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"Il Ritorno - Boìcu e altre storie" di Romano Asuni

Quando la Memoria è protagonista
Borgosesia (VC) - 21 Giugno 2008
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alle Radici

di Romano Asuni - n. 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - 9 - 10 - 11 - 12 - 13 - 14 - 15 - 16 - 17 - 18 - 19 - 20

L'autore di «Il Ritorno - Boìcu ed altre storie», splendida raccolta di racconti che diventano romanzo pubblicata in eBook ed Ex Libris, dialoga con i lettori de L'ISTRICE lungo il filo della memoria. Prosegue e rinnova così il discorso aperto dal suo libro che segna il felice esordio nella narrativa di questo famoso giornalista che dalla Sardegna è approdato professionalmente a Milano diventando una delle grandi firme Amica, laDomenica del Corriere, il Corriere d'Informazione fino a dirigere Salve, il mensile di medicina e salute della RCS. Naturalmente i lettori di queste sue note periodiche non possono lasciarsi sfuggire la lettura del suo libro che può giungere in pochi click sullo schermo del vostro computer oppure arrivare per posta a casa in una Copia Ex Libris, in volume stampata appositamente per chi la acquista.
Guarda la VideoPresentazione dell'Editore di Il Ritorno - Boìcu e altre storie >>>

Il treno di Miguel

  Ninetto giocava mediano sinistro, che oggi sarebbe centrocampista, insomma un esterno di sinistra che giocava a centrocampo, con libertà però di svariare in attacco perché il ragazzo aveva anche una bella castagna e qualche volta da fuori area si faceva sentire. Ma non era un goleador e neppure un giocoliere, anzi era uno di quelli che in campo si vedevano pochissimo, poi però t’accorgevi che se Benigno scattava verso la porta avversaria per scaricare una delle sue bordate terrificanti, per cui andava giustamente famoso, o contro il palo della luce che delimitava il calcio d’angolo, beh, il passaggio buono era partito dai piedi di Ninetto, poi la mira del cecchino era quella che era, e bisognava accontentarsi. In quel caso Ninetto abbassava la testa senza protestare, ma come chi ha visto sprecare un dono. Mentre quando Marreddu, piccolo e nero come il suo nome suggeriva, raccoglieva il suo passaggio e danzando come un acrobata brasiliano si beveva due difensori e scherzava col portiere facendolo distendere a destra e deponendo con un ghigno di soddisfazione la palla in rete dall’altra parte, Ninetto alzava le braccia, ma così, senza ostentazione o mostrare eccessivo entusiasmo, solo per dire “missione compiuta”.
Era un “cervello”, quello che, “si parvis licet…”, è oggi Pirlo nel Milan ed è stato a suo tempo Suarez nella grande Inter, solo che lui aveva alle spalle, come difensori, Escana, Pisu e Moriconi, e non Burgnich, Facchetti e Picchi, e davanti, come attaccanti, a parte lo sciagurato Benigno di cui si è detto, Marreddu, troppo innamorato del pallone per ricordarsi che il campo finiva prima dei piedi degli spettatori, e un centravanti, Felice, bravo ogni volta che riusciva a risvegliarsi dalla pennichella nella quale sembrava piombare al primo passaggio sbagliato. Allora guardava il compagno responsabile, scuoteva la testa e se ne andava a passeggio per il campo, per i fatti suoi, offeso. Quando usciva dallo stato di trance, faceva anche delle buone cose, tipo galoppare per mezzo campo con la palla al piede, stendere a spallate qualche difensore e, talvolta, infilare la porta.Questo offriva il convento, con un’appendice non trascurabile nelle retrovie, di cui nessuno voleva mai parlare, il portiere. Il suo nome era Miguel, pronunciato proprio così com’è scritto, che all’anagrafe faceva Antonio, ma forse solo sua madre, nei primi anni di vita, lo aveva chiamato così.
Non molto alto, robusto, un profilo che sarebbe passato inosservato fra i mugiki o nel Khazakistan, Miguel veniva da una famiglia poverissima, dove il pranzo si misurava spesso con un tozzo di pane strappato dalle mani della madre, prima di correre verso quello che pareva essere il suo unico polo d’attrazione, il campo sportivo. D’altra parte abitava a due passi e qualcuno con una palla lo trovava quasi sempre, altrimenti aspettava.
Il campo era aperto, ricavato da un’antica cava di pietra arenaria le cui propaggini su un lato costituivano lo scomodo sedile degli spettatori più avventurosi, gli altri si accontentavano di stare in piedi. Ma questo avveniva la domenica, quando c’era la partita dei “grandi” e una squadretta di volenterosi aveva provveduto a tracciare a mano e con la calce le righe che segnavano i bordi, le aree di rigore e il centrocampo. Gli altri giorni il campo era libero e senza tracce e lì si sbizzarrivano a turno i ragazzini che riuscivano a conquistarlo per primi, provenienti dai diversi quartieri del paese, fino a quando il sole, la stanchezza o l’accordo con la squadra che doveva subentrare non poneva fine a match estenuanti fra Sant’Isidoro-Piazza di Chiesa, Il Ponte-Santa Vittoria, fino al derby per eccellenza Studenti-Operai. Questo si giocava di solito il mercoledì e capitava che finisse talvolta con qualche sgambetto e un occhio nero che inasprivano i rapporti già tesi per evidenti motivi di classe sociale, che a livello dei padri si percepivano più pesantemente.
Era la metà degli anni Cinquanta e chi poteva studiare veniva considerato un signorino privilegiato.Miguel non aveva squadra, ma non aveva quasi mai difficoltà a trovarne una, non perché fosse particolarmente bravo, ma perché giocava portiere in tempi nei quali quel ruolo era riservato di solito a quello della squadra che non si sapeva proprio dove mettere. E nessuno ci voleva andare, ma Miguel sì, per un motivo semplicissimo, giocava scalzo. La sua non era una scelta tecnica e meno che mai naturista, era proprio che le scarpe non le aveva, e dopo essersi grattugiato a fondo la pianta dei piedi tentando di correre dietro a una palla di gomma, convenne con se stesso che il ruolo migliore era quello dove ci si muoveva meno, trovavi minore concorrenza e non ti facevano troppe domande, tipo se eri studente, se abitavi lì o a Santa Vittoria, perché giocavi scalzo.
Col passare del tempo, però, tutti gli altri si erano un po’ abituati alle sue risposte che consistevano solitamente in un secco “ma a te che te ne frega…” seguito da una pallonata, che se colpiva faceva male. Sulle scarpe confessava candidamente ma a muso duro: ”Perché non le ho”. In realtà, in piccola parte mentiva, perché qualcuno lo aveva visto qualche sera d’inverno, quando la tramontana tagliava e i sassi aguzzi solidificati nel fango sembravano rasoi, camminare indossando un paio di grosse scarpe militari senza stringhe che facevano molto rumore perché erano evidentemente più grandi del piede che contenevano, ma almeno lo riparavano un po’ dal freddo.Col tempo Miguel aveva conquistato in gran parte la fiducia dei suoi compagni occasionali i quali si erano accorti che non stava lì solo a occupare uno spazio della porta ma si muoveva, prendeva la palla, era anche coraggioso quando gli urlavano “esci!” e lui usciva incontro all’avversario per tentare di arrivare per primo sulla palla con i suoi piedi scalzi, schivando la pedata o il pestone che inevitabilmente ne sarebbero seguiti.
Conquistata la fiducia, Miguel cominciò a tenere anche uno dei suoi otto o nove fratelli (“Boh, e chi lo sa quanti sono, in casa sono nati…”) vicino a un palo della porta perché andasse a recuperare il pallone finito fuori dal campo, che per molto tempo era stata una sua faticosa incombenza. E così anche quando Ninetto gli mostrò un paio di grandi scarpe da tennis, più o meno della sua misura, dicendogli gentilmente: ”Perché non te le provi, hai i piedi sempre graffiati, dai, sono di mio fratello grande….”, gli sorrise di sotto in su e brontolò: ”Eh, ma i piedi sono abituati. E poi con queste si scivola…..”. Ma le mise e così trovò anche la giustificazione per ogni palla che gli sfuggiva.
Il paese intanto cresceva e anche i ragazzi, alcuni dei quali col passare degli anni venivano provati per la prima squadra, quella dei grandi. Si era formata inizialmente per la buona volontà di un intraprendente ciabattino che mangiava pane e pallone, in seguito per iniziativa di un gruppo di giovani, legati alla sezione della DC. Questi ebbero la geniale idea di apporre sulle maglie candide dei giocatori uno scudetto crociato che da un lato ne certificava l’appartenenza, dall’altro ne dimezzava gli spettatori, perché non è che tutti fossero d’accordo.
Ma a Miguel tutto questo interessava molto poco. Era stato chiamato per la prima squadra, ma così (“Beh, vieni anche tu, così ti proviamo…”), anche perché portieri non è che ce ne fossero molti, appena un altro, ma a lui i commenti e gli sguardi scivolavano come l’acqua sul vetro. L’altro non era molto meglio di lui, pensava, anzi aveva poca presa e temeva le uscite, mentre lui il pallone se lo stringeva al petto con la forza di braccia abituate a sollevare ceste d’uva o covoni di fieno, e quanto alla paura, forse l’avevano gli altri, quando lo vedevano uscire urlando “Mia!!!” col profilo mongolo stravolto e le mani protese ad abbrancare la palla. Almeno così si sognava lui quando vedeva l’altro giocare, e chi gli stava intorno lo sorprendeva ad agitarsi, saltare, muoversi come fosse in campo.
Quasi alla fine di quella stagione, che un po’ si erano inventati contro squadre dei paesi vicini e qualche formazione raccogliticcia che trovavano nei dintorni, un giovedì dopo l’allenamento Benigno si avvicinò a Miguel con mezzo sorriso e gli disse sottovoce: ” Beh, pronto sei?”“ E per cosa?”, gli rispose sospettoso.“ Domenica giochi”.“Ma stai scherzando?”, sobbalzò.“No, ne abbiamo parlato prima tutti insieme, giochi”.“Ed Emanuele, il titolare?”“E’ partito, a Torino”.“A giocare?”, sussurrò Miguel senza più saliva in bocca.“Eh, magari. A lavorare. Il fratello gli ha trovato un posto da manovale nell’impresa dove lavora anche lui. Ma si doveva presentare subito, ha preso il piroscafo ieri notte e domani sta già in cantiere”.
La sera prima della partita Miguel si portò a casa la divisa della squadra, quella che non aveva mai indossato. Il maglione nero col grande 1 bianco cucito sulla schiena, i pantaloncini imbottiti ai fianchi, le ginocchiere, i calzettoni e le scarpe con i tacchetti che, s’accorse, gli stavano un po’ strette ma entravano egualmente. La madre lo vide spargere tutto quel ben di Dio sul divano che gli faceva da letto, sgranò gli occhi e gli sussurrò soltanto: ”Ih, magari te la lasciassero per l’inverno tutta questa roba….. !”. Il giorno dopo, un’ora prima della partita, Miguel uscì da casa sua vestito di tutto punto e anche con il pallone sotto il braccio. I tacchetti battevano sull’acciottolato dei venti metri di strada che lo separavano dal campo, dove entrò per secondo nello stanzone che faceva da spogliatoio. Prima di tutti come al solito arrivava Ulisse, ma lui veniva da fuori e l’accompagnava suo padre con una vecchia Vespa. Si salutarono con una stretta di mano e un sorriso. “E i guanti, dove li hai messi?”, gli chiese Ulisse. “Oh, non mi piacciono, il pallone lo prendo meglio con le mani, pelle contro pelle”. Arrivarono anche gli altri, uno alla volta, Moriconi, Nobile, Pisu, Benigno e via via. Chi gli dava la mano, chi una pacca sulla spalla, chi un “ciao” da vecchio commilitone. Solo Ninetto gli strizzò l’occhio sorridendogli: ”E allora, Anto’?”. Non lo aveva mai chiamato per nome e anche Miguel gli sorrise.
Quando stavano per entrare in campo si accorsero improvvisamente di non avere il portiere di riserva. Già, era sempre stato lui. Benigno, che era il capitano per anzianità, si guardò intorno e arruolò all’istante un segnalinee che non aspettava altro: ”Tu sei anche il portiere di riserva, vallo a dire all’arbitro, che si trovi un altro per sostituirti”.Andò tutto bene e i pochi palloni che Miguel toccò servirono soprattutto per rassicurare i compagni che vinsero per conto loro, ma alla fine gli fecero tutti i complimenti come se avesse partecipato anche lui. Altre partite andarono meno bene, nel senso che fu impegnato un po’ di più, fece qualche parata e prese anche qualche goal, ma a parte il primo non si arrabbiò più di tanto. In quell’occasione, delicato come un bulldozer, Benigno gli aveva gridato: ”Oh, ti hanno sverginato!”.
Miguel lo guardò come per incenerirlo, poi sussurrò per non farsi sentire: ”Pensa a tua sorella…”, e si rimise in porta a testa china. Insomma ormai la squadra un portiere ce l’aveva anche se più d’uno aveva notato certe indecisioni di Miguel specie sui palloni bassi, che non lasciavano tranquilli i difensori. Qualcuno provò anche a dirglielo, con una certa delicatezza, ormai era quasi un anno che giocavano insieme, ma lui si rivoltò inviperito: ”Perché non provi tu!…” e col piede batté rabbiosamente il fondo del campo secco e sassoso, con la pietra arenaria della vecchia cava che affiorava in superficie su qualche punto del campo che i giocatori evitavano accuratamente. Ma lui, che ne aveva due proprio nell’area di porta non poteva evitarli, così ogni volta che poteva evitava di buttarsi a terra o lo faceva in modo scomposto come quella volta che un pallone rasoterra gli era passato sotto la pancia perché lui si era buttato in ritardo.
Cominciarono così a correre voci, ma sotterranee almeno all’inizio, sul portiere che non si tuffava e poiché nell’ambiente le voci correvano veloci, qualcosa era arrivata anche all’orecchio delle squadre avversarie che lo misero spesso alla prova con palloni rasoterra, con alterne fortune. Qualcuno lo prendeva o lo respingeva di piede, altri doveva lasciarli passare perché il suo fisico rifiutava quella trappola che, lo sapeva, gli sarebbe costata un etto di carne grattugiata sul terreno. Il guaio, però, era che i dirigenti avevano deciso di far crescere la squadra per riuscire a iscriverla al campionato regionale e si erano mossi da una parte all’altra, seguendo quei giocatori che venivano segnalati da amici o parenti.
Non era una vera e propria campagna acquisti, anche perché i soldi non si sapeva neppure cosa fossero, ma con qualche promessa e tanti sogni di gloria riuscirono comunque a rubacchiare un mediano e una mezzala (che oggi sarebbero un esterno di fascia e un attaccante d’appoggio ndr) a due squadre dei paesi vicini, oltre a un centravanti un po’ matto ma molto deciso che sfilarono, niente meno, a una squadretta ma della città vicina, dove non trovava posto perché era troppo indisciplinato.
Così la squadra era praticamente fatta per tentare l’impresa, anche se nella mente e sulla punta della lingua di tutti restava quell’interrogativo che nessuno osava proporre per primo: ”E il portiere?”. Giudizi pesanti e anche quasi definitivi se n’erano scambiati più di una volta, ma la decisione era difficile da prendere. Perché Miguel bene o male assicurava un certo rendimento costante, perché con la sua faccia mongola e il carattere brusco era diventato il beniamino di tutti i ragazzini della zona, che perdipiù, da quando lui giocava, avevano smesso di tirare i sassi a raffica contro i calciatori che scendevano in campo.
Bisogna sapere infatti che la vecchia cava da cui era stato ricavato il campo sportivo aveva un lato ancora da scavare che faceva da quinta in alto, e lì si sistemavano tutti i ragazzini del quartiere di S. Isidoro, detto Corea perché era il più povero del paese, per accogliere a sassate tutti quelli che arrivavano a giocare nel “loro” campo, perché la ritenevano un’invasione.
La domenica, quando giocava la squadra dei “grandi”, degli adulti decisi scalavano la quinta di pietra arenaria per convincere con le buone o le cattive i ragazzini a sloggiare. Chiaramente, la situazione non poteva andare avanti così a lungo, fino a quando una mattina Miguel che passava di là per tornare a casa, vide una sassaiola e decise di intervenire. I ragazzini erano una decina ma lui si rivolse a quello più grande che sembrava il capo, chiamandolo con un gesto della mano. Parlò per un minuto, non di più, poi mentre tutti gli altri gli si facevano intorno, si voltò e andò via. Da allora, nessuno tirò più i sassi in campo. Perché Miguel era Miguel, il portiere, e poi era uno di loro.Intanto, però, le ricerche continuavano. “Se lo troviamo….”, accennò uno. “E’ una parola”, disse un altro. “Ma non può andare bene ancora lui?”, suggerì il terzo. Il quarto tagliò la testa al toro: ”Sì, e i tiri rasoterra li pari tu!”. Si misero in caccia anche se nessuno disse niente e furono settimane di passione che s’interruppero il giorno in cui il cugino di uno dei quattro disse: ” Ma un portiere state cercando? Ve lo trovo io, se mi pagate bene”. “ E chi cavolo è?”, gli chiesero in coro. “Uno studente”, disse sorridendo.
Non gli risposero di andare a quel paese ma molto peggio e poiché lui continuava a sorridere alzandosi per andar via, fiutarono una trappola e gli concessero: ”Allora digli di venire a provare domani, così vediamo”. Il cugino sogghignò: “Lui non prova, ha già una squadra. Se lo invitate, viene a un allenamento, visto che abita da queste parti”. Tre giorni dopo Renato si presentò al campo, accompagnato dal cugino. Salutò con un “ciao a tutti” prima di levarsi il cappotto che copriva una tuta nera.
Era un lungagnone magro, con lunghe dita nervose e uno sguardo che non invitava alla confidenza. Lo guardarono tutti con una certa sorpresa mentre si apprestavano a cominciare i rituali giri di campo sotto la guida di un allenatore anche lui in prova, severissimo, capace di urlare dall’inizio alla fine degli allenamenti e che tutti avevano ribattezzato chissà perché “Barabba”. Renato si mise in coda alla fila, subito dietro Miguel e si perse così i commenti che accompagnavano il suo arrivo: “ma io quello l’ho già visto”, “magrolino com’è alla prima entrata lo sfondo”, “studente e pure superbo”, “ma è una faccia…”. Finché Gianpaolo, il fratello di Ninetto, che giocava terzino (oggi difensore di fascia ndr) non ebbe l’illuminazione giusta: ”Ecco dove l’ho visto, in corriera! Aveva i libri, tornava da scuola, credo sia figlio di……e hanno una casa anche in paese, ma di solito stanno in città”.
Chiarito il mistero e completati i giri di campo, dopo qualche esercizio ginnico di cui nessuno aveva mai capito bene l’utilità perché quasi tutti facevano abbondante ginnastica nei rispettivi mestieri, Barabba li predispose per la partitella d’allenamento contro una squadretta di ragazzini per, diceva, “provare gli schemi”. A Renato indicò la porta dei ragazzini: ”Tu vai lì“. “Posso tenere la tuta?”, chiese il portiere e si avviò lentamente levandosi dall’elastico dei pantaloni i guanti rossi. “Dai che ci divertiamo”, disse Felice a Marreddu, centravanti e ala sinistra, che voleva essere quasi una dichiarazione di guerra al portiere. E per un po’ si divertirono in effetti, giocando a dribblare tre o quattro ragazzini e tirando poi in porta a colpo sicuro.
Fecero due o tre goal, che non contavano niente, ma quando sentirono il portiere cominciare a urlare verso i ragazzini perché si svegliassero e videro, soprattutto, Renato levarsi i pantaloni della tuta si fecero un gesto d’intesa come per dire “beh, allora facciamo sul serio”.Un altro goal in effetti lo fecero ma dopo essersi visti parare una decina di tiri a colpo sicuro da quel ragazzo lungo e magro che sembrava essere fatto di gomma. Solo una volta lo videro ricadere dopo aver abbrancato il pallone e fermarsi a massaggiare un ginocchio che sanguinava. Miguel dall’altra parte del campo sorrise, lui quel fondo roccioso lo conosceva bene, che imparasse anche lo studente che era sicuramente abituato all’erbetta dei campi di città. Dopo un’oretta Barabba fischiò la fine e si avvicinò a Renato: ”In che squadra giochi?”“Io non gioco, studio”, la risposta.“Sì, va bene, ma la domenica?”“ Beh, sì, qualche volta gioco con il Sant’Elia…..”Il cugino si era fatto avanti: ”E allora cosa ve ne pare del mio campione? Lo volete in squadra?”Miguel, che passava vicino, lo guardò male ma non disse niente. Fu Renato, lasciando gli altri a chiaccherare, ad avvicinarsi al vecchio portiere.“Ci siamo visti solo da lontano - gli disse tendendogli la mano - e non mi sono neppure presentato”.“ Sei bravo”, gli rispose asciutto Miguel.“Lascia perdere, piuttosto è tutto così il campo, con le rocce che affiorano?”, e gli mostrò lo sbrego che gli copriva il ginocchio e metà coscia.“Nella mia porta è anche peggio, se vuoi provare”.Renato sorrise e scosse la testa, Miguel si avvicinò al rubinetto per lavarsi la faccia e le mani, le docce erano in programma per l’anno successivo, se avessero giocato in promozione regionale.“Ma tu -chiese Miguel mentre si asciugavano- devi giocare qui?”Il cugino entrò di corsa e col viso spalancato in un sorriso: ”Renato, vieni, l’allenatore ti vuole parlare”.
Miguel capì e non attese la risposta. Prese la sua roba e si avviò all’uscita, senza salutare nessuno. Gli altri capirono e finsero di non vederlo. La domenica il vecchio portiere venne al campo in borghese, cioè col suo vecchio maglione stinto e i pantaloni di velluto. Sua madre non gli aveva detto niente e solo uno dei fratellini lo aveva accompagnato alla porta. Al campo trovò i dirigenti che il giorno dell’allenamento gli avevano detto e non detto qualcosa, che “è solo una prova”, “non devi preoccuparti”, “è uno studentello”, qualche pacca sulle spalle. Ma lui non aveva bisogno di tutto questo: sapeva che era stato il portiere di calcio del paese e adesso non lo era più. Lo leggeva negli occhi di chi lo salutava e ancora di più nelle spalle di chi voleva nascondere l’imbarazzo. Quando la partita stava per cominciare si sedette su un sasso che stava dietro la porta e attese l’arrivo di Renato. E mentre il portiere si avviava lungo e dinoccolato alla linea di porta, avvenne il fattaccio. Dall’alto della parete che delimitava la cava partì una salva di fischi prolungata alla quale seguì un primo lancio di sassi rivolto verso la porta di Renato, i ragazzini della “Corea” volevano il loro portiere, non quello venuto da fuori. Pochi metri più indietro Miguel si alzò di scatto, per farsi vedere, si portò le dita alla bocca ed emise due sibili lunghi e secchi come fucilate. La pioggia di sassi s’interruppe e la partita poté cominciare. Andò tutto bene, con la squadra che vinse e il pubblico che seguiva soprattutto le mosse di quel ragazzino che stava in porta per la prima volta ma sembrava esserci stato da sempre. Comandava la difesa con urla che si sentivano fino all’altra parte del campo, usciva al momento giusto e quando lo chiamavano direttamente in causa volava fino a togliere il pallone da sotto la traversa o si accartocciava a terra per un tiro improvviso che aveva già fatto gridare al goal. “Sembra un gatto”, commentavano dirigenti e pubblico, ma Barabba che aveva l’occhio lungo, e anche la memoria, disse soltanto: ”Mi ricorda Gesuino, farà strada”. Gesuino era il mitico portiere di una decina d’anni prima che era rimasto negli occhi e nel cuore di tutti, ma un giorno era sparito, come tanti, per andare a fare il muratore in Francia, dove pagavano più che a Milano. Poi tutti avevano scoperto, da una sua lettera alla famiglia, che lo aveva preso una squadra della serie C francese, che il padrone gli dava i permessi per allenarsi e che “mi pagano anche per giocare”.
Miguel aveva seguito la partita del suo rivale con un’ammirazione che non riusciva a reprimere, però con l’occhio clinico di chi sapeva “questo lo avrei parato anch’io”, “questa è bella”, “ordinaria amministrazione”, “mamma mia, come ha fatto?”. Alla fine della partita, per non fare la figura del tignoso, entrò anche negli spogliatoi accolto da molti sguardi meravigliati e dalla mano tesa di Renato che lo aveva visto arrivare: ”Proprio te cercavo”. Uscirono insieme, il vecchio e il nuovo portiere, con i ragazzini che li seguivano e molti sguardi che li accompagnavano, incuriositi. Cosa potevano avere da dirsi ? Il mistero fu svelato due giorni dopo, quando Miguel si presentò nel pomeriggio al campo, vestito di tutto punto come se dovesse giocare. Un ragazzo gli disse: ”Ma l’allenamento è domani…..” Gli sorrise: ”Non preoccuparti”. Arrivò anche Renato con la sua tuta nera e poi Nino e Benigno, due tiratori scelti che avevano trovato disponibili.
Chi vide dall’esterno ciò che accadde dopo, ci capì poco ma rimase comunque colpito da quel curioso balletto che i due portieri eseguivano sotto la porta, poi quando si buttavano a terra senza il pallone, ma come se l’avessero in mano. Poi Renato cominciò a lanciare il pallone con le mani, in alto, in basso, a mezz’altezza, fino a quando Miguel non si sedette per terra, esausto. Bevettero dal rubinetto per rinfrescarsi un po’, poi cominciò il bombardamento. Nino e Benigno, senza avversari che li contrastassero, potevano sfogarsi e lo fecero, bombardando a turno l’uno e l’altro, senza pause se non quelle per andare a prendere il pallone, quando finiva troppo lontano. In quei momenti Renato parlava fitto fitto con Miguel, che assentiva.
La domenica successiva lo studente si esibì ancora a difesa della porta e Miguel,seduto sul suo solito sasso, lo guardava. Si ritrovarono due giorni dopo, al mattino, per il solito allenamento con i tiratori scelti. E andarono avanti per settimane, fino alla vigilia di Natale. Fu allora che Renato svelò: ”La settimana prossima vado via, torno a scuola”. Miguel quasi cadde per terra: ”E io?”. “Tu niente, sei pronto, riprendi a giocare. Ma non dire niente a nessuno, ne parlerò io a Barabba”. Così, passata la festa e ripresi gli allenamenti con tutta la squadra, il giovedì pomeriggio Renato si presentò al campo con un paio di pantaloni ben stirati, un giubbotto caldo e la cravatta. “Guarda che non è ancora carnevale”, gli disse Barabba che non aveva molto senso dell’umorismo.“Vado via, torno a studiare, gliel’avevo detto che avevo solo due mesi, perché mio padre era fuori in missione e mi aveva lasciato qui con una zia……”“Ma io pensavo che la passione per il calcio, l’ambiente, siamo tutti amici…e noi adesso come facciamo?”“Il calcio è bello, ma voglio finire gli studi. Se tutto va bene, l’anno prossimo ho l’università. Voi, che problema avete? C’è un fior di portiere che aspetta solo di riprendere il suo posto”. E davanti allo sguardo sbalordito di Barabba, concluse: ”Garantisco io”.
Barabba, che non era molto spiritoso ma neppure scemo, lo guardò con una smorfia che voleva somigliare a un sorriso: ”Ho capito”, e rivolto agli altri: ”Il ragazzino ci ha fregati tutti”.Miguel riprese il suo posto tre giorni dopo e negli spogliatoi trovò la prima sopresa: un paio di guanti rossi nuovissimi. Sceso in campo trovò la seconda. Il terreno davanti alla sua porta era come arato, zappettato. Ci andò sopra con la scarpa e si accorse che la roccia era sparita, il piede poteva affondare nella terra morbida. Un lavoretto notturno che Renato aveva fatto con i ragazzini della sassaiola, ai quali non sembrava vero di poter riavere il loro portiere nella loro squadra. A Renato come massimo complimento dissero:” Oh, tu non sembri neppure uno di fuori”.
Il treno che tornava verso la Germania sobbalzò attraversando un ponte. Miguel aprì gli occhi, vide il buio fuori e cercò ancora un po’ di sonno.
La giornata di lavoro che l’aspettava era pesante.


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