movimenti. Il primo è confrontarsi spregiudicatamente con le teorie degli altri pensatori presenti e passati. Il secondo - e Popper qui cita esplicitamente Einstein - è il cercare un’«immedesimazione» (Einfühlung) con gli oggetti dell’esperienza. Cerco di traslocare una di queste idee di Popper dalla filosofia della scienza alla filosofia morale. Quando è vera una teoria etica («questo tipo di azione è buono»)? Non quando la si pensa osservabile in tutti i casi singoli, come recitava l’universalismo della filosofia tradizionale. Ma quando so che, se qui ed ora l’osservazione singola non falsifica la teoria e dunque la corrobora (vedo che questa azione è buona), so anche che il mio concetto di «buono» deve essere fatto in maniera tale da potere accettare che in un qualsiasi momento successivo un’altra osservazione singola renda falsa la teoria pur senza rendere falsa la prima osservazione (senza rendere cattiva la singola azione che, nella mia precedente osservazione, corroborava la mia teoria «questa classe di azioni è buona»). Il mio concetto di «buono» deve dunque essere legato all’individualità e alla continua novità della storia, senza per questo impedirmi di generalizzare quando il generalizzare è utile, quando cioè ho bisogno di comunicare e agire.

1937

SIGMUND FREUD, Analisi terminabile e interminabile (Boringhieri, Torino, 1979).

Il compito dello spirito che guarisce e il compito dello spirito che vuole essere guarito sono lunghi e complessi, richiedono tendenzialmente tutta la vita: non perché lo spirito sia impotente - il progresso e la guarigione sono reali: oggi meglio di ieri, domani meglio di oggi - ma perché il cammino di guarigione è una componente della vita stessa, e chi pensasse di ritenersi totalmente guarito non farebbe altro che dichiarare di aver smesso di vivere.

1937

SIGMUND FREUD, Costruzioni nell’analisi (Boringhieri, Torino, 1979).

Il progresso morale è - tra le altre cose - anche un progresso nella conoscenza della propria vita passata e presente: eppure questa conoscenza non è una «registrazione materiale» (cosa vorrebbe poi dire una simile cosa?) , ma è una ricostruzione di come gli eventi «materiali» sono stati soggettivamente interpretati e vissuti (o, per meglio dire, «intersoggettivamente», perché la ricostruzione implica sia il contributo del soggetto analizzato sia quello del soggetto analizzante).

1938

BENEDETTO CROCE, La storia come pensiero e come azione (Laterza, Bari, 1965).

Sono molti brevi saggi che indagano sulla natura della storiografia e della storia: la verità storica; la «necessità» storica; l’unicità dell’avvenimento storico e l’unicità ed irripetibilità del giudizio storiografico; il giudizio morale e quello teoretico sul passato; la storiografia come liberazione catartica dalla storia; il rapporto tra narrazione storica e convinzioni filosofiche dello storiografo; l’efficacia pratica e comunicativa di un’opera storiografica; e tanti altri (sono 53 saggi). Soprattutto, nel saggio primo e sistematico, Croce mostra come la verità storiografica sul passato nasca da un bisogno morale-psicologico della propria individuale ed attuale vita, bene avvicinandosi alla «regola fondamentale» delle associazioni libere che è alla base della tecnica analitica freudiana.

1939

JOHN RONALD REUEL TOLKIEN, Sulle fiabe (in Albero e foglia, Rusconi, Milano, 1988).

Il più grande filologo novecentesco della mitologia medievale scrive un saggio teorico sulla narrativa fantastica. Dopo una rapida e netta critica storica delle singole opere dell’antichità dell’Ottocento, Tolkien passa a confutare i luoghi comuni condivisi sia dalla paludata critica accademica sia dalla mentalità popolare, secondo cui il fantasy sarebbe letteratura solo per bambini, consolatoria e d’evasione. Positivamente poi Tolkien definisce i concetti di «subcreazione» e di «eucatastrofe» propri dell’attività della fantasia. Sul Tolkien romanziere, e non sul saggista, mi soffermerò meno brevemente più sotto.

1939

KAREN HORNEY, Nuove vie della psicanalisi (Bompiani, Milano, 1959).

Questo libro ci aiuta a comprendere oggi Freud, perché ne prende la parte viva e preziosa lasciando cadere il positivismo e il meccanicismo ottocentesco. Ciò che è vivo nella psicanalisi è l’indagine etica; ciò che è morto è l’apparato anatomico-fisiologico. La malattia non è dovuta a «istinti» perversi, ma al male morale dell’ambiente e alla decisione interiore dello spirito individuale. Le fenomenologie più appariscenti delle malattie - per esempio l’isteria o le perversioni sessuali - sono solo effetti e non sono cause: le cause non sono né «anatomiche» né «istintuali» né «sessuali», ma morali. Freud risente essenzialmente del dualismo filosofico del Positivismo, e così scinde la realtà in coppie di elementi astrattamente separati e distruttivamente in conflitto: Io/Es, Conscio/Inconscio, Maschile/Femminile. La più notevole di queste coppie astratte di Freud è Amor di Sé/ Amore dell’Oggetto (degli altri): coppia classica di tutto il platonismo dualistico del pensiero occidentale. Freud non sembra riuscire a capire le valenze altruistiche del buon amore di sé e le valenze personalistiche del buon amore per gli altri. Di qui la grande ambiguità del suo concetto di «narcisismo». Freud, dunque, è in parte materialista: pensa che, se l’amore viene aggiunto da una parte, deve essere tolto da un’altra; parla di «investimento di energia libidica», considera lo spirito come fosse elettricità o massa inerziale o una società finanziaria. Inoltre è, in parte, meccanicista: per lui la causa «determina» l’effetto (e non solo lo condiziona); dunque per lui il presente sembra essere il duplicato delle esperienze passate e non ha originalità. Dunque non è propriamente presente. Horney invece pensa che, se è verissimo che il presente contiene tutto il passato, pure lo contiene in quanto presente, aggiungendo ad esso qualcosa di nuovo che il passato assolutamente non ha. Cito un esempio di Horney:

«In psicologia l’esempio più elementare che dimostra questa diversità è la questione dell’età. Il presupposto meccanicista considera l’ambizione di un uomo quarantenne come la ripetizione della medesima ambizione esistente in lui all’età di sei anni. La tesi non-meccanicista invece sostiene che, sebbene gli elementi dell’ambizione infantile siano sicuramente contenuti nell’ambizione dell’adulto, in quest’ultima sono implicate caratteristiche assolutamente diverse da quelle che poteva formare l’ambizione d’un fanciullo, e precisamente a causa del fattore «età». Il fanciullo, che ha idee grandiose sul suo avvenire, spera di tradurre un giorno in realtà le sue fantasie. Un uomo quarantenne, invece, avrà il vago presentimento, se non la completa coscienza, dell’impossibilità di vedere mai soddisfatte tali ambizioni, sarà conscio delle occasioni perdute, delle sue personali limitazioni, delle difficoltà esterne. Se egli, nonostante ciò, persiste nelle sue ambiziose fantasticherie, esse gli procureranno fatalmente un senso di sgomento e disperazione».

Il pansessualismo freudiano è dovuto al suo meccanicismo riduzionista: come per i fisici positivisti la vita biologica non è altro che un cozzo casuale di atomi inorganici, così per Freud scienza, arte, religione, morale non sono altro che «sublimazioni», e cioè superficiali trasformazioni delle realtà psichiche vere e proprie, che per lui sono solo le pulsioni sessuali. Per Freud il desiderio di conoscere non è un’esperienza psichica originaria e distinta, ma è la «sublimazione» della curiosità sessuale; l’amore di amicizia (la jilia di Aristotele, la caritas di Tommaso) non è un’esperienza psichica originaria ma è o la «sublimazione» di un’eccitazione sessuale o la difesa mistificante di un’originaria aggressività; la fede in Dio non è un’esperienza originaria ma è solo lo spostamento di una dipendenza nevrotica per il padre reale verso un padre «ideale». Questo riduzionismo di Freud è sbagliato anche per quanto riguarda i «sintomi» patologici: perché bisogna pensare che l’avidità affettiva sia un effetto dell’avidità alimentare del lattante? È più giusto, invece, pensare che sia l’una sia l’altra avidità sono manifestazioni particolari e distinte, secondo i tempi e le occasioni, di una stessa avidità profonda e interiore. Una prova di quanto sia distorto ridurre tutto alle attività più materiali è questa: le persone sessualmente «sane», o «normali» in senso materiale, possono essere per nulla sane o normali in altri fondamentali e vitali ambiti dell’esperienza umana: nei rapporti di giustiziai, per esempio, o nella capacità di imparare e di pensare. E poi, se è vero che, per esempio, esiste una falsa affabilità che è travestimento reattivo di istinti sadici, ciò non implica affatto che non esista una vera affabilità primaria che nasce da una diretta attrazione per gli oggetti buoni. Un’altra precisa correzione di Horney a Freud riguarda, dunque, il narcisismo: il narcisismo non è una stima di sé quantitativamente eccessiva; la differenza è qualitativa:

«Freud considera la tendenza all’autodistruzione come originata dall’amore di sé, e crede che la ragione per la quale l’individuo narcisista non ama gli altri stia nel fatto che egli ama troppo sé stesso. Freud pensa al narcisismo come a un serbatoio che si svuota fino al punto in cui l’individuo ama gli altri (fino a che “dà” libido agli altri). Secondo me, l’individuo come tendenze narcisiste si aliena da sé stesso nel medesimo modo in cui si aliena dagli altri, e perciò è incapace di amare sia sé sia gli altri nella misura stessa del proprio narcisismo».

Più in generale, Freud confonde spesso lo spirito sano con lo spirito malato: comprese che essi non sono separati realmente; ma non comprese che essi sono distinti concettualmente. Dice che il bambino sano è un «perverso polimorfo» e che l’adulto malato non è altro che un individuo che è rimasto bambino. Ciò è da respingersi assolutamente: quel bambino «perverso», e cioè incestuoso, supernarcisista, feticista, omosessuale, eccetera, non è il bambino sano, non è l’esponente della Bambinità, ma è precisamente il nevrotico - ora diventato adulto - quando era ancora bambino ed era già ammalato. Egli è dunque, piuttosto, l’esponente della Nevroticità. La stessa metafora freudiana dell’Io - immaginato come un cavaliere impotente sopra un Es-cavallo che va dove gli pare - non è la descrizione dello spirito sano, in cui l’apparato sensitivo, così come l’inconscio, è docile o almeno compatibile con la ragione, ma è la descrizione dello spirito malato. E infine, nella terapia, l’analisi del passato deve essere finalizzata alla comprensione del presente, e non viceversa come a volte Freud mostra di pensare: così è già stigmatizzata la curiosità di chi in primo luogo vuole ricostruire il passato materiale della vita (il piano delle cause efficienti) e tralascia di chiedersi a quale scopo tendono le azioni e i sintomi attuali (il piano delle cause finali).

1940

BENEDETTO CROCE, Il carattere della filosofia moderna (Laterza, Bari, 1955).

Anche questo libro è una raccolta di saggi (31) che indagano la natura della storia e della storiografia; la filosofia in senso pieno è storiografia del presente; il «mistero» così come inteso dal senso comune, non esiste; la libertà come motore della storia; la storiografia come esame di coscienza ed autobiografia; il ruolo degli «orrori» del mondo nella storia del mondo; l’impossibilità della previsione del futuro; il rapporto tra contingenza e necessità; la differenza tra l’amore nostalgico per il passato e l’amore teoretico per la storia; la dialettica tra notizie attestate ed immaginazioni; il rapporto tra coscienza storica e ricerca (o, per meglio dire, «produzione») dei documenti.

1940 - 1945

AUTORI VARI, Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea (Einaudi, Torino, 1956).

Uomini e donne, soprattutto giovani, nelle carceri del nazifascismo prima di subire il martirio per la libertà. Scrivono ai genitori - soprattutto - ma anche ai coniugi, ai cari amici, ai figli. Colpisce fortemente, in queste persone torturate crudelmente e sul punto di essere uccise, l’urgenza di esprimere la propria gratitudine verso il bene e la felicità ricevuti in dono durante la propria, magari molto breve, vita. Qualcuno è cristiano, qualcuno è agnostico, qualcuno è ateo. Ma in tutti risplende - e questo è, direi, sorprendente - questa fede, anzi certezza, escatologica: «Sarò sempre con voi, vivrò in voi». Lo spirito è essenzialmente Bene («grazie, papà e mamma, per aver destato in me l’amore per il bello e il buono»; «percepisco con gioia l’Infinito che i tuoi studi e le tue preghiere non possono ancora farti comprendere»; «anche se fisicamente sono crollato, sono tuttavia d’umore eccellente»; «a me il lavoro dà alla testa come il profumo dei lillà»; «ho vissuto la vera vita perché ho aspirato al mondo intero»). Lo spirito non può non essere («le gemme muoiono, ma l’albero continua a fiorire»; «maturerò con voi»; «al mattino con l’aurora vi sorriderò, con l’imbrunire vi saluterò».)

1940 - 1951

RONALD FAIRBAIN, Studi psicanalitici sulla personalità (Boringhieri, Torino, 1970).

Leggi di questo libro i primi 7 saggi: grazie anche all’influsso di Melanie Klein, l’autore riesce a migliorare la teoria dello sviluppo della personalità criticando il positivismo materialistico di Freud: Freud, almeno in parte, pensava che lo scopo dei desideri e delle azioni dell’uomo fosse il conseguimento del piacere e che le relazioni con le persone (con gli «oggetti», come si dice in psicanalisi) non fossero altro che «mezzi» per arrivare a tale conseguimento. Fairbain, ricollegandosi inconsapevolmente all’antica tradizione dell’etica filosofica, riesce a capire che lo scopo dei desideri e delle azioni dell’uomo è la relazione con il bene (con gli «oggetti», ossia persone concrete e valori ideali) mentre il piacere è solo una conseguenza. È proprio come, nel campo della gnoseologia, ha riscoperto Edmund Husserl: ciò che l’intelletto conosce - «intende» - sono le cose e non le idee. Non sono le «pulsioni» (le «passioni» di Aristotele e Tommaso) ad essere buone o cattive in sé; buoni o cattivi sono gli oggetti (le persone o i valori ideali) a cui queste pulsioni del soggetto «tendono».

1951

JEROME DAVID SALINGER, Il giovane Holden (Einaudi, Torino, 1970).

Quasi ad integrare il romanzo di Golding di cui parlerò tra poco, questo di Salinger descrive bene l’altro errore del dualismo morale: l’idea che la «legge» (cioè i pensieri astratti e «universali», le convenzioni sociali, le regole del gruppo, le abitudini cristallizzate, tutte quelle direttive «esterne» che sono sommerse nel «passato» e non seguono docilmente il flusso continuo della storia, che non sono docili all’infinita variazione e novità del caso individuale) possa essere sufficiente per la vita buona e sana. Holden, il ragazzo protagonista, sperimenta invece che le varie leggi o convenzioni non scritte della «società» - come comportarsi a scuola, come con i compagni maschi, come con le ragazze, come con i genitori, come con i bambini - non lo aiutano e anzi spesso lo ostacolano nel risolvere i problemi individuali ed irripetibili della propria vita individuale ed irripetibile. Holden, allora, espelle da sé mondo adulto e società e si rifugia in un rapporto autistico con sé stesso (attraverso i fantasmi proiettivi della sorellina Phoebe e del fratellino Bill). Forse Salinger approva come «buona» questa condotta reattiva del suo personaggio, e cade allora nell’altro errore dualista, il romanticismo. Ma noi, lettori di questo romanzo, non riabbiamo trarne suggestioni erronee: Holden ci si mostra chiaramente non come un eroe ma come un malato che non ha potuto essere guarito dalla società, perché sfortunatamente gli è capitato di appigliarsi a quelle produzioni ideologiche e pratiche della società che sono anch’esse - nella forma loro propria - malate (ricordiamo anche, però, che la «sfortuna» di Holden è quella di un personaggio fantastico e non di una persona reale, per la quale, invece, non pare chiaramente credibile che possa esistere la «sfortuna»).

1954

WILLIAM GOLDING, Il Signore delle Mosche (Mondadori, Milano, 1986).

Il dualismo morale, come abbiamo già visto, o dice che la legge scritta e fissa, che le virtù ufficiali (gli abiti di condotta passati e standard), che la scienza morale come sistema teorico rigido e sedicente concluso nelle sue massime generali, sono base e motore sufficienti per il comportamento buono; oppure dice lo sono istinto, passione, pulsione, «natura». Sono due errori: la reazione al primo, quello del legalismo, fa cadere nel secondo, il quale ha avuto espressione teorica nel mito rousseauiano del «buon selvaggio», nel romanticismo volgare, nel decadentismo nieztchiano, nell’esistenzialismo, nel neomarxismo della contestazione studentesca nutrita di Marcuse, Reich e terzomondismo. A proposito di questo errore romantico, Dewey scriveva:

«Nella condotta morale l’elemento acquisito (l’abitudine, l’educazione) è ciò che è primario. Le pulsioni istintuali, sebbene prime nel tempo, non sono mai di fatto primarie: sono secondarie e dipendenti. L’apparente paradosso di tal asserzione nasconde un fatto comune: nella vita dell’individuo l’attività istintiva compare per prima, ma un individuo comincia la vita come bambino, e i bambini sono esseri dipendenti. Le loro attività potrebbero continuare al massimo per qualche ora se non fosse per la presenza e l’aiuto degli adulti con le loro abitudini già formate. E i bambini devono agli adulti - assai più che la procreazione, il cibo e la protezione - la possibilità di esprimere le loro attività native in modo che abbiano significato. Il significato delle attività native non è nativo: è acquisito. Dipende dall’interazione con un medium sociale maturo».

William Golding, nel suo romanzo, con vivace realismo mostra un gruppo di ragazzini sperduti in un’isola deserta, senza adulti: nessuna retorica da Robinson Crusoe o da Ragazzi della Via Pal: i ragazzini mettono in atto esternamente le fantasie interne tanto analizzate dalla psicanalista dell’infanzia Melanie Klein: mutilare, divorare, bruciare i propri compagni.

1955

ROGER MONEY KYRLE, Il concetto antropologico e psicanalitico di norma
(in Scritti 1927-1977, Loescher, Torino, 1985).

Lo psicanalista kleiniano Money Kyrle mostra, in questo breve saggio, come sia possibile dare una credibile giustificazione dell’oggettività della norma morale anche - e soprattutto - nel Novecento, secolo che è, sì, postnietzschiano, ma è anche postfreudiano. Chiara, inoltre, la distinzione proposta tra «normalità» nel senso di «normatività» e «normalità» nel senso di «media statistica dei comportamenti di fatto». Saggio molto utile per la riflessione su quello che si dice essere un problema oggi di attualità, quello del “relativismo”.

1955

JOHN RONALD REUEL TOLKIEN, Il Signore degli Anelli (Rusconi, Milano, 1989).

Un mondo immaginario - la Terra di Mezzo - è minacciato di distruzione e schiavitù da un oscuro demone , Sauron, che ha però necessità di recuperare l’Unico Anello per avere la forza necessaria per compiere i suoi piani. L’Unico Anello finisce invece, casualmente, nelle mani di un nanerottolo (un “hobbit”), Frodo Baggins. Questo Anello è ingestibile da chiunque perché corrompe, volge al male chi lo usa. Dunque Frodo, aiutato da alcuni amici tra i quali altri hobbit e il vecchio mago Gandalf, deve cercare di distruggere l’Anello, fondendolo nelle viscere del vulcano Monte Fato. Molte avventure e molti incontri con personaggi e popoli ora favorevoli ora ostili aspettano Frodo e i suoi amici - la Compagnia dell’Anello - prima che le sorti della Terra di Mezzo giungano al punctum crucis. Dunque una “quest” (ricerca) al contrario, perché qui l’Oggetto Meraviglioso non deve essere trovato ma è presente sin dall’inizio e deve essere distrutto. È un romanzo che, pur cercando di reinventare una mitologia nordica altomedievale, fa parte del nostro mondo contemporaneo: infatti, se leggiamo le gesta del ciclo bretone o del ciclo nibelungico, queste ci lasciano piuttosto freddi. Guerrieri, maghi, draghi di Tolkien, invece, sono figure del nostro spirito. Tolkien, come noi, infatti, viene dopo l’esperienza romantica. In che senso, però, Tolkien è uno scrittore romantico? Per spiegarlo devo rifarmi a Benedetto Croce: egli distingueva un romanticismo teoretico da un romanticismo pratico o morale; il primo buono, il secondo cattivo. Il romanticismo teoretico è quello della filosofia e della vera poesia a cavallo tra Settecento e Ottocento, che si esprimevano in Hegel e in Goethe: la Ragione è qualcosa di molto più profondo dell’intelletto astratto illuminista; l’uomo non può fare a meno della religione e della metafisica (anche se intese in maniera diverse che nel passato); ogni casa del cosmo è collegata a tutte le altre (anche se qui ed ora possiamo non vedere questo o quel collegamento); le forze irrazionali esistono ma possono essere penetrate dalla ragione. Il romanticismo pratico o morale, invece, è quello della pubblicistica popolare, della poesia di consumo, del costume sociale, delle «anime belle» tra sturm und drang, bohème, superomismo, dandismo, superstizione neomedievale, nazionalismo, nostalgie reazionarie: esaltazione cioè irrazionalistica del sentimento privo di logos, accettazione inerte della contraddizione tra amore e odio e tra vita e morte, senza ricerca della mediazione razionale; sensualismo estetizzante ed erotico; aristocraticismo; esotismo; esaltazione dello straordinario e disprezzo del quotidiano; estasi mistica; prometeismo e pessimismo. Tolkien è romantico nel senso teoretico - cioè idealistico, razionalistico, hegeliano, goethiano - del termine. E non lo è nel secondo senso. L’uomo Tolkien, del resto, non fu né dandy né superuomo, ma fu sposo fedele, padre di famiglia, cittadino liberale, buon cattolico, laborioso e preciso professore universitario, ad Oxford, di filologia anglosassone medievale. E dunque, per quanto la sua opera superficialmente sia ascritta a quel genere letterario di consumo chiamato «fantasy», in realtà, come tutti i classici, nasce su un ricchissimo humus culturale. Il lettore accorto, nel Signore degli Anelli, discerne, a vari livelli di consapevolezza, l’Anello di Gige della Repubblica platonica e quello nibelungico di Wagner; l’Edda poetica e quella di Snorri; la missione edificatrice del «pius Aeneas» (Frodo); il ciclo arturiano; le leggende celtiche del Mabinogion; la Navigatio Sancti Brandani; il soprannaturale shakespeariano; Swift; la letteratura fantastica ottocentesca inglese e americana e i marchen tedeschi del primo e del secondo romanticismo. Ma il nostro lettore accorto discerne anche i libri cosiddetti «storici» dell’Antico Testamento e le parabole del Nuovo; le teologie della storia dei Padri della chiesa; la filosofia metafisica di Tommaso d’Aquino; la dialettica del cardinal Newman. La prima cosa, però, che colpisce il lettore di questo libro non è la cultura, ma è l’arte narrativa; la complessa vicenda della trama è organizzata con un ritmo tale da avvincere lungo tutte le 1300 pagine dell’opera. La varietas degli argomenti, degli scenari, delle situazioni psicologiche dei personaggi è molto grande ed è associata, in ciascun caso, a uno stile che adeguatamente varia. Ammirevoli, inoltre, l’ampiezza lessicale, il ritmo interno di ciascun capitolo, la miscela tra discorso del narratore e discorsi dei personaggi, l’incarnazione in azioni e dialoghi del messaggio «filosofico» dell’autore. Colpisce poi specialmente la coerenza, in un romanzo così lungo e articolato, tra tutti gli elementi, sin nei minimi dettagli, sia all’interno della vicenda vera e propria, sia nello sfondo storico-mitologico di quelle tre «ere» della Terra di Mezzo di cui il Signore degli Anelli narra solo l’ultimo anno: un vastissimo passato, evidentemente pensato con concretezza dall’autore, dà concretezza e profondità al presente che è messo in scena. Di questa coerenza narrativa episodio singolare è l’universo linguistico creato ad hoc per le varie razze della Terra di Mezzo - Hobbit, Uomini, Elfi, Nani, Orchi - dal Tolkien filologo dell’antico anglosassone, del gotico, delle rune nordiche, del celta-gaelico. Su molte tematiche del libro qui non mi diffondo perché altrimenti mi farei prendere la mano e sarei troppo lungo. Rimando comunque a due ottime introduzioni all’opera di Tolkien: sono La via per la Terra di Mezzo e Tolkien autore del secolo, entrambi libri di Tom Shippey, secondo me il migliore studioso di Tolkien. Qui mi limito a selezionati accenni. Monismo metafisico e secolarizzazione: il bene e il male sono assolutamente distinti (diversamente che in tristi aree novecentesche di tipo esistenzialistico e nichilistico) ma non sono mai separati (e questo diversamente dal dualismo moralistico della letteratura di consumo). Frodo, Gollum, Saruman hanno all’interno della propria anima (e dunque non separati) il principio del bene e il principio del male, coi loro diversi messaggi, i loro diversi punti di forza, le loro diverse volizioni (e dunque distinti). Anche Gandalf e Galadriel sanno che possono essere tentati e corrotti dall’Anello del Potere. L’unico personaggio totalmente deciso, e deciso per il male, è Sauron: ma egli è un Occhio, un’Ombra, un Pensiero malvagio, un fumo che si alza sui campi di Cormallen, non è una persona chiaramente concreta; in tutto il romanzo non pronuncia neanche una parola (il Male assoluto, essendo totale privazione di bene e quindi di essere, non è un ens realitatis, una persona storica, ma è un ens rationis, un’idea). Il dolore ha il male dentro di sé e fuori di sé, ma non coincide con esso: le sofferenze, non scelte eppure accettate, di Frodo e di Sam, di Gandalf, Aragorn, Faramir, Theoden, Eomer, Pipino, Merry ultimamente hanno una funzione salvifica: ciascuno di loro, in forma diversa secondo il suo personale destino, cresce nella libertà e matura la propria identità individuale. Alla fine della Guerra dell’Anello il male viene sconfitto, almeno per quell’Era. Ma sparisce anche la bellezza elfica e i Primi Nati migrano tristemente verso i Rifugi Oscuri e abbandonano la Terra di Mezzo. Con essi spariscono le care individualità che abbiamo imparato ad amare durante la vicenda: Frodo, Gandalf, Bilbo e poi anche Sam, Granpasso, Legolas, Gimli. Secondo me Tolkien ha ragione a raccontarci la morte delle care individualità, comunicandocene, come fa, la tristezza secondo una tonalità non disperata ma elegiaca. Ma, secondo me, Tolkien ha torto nel dire che, col passare delle Ere, la bellezza elfica tenderebbe a sparire: è questo un residuo di dualismo di tipo nostalgico-conservatore che, all’uomo Tolkien, faceva disprezzare orripilato la civiltà industriale «inquinata, rumorosa, alienata, ecc.», e vagheggiare nostalgicamente una «sana» - ma in realtà mai esistita - Età dell’Oro dell’ancien régime agreste, patriarcale, quando le piccole comunità campagnole vivevano presuntivamente «d’amore e d’accordo» immerse in una vegetazione incontaminata, ecc. D’altra parte, qui ci interessa in primo luogo il Tolkien poeta e non il Tolkien uomo; e, in quanto poeta, egli legittimamente descrive questa struggente nostalgia dualistico-reazionaria per il disparire progressivo della Bellezza Elfica. È questo un simbolo: perché realmente, in misura varia e variamente secondo i momenti della vita, in ciascuno di noi si manifesta una parte debole dello spirito, parte che, in effetti, coltiva e si compiace di tale struggente nostalgia e tenderebbe a mitizzare o l’infanzia e la gioventù proprie, o il «buon tempo antico» agreste o eroico o religioso o aristocratico o guerriero, secondo le sfumature ideologiche personali. Comunque questo è un dettaglio secondario: Tolkien sa bene - e questo è invece primario nel romanzo - che ciascuna Epoca o Era (ciascun anno, ciascun giorno) così come ha il proprio bene, ha anche il proprio male: quindi ciascuna generazione ha la propria responsabilità nella lotta contro il male, non può però pretendere di sconfiggerlo per sempre per il futuro, perché questa sarebbe una pretesa frivola: le nuove generazioni avranno la responsabilità di combattere i mali del futuro. Per noi tutto è compiuto - ed è compiuto bene - quando con coraggio, pazienza e speranza accettiamo la lotta contro i mali del nostro tempo. Un altro importante messaggio è che la Via (“the Road that goes ever on”) - cioè il destino di responsabilità e di amore di ciascuno di noi - parte dall’uscio, magari quello di servizio, della propria casetta: confluirà essa poi, assieme ad altre innumerevoli e impreviste Vie, nella Via più grande, e la nostra responsabilità di discernere il bene dal male certo potrà avere teatri vasti o vastissimi, in moti collettivi coinvolgenti forze magari mondiali. Ma il suo punto di partenza non è in un meraviglioso, esotico, aristocratico paese in cui arrivare attraverso difficilissime mappe (attraverso superiori doti di intelligenza, santità, forza o fortuna); parte invece proprio dal mio uscio di casa, parte dalla vita quotidiana. E alla vita quotidiana ritorna: i quattro hobbit protagonisti sono stati a Moria, Rivendell, Lorien, Rohan, Gondor, Fangorn, Mordor, partecipando, con ruoli vari ma tutti preziosi, alla guerra decisiva per la sopravvivenza della Terra di Mezzo in quell’Era, e acquisendo un tesoro di esperienze e di conoscenze. Ma poi tornano a casa, nella Contea, e la rivedono con occhi nuovi: prima, ingenuamente - e falsamente - la pensavano idilliaca e aproblematica, ora riescono a vedere come il male planetario abbia le sue ramificazioni anche lì, anche in Via Saccoforino. E vedono come il male planetario d’un colpo avrebbe potuto distruggere l’amata Contea, avrebbe potuto annichilire il giardino di casa Baggins. Ma la cognizione del dolore e la contemplazione dei valori, la maturità conquistata durante la Guerra dell’Anello nei lontani paesi della conoscenza e dell’esperienza, nel mentre permettono agli hobbit di riconoscere il male operante anche nella Contea, insieme anche offrono loro le risorse sufficienti per fronteggiarlo. Con ciò che è stato acquisito a Lorien, a Gondor, a Mordor ma che è ora operante qui, nello Shire, cioè nella vita quotidiana. Tutto passa, la Compagnia dell’Anello - così bella, così buona e amata - si scioglie e mai più, in quella forma e nella Terra di Mezzo, potrà ricostituirsi. Eppure tutto, in quanto è fatto nel momento in cui è giusto che sia fatto, ogni cosa, in quanto è amata nel momento in cui è giusto amarla, è Valore ed è eterno. Paolo di Tarso era convinto - e forse implicitamente Tolkien pensava anche a lui - che esiste una dimensione o prospettiva della realtà, e cioè del nostro spirito, in cui la Compagnia - quella filia di Aristotele che Tommaso traduceva con caritas - rimane, ed è, anzi, la sola cosa che rimarrà.

1955

NORBERTO BOBBIO, Politica e cultura (Einaudi, Torino, 2005)

Norberto Bobbio (1909-2004) ha avuto un lungo magistero diretto come insegnante prima di Filosofia del Diritto e poi di Filosofia della Politica. Ed ebbe a dire : "se volgo lo sguardo al passato non ho dubbi su quale sia stata la mia principale attività : l'insegnamento". Ma Bobbio ha avuto un ancor più lungo magistero indiretto come scrittore di libri, saggi per riviste, articoli e interviste per quotidiani. Le sue molte opere sono state tradotte in molte lingue, soprattutto sono conosciute e studiate nell'area ispanofona.
Il suo primo libro influente e di successo, rivolto a un pubblico colto ma non specialista, è stato "Politica e cultura" del 1955 : la data stessa del libro segna come una volontà di riprendere il discorso dalle mani di Benedetto Croce, morto nel 1952. Il contenuto, oltre a intitolare esplicitamente a Croce due dei capitoli, riprende le tematiche crociane del liberalismo e del non asservimento della cultura alla politica dei partiti. E le riprende non dal penultimo momento (1925-1943), cioè da quello in cui Croce polemizzava soprattutto contro il fascismo, ma dall'ultimo (1944-1952), cioè da quello in cui Croce polemizzava soprattutto contro il comunismo.
La maggior parte dei capitoli che compongono il libro sono stati scritti da Bobbio tra il 1951 e il 1954 : sono gli anni del maccartismo e assieme sono anche gli ultimi anni dello stalinismo! Se questa era l'atmosfera per gli ideali del liberalismo all'interno delle due superpotenze vincitrici della seconda guerra mondiale - guerra fatta da esse contro Hitler nel nome della libertà - possiamo capire l'urgenza militante che allora aveva Bobbio nel polemizzare con quegli intellettuali e politici italiani che attaccavano il liberalismo. Costoro erano poi i comunisti, e in specifico i comunisti italiani (ed europei) così come essi erano prima della morte di Stalin e delle denuncie fatte da Nikita Kruschev al XX congresso del partito comunista dell'Unione Sovietica

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